Il Vigilia e il pranzo di Natale. Palermo, anno 1853
In questo 2020 dovremo rinunciare alla convivialità altamente simbolica dei giorni delle feste. Niente ci vieta, però, di sederci, nell’Ottocento, con gli allievi del Real Collegio Carolino o di assaporare, attraverso la lettura, i piatti dello chef Salvatore Ragusa nelle cucine di Villa Scalea ai Colli
Il Natale, la pandemia e il Dpcm
La celebrazione dei momenti di passaggio che scandiscono il divenire del tempo durante l’anno solare si sono sempre articolati in due momenti: quello cerimoniale-rituale, nel quale si evidenzia in modo solenne il momento del passaggio e quello del banchetto, dove si consuma il cibo in comunione per rafforzare con il convivio i rapporti di solidarietà familiare o professionale.
Il Natale rappresenta uno dei momenti di passaggio che la pandemia di quest’anno ha scompaginato e svuotato. La cerimonialità è stata infatti sconvolta con il colpo di ariete del Dpcm, che ha fatto sparire Messe di mezzanotte, concerti e altri momenti collettivi di compartecipazione ai riti collegati alla fine dell’anno.
L’altro colpo è stato subìto, sempre a opera del decreto presidenziale, dalla convivialità con la riduzione al minimo del numero dei commensali e con il divieto ai locali di predisporre i cenoni.
Come sopravvivere alla nostra solitudine e all’improvviso vuoto cerimoniale e conviviale provocato dal Dpcm?
Altra domanda che ci si pone è se la distrutta convivialità del Natale abbia avuto nel tempo la stessa sintassi o se sia mutata. Non rimane che avvicinarsi agli scaffali della libreria, cercare i volumi che affrontano i temi dello stare insieme a tavola e della storia dell’alimentazione, sedersi in poltrona leggere e riflettere.
Le tavole di Natale in passato: il Collegio Carolino
Metto in parallelo la lettura dell’organizzazione dei menu della mensa del real Collegio Carolino Calasanzio di Palermo (1) con quelli di un cuoco Salvatore Ragusa che ha imparato il mestiere a casa di Pietro Lanza Branciforte di Trabia, principe di Scalea, nelle cucine di Villa Scalea ai Colli sotto la guida vigile della baronessa Dorotea Fardella (2).
Il refettorio assicurava, quotidianamente, l’erogazione di pasti per 46-49 convittori, 9 sacerdoti e 16-19 impiegati. Un servizio che prevedeva una merenda (colazione), un pranzo e una cena. La merenda era costituita da pane e frutta: una pagnotta a testa per ogni convittore e frutta fresca di stagione che in alcuni casi era sostituita dal formaggio fresco.
Il pranzo si articolava in due portate: un primo, un secondo, insalata e verdure, vino e frutta fresca o secca, oltre al pane previsto per almeno una pagnotta e mezzo a testa. La cena aveva una sola portata, molto spesso di pesce, accompagnata da insalata e verdura, vino, frutta fresca di stagione, o in alternativa, frutta secca.
Ma facciamo un salto indietro nel tempo e vediamo cosa si mangia in mensa il 24 e il 25 dicembre 1853.
La Vigilia di Natale
Pranzo e cena a base di pesce si servono a 73 convitati: oltre alle “occhiate” figurano anche 9,6 chili di “sarde a beccafico” per il cui condimento si usano uva passa, pinoli, olive, zucchero, limoni. Sarde a beccafico alla palermitana, insomma. Il tutto accompagnato da pane abbondante e dal vino. Niente dolci.
Il pranzo di Natale
I convittori vanno a casa dai genitori, mentre si recano a mensa gli impiegati, ai quali viene servita pasta grossa condita con ragù fatto con pezzi di prosciutto e ossa di costato. Dopo l’insalata e la frutta si servono pure delle sfogliatelle.
