Un vano tentativo di arginare la piaga della prostituzione nella Palermo del cinquecento
Un vano tentativo di arginare la piaga della prostituzione nella Palermo del cinquecento
A. Giuffrida
La Palermo degli anni 40 del ‘500 è una città in piena espansione. All’interno delle sue mura affluiscono capitali, mercanti stranieri, avventurieri di ogni razza, schiavi e ogni altra sorta di personaggi che la rendono sempre più cosmopolita. Il consolidamento del suo ruolo di capitale amministrativa e, soprattutto, politica del regno di Sicilia ha come conseguenza quella di attirare non solo la nobiltà che lascia i suoi feudi all’interno dell’isola, ma anche il variegato mondo di artigiani, di servitori e di altre realtà che vivono in simbiosi con una “corte” degna di tal nome.
In questo contesto si sviluppa e diventa sempre più visibile il fenomeno della prostituzione alimentato, anche, dal flusso sempre più consistente di nuovi immigrati che vengono attirate, come delle falene, dall’opulenza della città. I responsabili del governo del comune di Palermo sono pressati dall’opinione pubblica dei benpensanti per escogitare dei provvedimenti per porre un freno all’espandersi del fenomeno dell’aumento del numero delle cortigiane e, soprattutto, alla loro arrogante presenza sulle strade dove si pavoneggiano con abiti costosissimi camminando con andatura sensuale utilizzando scarpe dalle suole altissime.
Gli interventi che gli amministratori comunali elaborano per far fronte all’emergenza cortigiane sono duplici: il primo è costituito da un’imposizione fiscale da imporre sulle cortigiane che vogliano passeggiare per le strade con abiti eleganti; il secondo è mirato a realizzare un rifugio dove accogliere tutte le cortigiane che si convincano ad abbandonare il mestiere.
Il 12 giugno 1543 si presentano davanti al notaio alcuni “deputati “a ciò delegati per costituire una struttura in grado di assolvere a queste esigenze. Si fonda, su una struttura ecclesiale già preesistente, il monastero denominato delle “repentite” dove potessero avere accoglienza non solo le donne desiderose di sottrarsi alla “ vita “, ma anche le fanciulle vergini appartenente a famiglie povere, di bella presenza che facilmente potevano cadere nelle mani di coloro che controllavano il mercato della prostituzione a Palermo. Il meccanismo è molto semplice e si serve della creazione di un istituto religioso dove le donne le fanciulle potessero essere accolte senza versare una dote (praticamente un capitale necessario per il loro sostentamento) grazie all’erogazione di finanziamenti sia da parte del comune, sia da parte di privati benefattori.
In un primo momento si destina al nuovo monastero il gettito della gabella imposta sulle cortigiane, ma ben presto questa gabella è abolita in quanto fallisce nel suo obiettivo di contenere l’afflusso sulle strade delle meretrici, e si punta all’erogazione diretta di finanziamenti da parte del comune, della regia corte e dello stesso viceré.
L’incalzare dell’inflazione e, soprattutto, lo scoppio della crisi che travolge l’economia siciliana alla fine del ‘500, provocano la crisi delle finanze comunali e, conseguentemente, il venir meno delle erogazioni liberali da parte sia del comune, sia della Regia Corte. Ne sono testimonianza le cifre che si ricavano dalla contabilità del monastero dei finanziamenti ricevuti dalla mano pubblica una lista breve ma significativa. Al contrarsi delle risorse finanziari fa da riscontro un aumento delle ospiti che sono accolte all’interno del monastero. Nel Seicento sono circa ottanta, nel 1752 sono 101. La situazione finanziaria del monastero diventa sempre più insostenibile, in quanto al contrarsi dei finanziamenti pubblici non fa riscontro un aumento dell’intervento del privato. Anzi il privato tenta di condizionare il monastero, nel momento in cui eroga delle liberalità, imponendogli di scegliere, attraverso complessi meccanismi di selezione da gestire da procuratori di loro fiducia, per la scelta delle fanciulle che devono essere ricoverate all’interno delle mura del monastero senza pagare una dote. Più che alle “repentite” l’attenzione si sposta nei confronti delle fanciulle che, appartenendo a famiglie povere che vivono in un contesto sociale degradato, possono facilmente essere avviate alla prostituzione.
Sono gli anni della seconda metà del settecento che mettono a dura prova l’esistenza stessa del monastero. I capitali affluiti nelle casse del monastero, grazie all’erogazione di liberalità, sono stati consumati per sopravvivere, senza la possibilità di poterle convertire in rendite, oppure utilizzate per lavori edilizi necessari sia per la migliore vivibilità del monastero, sia per ristrutturare i magazzini o appartamenti posseduti in modo da renderli fruibili sul mercato immobiliare.
In questo contesto nasce la tentazione di focalizzare l’attenzione della gente sul Monastero di Santa Maria delle Grazie “sub vocabulo delle Repentite” grazie alla diffusione della notizia dell’esistenza di una santa. Grazie ai suoi miracoli si sarebbero potuti incentivare donazioni e lasciti testamentari da parte di benefattori e, magari, invogliarli a far monacare le proprie figlie convogliando tramite loro consistenti flussi finanziari . Un tentativo che fallisce e che non riesce ad invertire il processo di implosione del monastero che lentamente si avvia alla decadenza e all’oblio.