Terry Gilliam, Don Chisciotte e il valore del cinema puro
Recensire e analizzare una pellicola come L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam è un’impresa più difficile di quanto si voglia credere. In primo luogo a causa del prestigio e dell’aura letterari dell’opera secentesca di cui la pellicola è una libera trasposizione. E in secondo luogo, perché come annunciano allo spettatore i credits di apertura, ci si trova davanti all’esito di oltre venticinque anni di gestazione dell’opera, del “fare” e “disfare” da parte di Gilliam & Co.
Nato da quel che si è soliti definire un development hell (letteralmente “sviluppo d’inferno”), Gilliam per questo film si prende tutte le licenze del caso per offrirci la visione di uno spettacolo tanto epico quanto attuale, alla cui base vi è l’intento di porre chiarezza sul significato di cinema “puro”.
Delineare la trama del film riporta immediatamente alla memoria di chi scrive la comicità dell’intreccio e il susseguirsi di innumerevoli peripezie. Il film, infatti, prende le mosse dalla lavorazione in Spagna di un imprecisato film/spot pubblicitario affidato alla regia di un giovane ed eccentrico regista, Toby Grisoni (Adam Driver), la cui svogliatezza lo ricondurrà negli stessi luoghi e in compagnia degli stessi personaggi protagonisti del suo vecchio film sul Don Chisciotte girato dieci anni prima. Tra il personale nevrotico di una produzione bloccata, un produttore poco piacevole, e il dover compiacere un magnate russo, il nostro Toby, suo malgrado novello Sancho Panza, si imbatterà nel suo vecchio Don Chisciotte (Jonathan Pryce), un anziano ciabattino ormai impazzito e totalmente immerso nel personaggio del cavaliere errante, e vivrà egli stesso da scudiero una serie di avventure cavalleresche.
In un certo senso Gilliam, attraverso il suo alias Driver, ovvero Sancho, riscrive la storia del Don Chisciotte e ne fa specchio bizzarro della realtà cinematografica attuale. È stato scritto che da questo film emerge la fatica, e quasi un senso di stanchezza, legato alla sua complessa lavorazione, che condiziona la messinscena. Chi scrive non concorda affatto con questa tesi. Il film di Gilliam risplende in ogni fotogramma e trasuda passione da ogni inquadratura.
La messinscena si avvale di una scenografia impeccabile, tanto nei luoghi più sporchi, rurali e desertici, quanto nei geometrici e carnevaleschi scenari lussuosi e cortesi dell’ultimo atto. Gilliam e i suoi collaboratori conferiscono plasticità ad ogni ambiente rendendolo quasi palpabile ed esperibile per lo spettatore. Ne sono un esempio tutti quegli oggetti che rimandano alla dimensione teatrale dello spazio in cui si muovono gli attori, come ad esempio nel corso del primo incontro-scontro tra Toby e Don Chisciotte. Gli oggetti che la macchina da presa mette in campo, come le spade, i vestiti, le monete d’oro, acquistano l’importanza che solitamente si attribuisce a teatro agli oggetti di scena. Gli attori se ne prendono cura. Questi oggetti caratterizzano i personaggi, ne sono una componente identitaria. La regia di Gilliam punta sull’importanza dei corpi in scena, sui loro movimenti e la loro imprescindibile plasticità. A tal proposito, il talento e l’esperienza teatrale di Pryce costituiscono per il regista una certezza e un elemento irrinunciabile.
Nel mostrarci scenari immaginifici e bizzarri, grazie anche alla fotografia virtuosa e coloratissima del nostrano Nicola Pecorini, Gilliam costruisce un nuovo e contemporaneo flying circus farsesco e cialtronesco, che rimanda all’identità e all’essenza Python del regista.
La coppia cavaliere e scudiero Pryce-Driver interagisce alla perfezione. I due protagonisti assoluti del film regalano due grandi prove attoriali, offrendo all’azione tutta la loro corporeità, specie un magistrale e implacabile Pryce totalmente diventato personaggio. Ma se sul piano scenotecnico il Don Chisciotte di Gilliam risulta impeccabile, come sinora ho cercato di dimostrare, è su quello tematico che il regista naturalizzato britannico punta moltissimo.
Il romanzo di Cervantes e l’adattamento che egli porta in scena costituiscono il sostrato ideologico del discorso politico-culturale che Gilliam intende fare.
La natura squisitamente metacinematografica della pellicola, rivelata a partire dal personaggio di Toby, è un manifesto del pensiero del regista circa le difficoltà che egli stesso ha incontrato per la lavorazione di questo film, e circa la difficoltà presente nella contemporaneità di fare cinema nel rispetto della propria autorialità e del proprio progetto originale a fronte delle pressioni produttive, e di uno scenario imprenditoriale che costringe altri autori del calibro di Gilliam (ad esempio Scorsese, Niccol, i Coen e altri) a trovare un compromesso con piattaforme recenti come Netflix pur di realizzare la propria opera, tradendone così la sua natura originaria.
È dunque necessario mettere in scena la follia, chiamare in causa i valori della cavalleria e distorcere la propria percezione del reale confondendola col piano del sogno e dell’immaginazione.
È proprio questo, d’altronde, il senso e la fortuna del Don Chisciotte: portare avanti dei valori e degli ideali in un mondo dove questi ultimi sono stati superati.
Sarà dunque necessario per Toby incontrare la follia, essere Sancho, assecondare la follia del suo vecchio Don Chisciotte per restituire e ritrovare un senso al reale. Gilliam allora costruisce un grande gioco visivo istituendo diversi piani metanarrativi, e conducendo il suo Sancho in avventure fantastiche, a tratti surreali, e lavorando isotopicamente sul confine labile tra sogno e realtà.
In tale senso Gilliam, a discapito di quanto dicano alcuni personaggi del film, preferisce la matericità e la calpestabilità alla più moderna CGI, e sceglie sapientemente tra gli oggetti le sue pinze. Un coup de théâtre, ad esempio, trasforma delle preziose monete d’oro spagnolo in gettoni di metallo grezzo. Gli ultimi venticinque minuti del film sono Gilliam allo stato puro: barocchi nella messinscena e dinamici sul versante dell’azione.
Indubbiamente il film risente di un’impostazione un filo prevedibile, che ricalca l’Enrico IV pirandelliano. Ma ciò diventa espediente drammaturgico al fine di dimostrare, come nel bellissimo film dello stesso Gilliam La leggenda del re pescatore (1991), che la follia è verità, messa in crisi dell’ordine costituito, e persino possibilità di redenzione. E forse questo Sancho magro e longilineo sarà egli stesso un nuovo Don Chisciotte.
Tra elementi fantastici, onirici e visionari, Gilliam realizza del cinema tout court.
Presentato fuori concorso a Cannes 2018, e con una distribuzione un po’ troppo stringata nelle sale italiane, L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta una preziosa occasione per sognare ad occhi aperti, per esperire il piacere del buio in sala.