Giuseppe Galasso, Storia della storiografia italiana. Un profilo.
La storiografia italiana ha partecipato alle stagioni dell’ “imperialismo della storia” e oggi, come in altre parti del mondo, vive la sua crisi.
Il primato storiografico italiano nell’Europa del Rinascimento non è stato solo di ordine tecnico, per così dire. Alle innovazioni nei metodi e negli strumenti della ricerca si è accompagnata l’invenzione di grandi idee storiografiche come quella di Medioevo e di Moderno. Poi il laboratorio di innovazioni e riflessioni è approdato a Muratori e Vico: e l’autore della Scienza Nuova è stata la stella più brillante della profondità teoretica della storiografia italiana. Dalla nuova stagione del pensiero politico nel Settecento alla storiografia della prima metà del Novecento la cultura italiana ha svolto un ruolo di primo piano nella costruzione europea dell’ “imperialismo della storia”. Tra Ottocento e Novecento, grazie a personalità come Carlo Cattaneo, Antonio Labriola, Giovanni Gentile, Benedetto Croce e Antonio Gramsci, la ricerca ha sempre affondato le sue radici in una filosofia della storia, costruita non come un metafisico fondamento “ex ante”, ma come un pensiero, una linea direttrice di riflessione “ex post”.
E’ questo il filo rosso che tiene insieme la prima parte dell’ultimo libro di Giuseppe Galasso, Storia della storiografia italiana. Un profilo (Laterza 2017), dal 21 settembre in libreria. I pregi dell’opera sono molteplici. Innanzitutto la mirabile capacità di sintesi non penalizza mai la riflessione e l’approfondimento. In poco più di duecento pagine Galasso offre uno strumento di conoscenza dalla chiarezza esemplare che mancava nell’attuale produzione editoriale. L’altro elemento di interesse è la struttura del volume costruito in due parti: la prima dedicata a “una tradizione di quindici secoli”, in cui sono ricostruite novità e discontinuità dalla storiografia classica alla moderna, dal Medioevo alla seconda guerra mondiale; l’altra parte, “dalla tradizione alla ricerca di altre dimensioni”, che copre il periodo compreso fra il secondo dopoguerra e gli anni Novanta del Novecento. Come appare immediatamente evidente, si tratta di una proposta originale di periodizzazione che rende possibile comprendere sia gli elementi di lunga durata della storiografia italiana sia i suoi caratteri originali. Il terzo pregio sta nella possibilità di identificare, per molti aspetti affrontati nella seconda parte dell’opera, il ritratto della storiografia italiana nella seconda metà del Novecento con la biografia dell’autore. Soprattutto fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, sia il riferimento ad organismi importanti della ricerca, come il napoletano Istituto per gli Studi Storici, sia il nesso antifascismo-liberaldemocrazia come nucleo ispiratore di settori della storiografia italiana, sia l’influenza di Croce e Gramsci costituiscono insieme parte integrante del vissuto di Galasso e uno spaccato della congiuntura storiografica.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso “la ricerca di altre dimensioni” ha significato soprattutto la fine dell’influenza tedesca e una più significativa presenza delle storiografie francese e inglese in quella italiana, l’affermazione della storia contemporanea con prevalenza di orientamento gramsciano, non disgiunta, tuttavia, dal rilievo di ben tre generazioni di modernisti, influenze extradisciplinari soprattutto delle scienze antropologiche e sociali.
Per Galasso oggi la crisi della storia è soprattutto crisi del suo concetto e della categoria della storicità. Ne sono aspetti evidenti l’erosione delle posizioni della storia nella vita scolastica a tutti i suoi livelli, le forme di revisionismo ideologicamente programmato, il ricorso taumaturgico alle scienze sociali, quasi che esse possano esorcizzare la crisi di identità della storia, il primato del tecnicismo e del particolarismo della ricerca sulle interpretazioni generali e complessive dei processi storici. Per l’Italia “si è chiuso del tutto il dopoguerra storiografico” anche per “il mutamento politico nel tramonto di quella che fu (discutibilmente) definita Prima Repubblica” e per la crescente integrazione dovuta alla globalizzazione.
Nelle pagine conclusive l’autore riafferma la profonda convinzione storicistica “che il senso storico delle crisi è quello di un processo di più o meno radicali trasformazioni e, rispetto alla fine della storia, che quando una storia finisce un’altra ne inizia, per cui nella storia nulla davvero si perde di ciò che, sia pur di minimo, in essa è fiorito”.