Il declino dello Stato e il ritorno dei populismi
Alla fine del ventesimo secolo, un lento e inesorabile declino ha iniziato a corrodere l’essenza stessa dello Stato, convertitosi agli occhi di molti nel peggiore nemico del bene comune. Eppure, è proprio in questo lasso di tempo che iniziano a diffondersi a macchia d’olio dei movimenti spontanei che avrebbero dovuto cambiare le sorti del mondo. O, almeno, così si pensava allora.
Cos’è successo? Come siamo arrivati a Beppe Grillo e alla politica delle piattaforme sul web? Com’è possibile che – su quelli che Paul Ginsborg definiva i “laboratori di democrazia” – abbiano finito per prevalere i nuovi nazionalismi? Che si sia arrivati a mettere in discussione perfino l’utilità del Parlamento, che della democrazia e della rappresentanza è la massima espressione?
La crisi dello Stato e la società post-ideologica
Il tentativo di sminuire il ruolo del Parlamento e della rappresentanza – come dimostra, tra l’altro, la presa di posizione di Grillo in occasione dell’ultimo referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari – è la spia di un malessere più generale. E che affonda le sue radici in quello che Tony Judt ha definito il “declino dello Stato”, il cui esordio va collocato sul finire del ventesimo secolo.
A partire da quel momento, si è andata diffondendo in modo capillare la convinzione che lo Stato impedisca (con le sue innumerevoli pastoie burocratiche, con i ritardi, con la corruzione di alcuni suoi funzionari) il buon andamento degli affari umani.
Da qui l’ingente ricorso alle privatizzazioni, nell’ultima parte del secolo scorso, con conseguenze piuttosto onerose sui cittadini, anche in termini di vite umane, come abbiamo avuto modo di osservare nel corso della pandemia da covid-19 con ospedali al collasso e sanità pubblica in ginocchio.
L’oblio del Novecento
Non è forse un caso che, nel leggere le riflessioni di Alberto Di Pisa sulla democrazia diretta e indiretta, venga subito in mente un testo molto importante scritto dallo storico britannico Tony Judt e pubblicato da Laterza: L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900.
Ed è proprio a partire da alcune considerazioni contenute in quel libro che è possibile delineare una riflessione.
È sul finire del Novecento, dunque, che secondo Judt, si sarebbe diffusa una forte disaffezione alla politica: la gente ha iniziato a credere che le ideologie o i sistemi di credenze stessero scomparendo. Oggi, in un’epoca che si definisce post-ideologica, non si può certo negare che le ideologie formatesi nel corso dell’Ottocento e poi sviluppatesi nell’arco del ventesimo secolo, abbiano subito un profondo mutamento. Né, d’altra parte, sarebbe possibile immaginare uno scenario diverso.
Le nuove paure
Le paure con cui i cittadini delle democrazie occidentali devono fare i conti oggi sono, infatti, diverse da quelle del secolo scorso: il terrorismo internazionale, la velocità del cambiamento determinato dalla globalizzazione, la disoccupazione ma, soprattutto, il timore che «non solo non possiamo più decidere della nostra vita, ma che anche coloro i quali comandano hanno perso il controllo in favore di forze oltre la loro portata».
Questo punto della riflessione di Judt è cruciale, a mio parere, perché ha il merito di spiegare l’avanzata dei populismi, della xenofobia, della chiusura delle frontiere, dei nazionalismi esasperati, della politica dell’insicurezza.
La nascita dei nuovi movimenti sociali
Eppure, alla fine del Novecento qualcosa aveva iniziato a muoversi nella società. La spinta decisiva che portò alla nascita di nuovi movimenti sociali venne proprio dal crollo delle ideologie e dalla crisi delle istituzioni.
Il 30 novembre del 1999 a Seattle (Stati Uniti) un gruppo di manifestanti bloccò il palazzo delle conferenze in cui avrebbe dovuto riunirsi l’assemblea generale dell’Organizzazione mondiale del commercio e quattro mesi più tardi, il 6 aprile del 2000, a Washington una nuova mobilitazione travolse una riunione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
La protesta si estese, toccando l’Europa; in particolare in Francia, il movimento Attac (Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini) diede inizio alla lotta di rivendicazione della Tobin Tax. A macchia d’olio, la gente – specialmente i giovani di trent’anni – tornò a riversarsi nelle piazze contro la disoccupazione, il precariato, l’esclusione, la povertà, le disuguaglianze e le violenze. C’era il Messico con il movimento zapatista, il Brasile dei Semterra, la Germania con la marcia dei disoccupati.
Dall’Europa al Giappone contro le disuguaglianze
Persino in Giappone apparvero nuove e timide forme di aggregazione e di protesta sociale.
I sindacati tentarono di mettersi alla guida delle agitazioni, ma i movimenti sembravano mobilitarsi proprio per sopperire al fallimento della governance.
Secondo il sindacalista francese Christophe Aguiton, autore del libro Il mondo ci appartiene, edito da Feltrinelli, la novità di queste mobilitazioni mondiali era proprio la natura spontanea e totalmente scissa dalle consuete forme di rappresentanza: sindacati e partiti di sinistra.
Perché? Certamente un ruolo fondamentale lo esercitò la radicalizzazione a destra dei sindacati. Ma tutt’altro che secondaria fu anche la partecipazione di diversi partiti di sinistra alla gestione di governo in molte realtà europee e sudamericane. Sindacati e partiti – convinti che la globalizzazione liberista fosse l’unica e imprescindibile strada per la progettazione di qualsiasi percorso di natura politica ed economica – iniziarono a essere percepiti come nemici del bene comune.
La mancanza di visione politica della sinistra mondiale e il trionfo dei populismi
D’altra parte, tuttavia, apparve subito chiaro come la sinistra mancasse ormai di una qualsiasi idea progettuale di governo.
A tal proposito, Judt affermò: «la sinistra non ha idea di cosa potrebbe significare un suo successo politico, se riuscisse a conseguirlo; non ha una visione articolata di una società buona, o semplicemente migliore, di quella attuale. In assenza di una simile visione, far parte della sinistra non è che prendere parte a una protesta permanente».
È in questo vuoto, dunque, che sono germogliati i semi dell’antipolitica e dei populismi? E che fine hanno fatto quei movimenti sociali così promettenti sbocciati alla fine del Novecento?
I tre blocchi
Una risposta potrebbe venire proprio dallo stesso Aguiton. A partire da Seattle, ad animare la protesta sono stati infatti tre blocchi: uno radicale e internazionalista contrario alle risposte nazionali e protezioniste ma anche alle riforme considerate limitate e subordinate alla volontà della governance; l’altro nazionalista che vedeva negli stati-nazione l’unica forma possibile di governo (da qui deriverebbero movimenti come quello della Le Pen in Francia e la Lega Nord di stampo salviniano) e infine un polo neo-riformista convinto assertore della global governance, oppositore radicale delle forme estreme di neoliberismo e nazionalismo.
In che modo e perché tra i tre sia prevalso il secondo blocco sarebbe utile indagare per tentare di trovare la chiave interpretativa al presente – ancora in fieri – che ci tocca in sorte di vivere.