Le interviste impossibili: Cesare Mori
Le interviste si svolgono idealmente nell’atrio della Società siciliana di Storia Patria nella cui biblioteca si conservano le carte e le testimonianze bibliografiche della vita dei personaggi che sono stati dei protagonisti della storia non solo Siciliana .
Intervista a Cesare Mori
Cesare Mori viene nominato prefetto di Palermo il 23 ottobre del 1925. Ha pieni poteri conferitigli da Mussolini in persona, è la risposta del neonato regime fascista alla mafia siciliana.
La sua campagna comincia il 1° gennaio del 1926 con l’assedio di Gangi, sulle Madonie. Prosegue soprattutto nell’entroterra palermitano, con migliaia di arresti. Il 27 maggio 1927 Mussolini dichiara alla Camera che la mafia è sconfitta, altre denunce sono inutili e anzi dannose. Ma il prefetto Mori continua a indagare sul gruppo dirigente del fascismo isolano, col risultato che la federazione di Palermo è sciolta e i componenti del direttorio espulsi dal partito. Diventato ormai un personaggio scomodo, Mori è posto a riposo nel giugno del 1929. In seguito sarà nominato presidente di un consorzio di bonifica con sede nella Bassa friulana e nell’Istria.
- Eccellenza…
- Come volontario contrappasso a quello che fu il mio vizio più grave, da un pezzo ho rinunciato a codesto appellativo.
- Ditemi voi come chiamarvi…
- Chiamatemi col mio grado, perché fuori da quello non ho avuto altra vita. Ma l’eccellenza no, quella la ripudio. È da lì che sono venuti tutti i guai.
- Prefetto, allora.
- Già il titolo riluce d’una sua carica deleteria, è un’induzione a peccare. Il prefetto ci mette poco a convincersi d’essere il migliore del circondario, e questa è l’indispensabile premessa per gli errori successivi. Forse bisognerebbe annullare anche il titolo.
- Prefetto Mori, un eccesso di severità non produce la virtù…
- Fui miglior prefetto alla fine della carriera. Allora mi si offrì di rimediare, di riportare alla giusta misura i rimedi che possono derivare dal nostro agire. Volevo bonificare la Sicilia, mi mandarono a tracciare canali per il convoglio delle acque. Sempre di bonifica si trattava, e la seconda di sicuro più reale che la prima.
- Ma in Sicilia la sua opera incontrò gli ostacoli dell’alta mafia. Troppi, per un uomo solo…
- Quando un terreno è paludoso, i canali irrigui rendono fertile quella che era la patria della malaria. Si traccia un percorso, si segue un pendio, s’assecondano le acque. Ma quando s’affonda in altre paludi, e che ci sono te ne accorgi perché ci sei dentro, non puoi segnare i canali di scolo con la stessa sicura tranquillità con cui s’addomesticano le acque. Ci sono di quei casi in cui il pantano rischia di nascondere le sabbie mobili. Eppure li vedi, giurano d’essere i migliori, e t’assicurano che si tratta solo di tue fantasticherie… perché sei solo e perché non capisci…
- Prefetto Mori, la bonifica della Sicilia è compito troppo impegnativo…
- L’errore fu la vanità. In seguito ho avuto tutto il tempo per pensaci, un rovello che m’accompagnava mentre rendevo agli uomini le terra innocente delle paludi. Me ne convinsi là, a centinaia di chilometri. Senza la vanità, mi dicevo incalzato dal tormento, senza la vanità la mia lotta avrebbe conosciuto altri esiti.
- Prefetto, la storia e la società, come dire anche l’aria che si respira… ci sono troppe cose che remano contro.
