Le interviste impossibili: Francesco Crispi
Le interviste si svolgono idealmente nell’ atrio della Società siciliana di Storia Patria nella cui biblioteca si conservano le carte e le testimonianze bibliografiche della vita dei personaggi che sono stati dei protagonisti della storia non solo Siciliana .
Intervista a Francesco Crispi
Francesco Crispi nacque nel 1818 a Ribera, ebbe un ruolo importante nell’impresa dei Mille. Dopo l’Unità fu il maggiore esponente siciliano del partito di opposizione, la Sinistra storica. Dopo la caduta della Destra storica ricoprì per due volte la carica di Presidente del Consiglio, negli anni 1887-91 e 1893-96. Si dimise subito dopo la sconfitta di Adua, che costò all’Italia 7000 morti.
Per il suo nazionalismo e per il programma coloniale, Crispi fu rivendicato da Mussolini come un precursore del regime fascista. Ma il giudizio storico sul suo operato è assai controverso, e ancora aperto. Al centro dell’azione politica di Crispi c’è il progetto dell’educazione nazionale degli italiani, e la volontà di promuovere una forte mobilitazione popolare in grado di condurre verso la creazione di una grande potenza europea.
Presidente…
L’evocazione degli antichi onori non allevia la miseria del presente. Ne rinnova il ricordo.
Presidente Crispi, non esiste un uomo che non abbia da rimpiangere qualcosa…
La mia rovina fu generata dal potere. I morti di Adua premono sulla mia coscienza, e sono tanti. Una folla di ombre mute, compatta come un muro, inesorabile. Non ci sono tregue. Il tempo non esiste, il presente è eterno. Mi è stata negata la grazia dell’oblio.
Presidente, davvero non pensavo….
E che credeva? Di ritrovarsi davanti a un vecchio rincitrullito? Lo sa cosa dicevano i miei nemici? “Il vecchio leone ha perso la forza”, e lo dicevano a tutte le ore, lo gridavano da tutti i pulpiti. Negandomi anche la gloria della sconfitta, degradandola a normale derivato d’una patetica senescenza. Perché la sconfitta ha una sua gloria, più oscura e cupa degli squilli di tromba che accompagnano le vittorie, ma non meno duratura. Se la storia si fa con le vittorie, la sconfitta è solo uno spostamento della prospettiva. È la causa per cui si combatte, che per entrambe genera la gloria. E io combattevo per una grande causa. Quasi per un azzardo, impossibile da riuscire…
Portare l’Italia fra le grandi potenze. Davvero un compito arduo…
La battaglia era su tutti i fronti. A mancare era la truppa, un affiatato manipolo pronto a seguire il capitano. Il mio compito era epico, di quelle epopee che si confondono con la mitologia. Ne avevo coscienza, sapevo quanto fossero inferiori quelli che m’erano intorno. A cominciare dal re, che a me che gli edificavo un regno mi definiva un porco. Un porco necessario, in grado d’eliminare i rifiuti prodotti da altri e poi essere utilizzato per intero, sino alle setole della schiena.
La sua politica, Presidente, non cercava di essere popolare. Forse non fu capita.
Il consenso. Nessuno riuscirà in grandi imprese se prima cerca il consenso. Un governante non può dipendere dall’umore della folla, non può affidare la riuscita del suo compito alle mille beghe che governano i partiti.
Presidente, davvero non so che dire. Eppure lei stesso era di opinioni differenti. Era per l’allargamento del suffragio…
Questo fu uno dei miei grandi errori di prospettiva. Si matura, gli anni e le circostanze cambiano le nostre prime idee. Se la democrazia resta il primo dei sistemi di governo, non posso oggi negare che avevano ragione i miei avversari. Neanche ad Atene facevano votare gli schiavi. Dai il voto agli iloti, e andranno tutti in braccio al primo che promette di riempirgli la pancia. Ci vuole un’educazione nazionale prima di permettergli di votare, oggi me ne accorgo. E se i morti di Adua pesano sulla mia coscienza, i risultati di certe elezioni hanno caricato le mie spalle e il mio cuore in modo diverso, ma ugualmente doloroso.
Presidente, è una via faticosa quella della democrazia. Ma è l’unica da seguire…
Quando il voto siciliano diede l’ultimo scossone al governo della Destra, fu di partito meridionale che si parlò. Per infangarne il significato. I meridionali, e i siciliani in specie, erano considerati poco meno che selvaggi. Incapaci di seguire un’idea. La Sicilia aveva subito gli stati d’assedio, le leggi eccezionali. Si vendicava col suo voto. Ma non era questo che s’era sognato.
Lei, Presidente, era stato con Garibaldi…
Anche lì, quanti abbagli… il problema era se fare l’Italia a partire dall’alto o dal basso. Intendo in senso geografico, ma non ignoro la composizione sociale degli individui. A volte si fanno errori di prospettiva… Non ci fu più il tempo per rimediare. Cominciarono subito le reciproche diffidenze, le incomprensioni. E anche in questo caso, le responsabilità che mi davo io stesso e quelle che mi dava la storia si sommavano per condannarmi…
La storia non la fanno i singoli uomini…. Anche se lei è stato il primo siciliano a diventare potente, il primo meridionale presidente del Consiglio.
