Amari e l’adesione agli obiettivi unitari – “Allargare i confini”
A Parigi Amari ricomincia a difendere la Sicilia dall’accusa d’essere selvaggia, ma l’incanto s’è rotto: la lotta contro il Borbone si è presentata come lotta per la libertà ma fra preti, letterati e avvocati-clienti dei magnati non è riuscita a generare una moderna classe dirigente. Dal canto suo anche la monarchia è circondata dal discredito. Nel 1851 le lettere di lord Gladstone a lord Aberdeen le cuciono addosso parole di fuoco, la mettono al bando; per l’opinione pubblica internazionale il regno borbonico diventa “la negazione di Dio eretta a sistema”, e a nulla vale la difesa dell’ordinamento giudiziario o della buona amministrazione.
Amari prende atto del rifluire dell’ondata rivoluzionaria e ne rielabora gli esiti in pessimistica concezione della storia. Non c’è più posto per il progresso o per il popolo vittorioso, ne Il mio terzo esilio scrive “si replica la perpetua scena della umanità: i molti calpestati e spogliati dai pochi, e quel che è peggio la ragione oppressa dalla forza”. Lo storico ha ripreso a catalogare i manoscritti arabici della Biblioteca nazionale, “a cinque franchi al giorno per cinque ore di fatica fuori le feste e vacanze”; il resto della giornata lo dedica alla grande opera sui Musulmani, che si accinge a stampare grazie a una sottoscrizione promossa da Mariano Stabile. Lentamente si avvicina alla soluzione unitaria, è in contatto con Mazzini e nel maggio ’56 a Lionardo Vigo scrive: “l’animo mio è metà cangiato e metà intatto. Certamente io non amo un certo paese come facea una volta, certamente non credo, come prima, alla virtù dell’universalità degli uomini; ma ho la stessa fede nella virtù astrattamente parlando: la stessa carità di una patria che s’è allargata di confini”. Nel 1881, negli Appunti autobiografici, Amari avrebbe datato a sua aperta adesione agli obiettivi unitari al 1858: fa parte del comitato segreto degli emigrati siciliani, è in costante collegamento col conte suo omonimo, raccoglie fondi mettendo a frutto l’indubbio talento organizzativo. È fra quegli “avventati” che il borbonico luogotenente Castelcicala non riesce a comprendere, divulgatori di un’idea “strana e mostruosa per un paese… da molti secoli travagliato dalla brama di una propria autonomia”.