- Quand’ero di stanza a Bologna, nelle squadre fasciste c’erano individui ch’era possibile schedare. Esaltati e facinorosi, e fino all’ultimo feci il mio dovere. Poco appoggiato dai superiori, ma questa è un’altra storia. Anche in Sicilia, le mie squadriglie contro i briganti andavano e combattevano. Furono operazioni di guerra, senza pietà da entrambe le parti. I paesi assediati, le montagne infide. Le case aggrappate alle rocce, che avevano un’entrata alla vista di tutti e una segreta, sul tetto. I cunicoli che andavano sotto le case e attraversavano il paese, che portavano lontano. Forse mi si chiedeva solo questo, di schiacciare i briganti. L’errore fu commesso allora, ma solo in seguito ne ebbi coscienza.
- Quale errore?
- Era un combattimento per l’onore, così io l’intesi. La popolazione viveva in miseria, sfruttata e ignorante. I briganti fronteggiavano la legge e atterrivano i paesi, ma c’era qualcosa d’altro. Sembrava che tutti vivessero per l’onore. In quelle terre l’onore era qualcosa che non si vedeva ma si poteva toccare con mano, di cui essere gelosi perché ci metteva poco a diminuire e sparire. E io m’avventurai a combattere per l’onore.
- Territori infidi e poco controllabili, specie per un estraneo.
- All’inizio fu facile. I banditi venivano uccisi o catturati, la mia stella era all’apice. I paesi sembrava davvero di svegliarli da un incubo, facevano festa. Mi sentivo un vincitore. Anche troppo. Archi trionfali, scrivevano Ave Cesare. Io ero cresciuto in un brefotrofio, era qualcosa che poteva dare alla testa…
- I paesi celebrano sempre i vincitori. E spesso le feste durano lo spazio d’un mattino.
- Cominciò così. La lotta per l’onore, era qualcosa che non lasciava tregua. Convincere i fuorilegge che io, che ero lo Stato, ero un uomo d’onore. Non fu facile, ma alla fine era a me che venivano a costituirsi. Se loro erano pazzi, se erano folli d’orgoglio e di vanità, la smisurata vanità dei poveri che credono d’avere in mano il mondo, io ero più pazzo di tutti loro.
- Si trattava di parlare la stessa lingua…
- Sino a farsi coinvolgere e non sapere più dove finisce il gioco? Ormai catturavo i miei briganti e quasi mi dispiaceva di mandarli in galera, perché nel gioco che facevamo assieme questa era la mia mossa finale che sapeva di slealtà. Finché si trattava di catturarli eravamo alla pari, ed io sudavo e mi stancavo e quasi rendevo l’anima in groppa al mio cavallo, là su quelle montagne e quei pianori senza la pietà di un albero a dare ombra. Ognuno mostrava la stoffa di cui era fatto, non si poteva fingere. Ma loro giocavano la vita, per l’immediato e anche per il futuro. Rischiavano la pelle, se catturati avevano la certezza di finire in galera. Io rischiavo solo una pallottola in fronte. Sembravamo pari là sulle montagne, ma io avevo un’arma in più.
- Prefetto, lei era lo Stato.
- Ero lo Stato, che si ricordava di loro per mandarli in galera. Erano banditi, erano violenti e selvaggi. Atterrivano i paesi, rubavano e uccidevano. Ma a volte m’afferrava il dubbio che fossero solo dei disgraziati. E mi veniva l’atroce pensiero che io, il trovatello fortunato e adottato da famiglia borghese, io in fondo ero come loro. Solo un caso m’aveva reso diverso.
- Forse la lotta per l’onore poteva intraprenderla solo uno come lei. Era qualcosa che poteva capire solo chi aveva rischiato un destino diverso, magari di diventare bandito.