Il mio essere siciliano era come un peccato originale, non si poteva eliminare. Sembrava che io fossi il responsabile di tutto il peggio ch’era sedimentato in fondo al carattere nazionale. Mi accinsi all’opera… quasi che dovessi espiare il poco amore che i siciliani mostravano per quella patria che non li amava. Mi rifugiai nel titanismo. Una nazione che nasce dal nulla ha bisogno di chi l’alleva. Me ne resi conto tardi, ero già arrivato al potere. Sino ad allora avevo fatto parte dei critici, anzi li avevo capeggiati. Una volta ottenuto il potere, m’accorsi dell’enorme bisogno di protezione che spirava da quella creatura artificiale che era l’Italia. Quello diventò il mio primo imperativo. M’accusarono di impoverire il Sud, ma erano miopi. E in malafede.
Lei voleva creare gli italiani. Fabbricare i fabbricanti, si diceva…
Il titanismo era come un guscio vuoto, l’Italia aspettava un demiurgo. Ed io calzai quei panni. Andai ad abitare in un sogno assolutista, l’ammobiliai e ne feci la mia dimora. Sino alla disfatta. Creare gli italiani, inventare la potenza dell’Italia. Rompere gli equilibri che altre nazioni, più antiche e più forti, avevano stabilito nel Mediterraneo.
L’autoritarismo fu la sua forza e il suo limite…
Non c’erano altre possibilità. Stava finendo il mio tempo, arrivai al potere che ero già vecchio. Ma era un margine stretto anche quello lasciato all’Italia. Ogni giorno che passava diventava più difficile rompere gli equilibri che ci tenevano sottomessi, trovare uno spazio per quella che fra le nazioni d’Europa era la grande proletaria.
Alla vigilia del ‘900, la sua politica somigliava a quella dei monarchi del ‘700…
Le mie riforme ebbero ancor meno successo della mia politica estera. Ad essere errate erano le premesse. Non bisogna mai scordare le difficoltà che s’incontrano quando ci si ripromette d’estirpare gli egoismi… Educare il popolo è la prima necessità d’una giovane nazione. Ma, perché il compito vada a buon fine, bisogna che ognuno stia al suo posto. E si senta pronto per la missione a cui il destino lo chiama.
Presidente, lei non esitò a dichiarare lo stato d’assedio, in occasione dei Fasci siciliani…
Erano rivendicazioni anarcoidi, e deleterie. Non avrebbero esitato a intessere accordi con le potenze straniere… avevo buoni motivi per pensare che stessero trattando con l’Inghilterra… e anche se erano dei disgraziati…anche se avevano tutte le ragioni… io non potevo fare altrimenti. Il sogno della terra era un sogno antico, nessuno lo sapeva meglio di me. Ero con Garibaldi quando, per convincere i contadini a parteggiare per l’Italia, preparavo falsi editti che quella terra l’assegnavano… ma non potevo fare altrimenti…
Ci furono più di 100 morti…
Ad Adua furono molti di più, furono migliaia. E questi morti sono legati. Volevano la terra, io cercavo per loro una terra più abbondante, più ricca e più libera. Volevo che l’Italia avesse il suo giusto posto, volevo dare la terra ai contadini…
In Sicilia ci furono migliaia di arresti… i processi celebrati dai tribunali militari… il divieto di associazione, lo scioglimento del partito socialista…
Non potevo fare altrimenti. Mi convinsi che solo un pugno di ferro poteva tenere assieme quella nazione che rischiava di andare in frantumi davanti ai miei occhi… in tanti aspettavano, e gioivano alle nostre tante difficoltà. Ma preparai un piano di riforme, le presentai al Senato. Fui sconfitto. Per altre vie, ma volevo arrivare allo stesso punto. E dimostrare che non c’era bisogno delle rivolte…
Le sue riforme bocciate, e i tribunali militari che comminano condanne a chi osa chiedere le stesse cose previste nelle riforme… lei si poneva come un padre autoritario, che può diventare feroce.
Il Senato resistette. Gli agrari, m’illudevo che fossero più sensibili agli interessi unitari. Fecero muro. Prevedevo il censimento pei latifondi, la formazione della piccola proprietà. M’accorsi degli enormi egoismi che agivano in quell’aula. Nessuno difese le mie leggi. Per me fu una giusta punizione. Quelli che potevano difenderle erano caduti, vittime della repressione che io stesso avevo ordinato. Era rimasta la feccia. Io, fui tentato di rendermi conto dell’enorme errore. Fui tentato di gridarlo lì, in quell’aula che doveva rappresentare gli interessi della nazione e raccoglieva la somma degli egoismi…
Nella rivoluzione borghese in cui lei tanto credeva difettavano solo i protagonisti. Difettava la borghesia.
Eppure l’Italia, quella nazione tanto imperfetta che io avevo contribuito a creare, quella stessa nazione che doveva rivolgersi ai prestiti esteri per la sua politica coloniale, quell’Italia era l’incarnazione del successo della rivoluzione. Prima non c’era, dopo la rivoluzione borghese esisteva. Una rivoluzione a metà, che aveva escluso le plebi. Non per sua scelta. Perché secoli di servitù e d’ignoranza avevano estromesso il popolo dalla storia. Io cercavo una pace possibile, volevo conciliare tutti gli interessi, mostrare la meschinità degli egoismi. Ma non si può cancellare la storia, non si possono annullare secoli di servitù…
Ognuno di noi è figlio del suo tempo. A caricarsi di responsabilità lei ricade nel titanismo…
C’è una cosa di cui non mi pento. Restai sempre un anticlericale, non mi fidai mai sino in fondo. E a Roma, nella tana del lupo feci erigere un monumento. A Campo dei fiori, la statua di Giordano Bruno. Per dire che se abbiamo sbagliato il peso degli errori ricade sulla nostra coscienza. A nessun prete do il potere di assolvermi.