Il dato che emerge leggendo questi menù e le liste dei cibi preparati è che nelle comunità non si riscontra un concetto di “cenone” o di “pranzo” particolarmente ricco e con un numero di portate diverse da quelle servite normalmente, mancano i dolci e non si struttura un menù diverso da quello ordinario. Non si altera, insomma, la sintassi del menù che non deroga dall’ordinario binario. Unico strappo: le sfogliatelle solo il giorno di Natale, non esiste il panettone.
Il ricettario maestoso del cuoco Salvatore Ragusa
La lettura comparata tra il ricettario di Salvatore Ragusa e il libro dei conti del Collegio Carolino evidenzia la differenza della sintassi gastronomica utilizzata dai due mondi.
Le logiche gastronomiche dei menu adottati dal responsabile della mensa del Carolino sono diverse da quelle del Ragusa e hanno come riferimento la realtà delle cucine delle famiglie della “borghesia”.
Ovviamente si riscontrano diversi punti di contatto, come l’uso dell’agrodolce e la scelta di piatti propri della tradizione palermitana, come le arancine, ma nulla di più: le cucine dei due mondi seguono logiche e soprattutto sintassi differenti. Altro dato da rilevare è la mancanza nelle ricette del cuoco di un riferimento ai pesci, solidamente presenti nella cucina del Carolino (come “occhiate”, sgombri, sarde, aguglie o merluzzi); inoltre, non si fa alcun accenno alla frutta fresca ampiamente presente nel pasto dei collegiali.
Un trionfo di torte e budini e l’importanza della presentazione dei piatti
D’altra parte, Ragusa sa benissimo che un pranzo si chiude con un dessert dolce e non certo con la frutta fresca. Non a caso il cuoco elenca nel suo ricettario almeno 20 preparazioni tra torte e budini e le istruzioni per preparare i sorbetti e il gelo di mellone.
Altro tema importante che si ritrova nel testo di Ragusa è quello della presentazione del cibo sulla tavola quale complemento importante della grammatica gastronomica di master chef della nobiltà palermitana.
Non è causale che nel ricettario siano inseriti dei disegni per la presentazione di specifici piatti: vitella fredda all’italiana; torta alla parigina in due diverse presentazioni; torta margherita; torta con le mandorle; tronco di albero; quadretti giapponesi. Indica, inoltre. piccoli trucchi per ottenere certe preparazioni come quello di usare delle strisce di carta per distribuire lo zucchero in modo uniforme su alcuni dolci.
La tavola siciliana delle feste: una costante nella storia
La cerimonialità della tavola imbandita nelle sale da pranzo della nobiltà medio-alta in occasione delle festività natalizie non differisce di molto da quella rappresentata nel romanzo del Gattopardo o descritta dai viaggiatori stranieri ospiti in Sicilia.
Il conte de Borch, visitando Palermo nel 1777, afferma che un pranzo di gala in una casa nobiliare è una esperienza molto faticosa ma molto raffinata: cucina francese, vini stranieri, pesci mostruosi, profusione di dolci e di gelati deliziosi, argenteria superba, tovaglie eleganti, camerieri attenti e molto professionali nel servizio.
Due mondi diversi, una sintassi del cibo che segna il confine tra due realtà sociali profondamente divise, tra le sarde a beccafico e il timballo di maccheroni, tra lo sbrigativo inserviente della mensa del collegio e i compassati e professionali servitori delle case nobiliari palermitani pronti a riempire i bicchieri o a servire dai loro vassoi d’argento piatti raffinati.
Due mondi che celebrano il Natale con la cerimonialità degli auguri e con la convivialità a cui diamo, per forza di cose, appuntamento al prossimo anno.
Note:
1 Il Collegio è una struttura di formazione culturale laica, posto sotto l’alto patrocinio del re, disciplinato dal decreto del 13 giugno 1850 che prevedeva il supporto finanziario dello Stato. Borse di studio per il pagamento delle rette erano erogate ad allievi meritevoli ma non benestanti (alunni a piazza franca), nonché si assicuravano servizi come la mensa.
2 Il sapere culinario