- Solo io potevo capirla, ma mi diede alla testa. Là su quell’isola, era come vivere al centro del mondo e fuori dalla ragione. La mia fama era cresciuta. Tanto da soddisfare la vanità, che era grande. La stampa estera, perfino. Cominciai a dar fastidio. Il duce voleva essere l’unico santo celebrato, non sopportava chi si metteva in mostra. Ma quell’isola era fuori dalla ragione, era come un narcotico. Bisognava fermarsi, chinare il capo e andar cauti…
- Non era facile, lo ammetta…
- Continuai con la stessa baldanza…. Errori imperdonabili… mi facevano trovare la mia foto nei municipi, alla sinistra del re… a destra c’era il duce. Devo dire che non mi dispiaceva… ma dispiacque ad altri. Il duce ne ebbe notizia… provavano a fermarmi mettendosi dalla mia parte, celebrando la mia opera. La davano per conclusa, io sapevo che era all’inizio. Capivo che ormai la facciata era ripulita e volevano togliermi di mezzo. Facevo ombra. Sapevo che i poveracci che avevo catturato c’entravano poco con la mafia, quella vera. Ho sbagliato. Non bisognava continuare a lottare per l’onore e giocare con la vanità. Erano armi spuntate, andavano bene solo per i banditi.
- La mafia… non può farsi una colpa per non avere battuto la mafia…
- La mafia… il vero boss era anche l’uomo più governativo di tutti, l’uomo nuovo del regime. Io avevo lottato per l’onore contro i banditi, ma quelli erano uomini. Adesso mi trovavo di fronte a viscide bisce. Mi accorsi che nel partito i dirigenti, tutti i dirigenti, erano invischiati sino al collo. Altro che banditi! Quelli erano santi… Rimpiangevo le campagne sulle Madonie, le giornate a cavallo, la fatica.
- Ci volevano armi diverse…
- Avrei voluto tirar fuori i miei banditi dalle galere, al confronto erano innocenti.
- Anche le prove, ci volevano prove diverse…
- Io, che avevo un animo da questurino, avevo raccolto voluminosi incartamenti, non buttavo via niente. Nella capitale dell’isola gli uomini più importanti erano una vera associazione a delinquere, e l’uomo nuovo del regime li comandava. Allora si vide la differenza fra me, che anche se lo nascondevo sapevo d’essere cresciuto al brefotrofio, e loro che erano tutti signori importanti.
- Diventò una questione di stile…
- Sì, ed io ero un cafone. Avevo la precisione poco elegante di un artigiano di quelli poveri, come i punti di un calzolaio sulla tomaia di una scarpa. Uno dopo l’altro, senza fantasie inutili. Come quello metteva in fila i punti, io mettevo in fila i fatti. E loro, i fatti, erano inesorabili. Se uno si fermava ad osservarli, parlavano da soli. E accusavano. Si vide quant’era poco elegante essere precisi e minuziosi, almeno in certi campi. Io lavoravo sui riscontri, sul passato e sulle catene che legano i fatti passati a quelli futuri. Loro non mi invitarono più alle feste, la città diventò un muro liscio e senza appigli. Ero solo. Poi mi chiamò il duce.
- E che successe?
- M’esortò a lasciar perdere la storia. Basta col passato, bisognava guardare al futuro. Io ero davvero un cafone con le scarpe sporche di terra, avevo lo stesso animo dei miei banditi. O forse tutte le celebrazioni e gli archi di trionfo mi avevano dato alla testa. E continuai. Pensavo che, a meno d’ammazzarmi, ero troppo famoso e quasi intoccabile. Continuai la mia campagna solitaria, lo dovevo a quelli che avevo mandato in galera. Le mie accuse mi fecero il vuoto intorno.
- Fu allora che venne messo a riposo…
- Coi banditi avevo combattuto mettendo in mezzo l’onore, era stato un duello. Adesso ci voleva ben altro. Bisognava davvero usare la forza, ma una forza diversa. Serviva la forza dello Stato.
- Lei ha fatto il suo dovere, ci ha creduto.
- Ma il mio peccato è stata la vanità, un’ingenua vanità. Ero come un pavone che faceva la ruota. Fino a quando non m’accorsi che i colori sgargianti delle mie penne servivano a nascondere il fango grigio della palude.