Oscar Wilde: il viaggio in Sicilia e le parole dedicate a Palermo
Quando il 2 aprile del 1900 arrivò a Palermo tutti i giochi erano già fatti, la clamorosa biografia di Oscar Wilde s’era già compiuta. Lo scrittore-performer aveva conosciuto il massimo successo mondano, aveva imposto il suo personaggio sulla scena europea e anche americana. Poi, per il dandy che dettava le leggi dell’eleganza a una folla di devoti seguaci c’era stata la rovina più clamorosa. Meglio d’un colpo di scena.
Era accaduto che il padre del suo giovane amante Bosie – al secolo lord Alfred Douglas – s’era messo a disseminare biglietti infamanti in giro per Londra, e Wilde aveva alla fine commesso l’errore di denunciarlo. I guai s’erano subito accumulati. C’erano stati processi per gross indecency, vale a dire omosessualità e atti osceni. Due anni di carcere. E per l’ipocrita società vittoriana Wilde era diventato l’emblema di ogni malvagia decadenza. La moglie Costance, molte volte e pubblicamente umiliata, minacciava ritorsioni. Bosie s’era rivelato un poco di buono. La mancanza di soldi rischiava di trasformarsi in un’ossessione. Ma la sua scrittura era diventata magnifica, ricca, consapevole della propria forza: le Lettere, pubblicate in una bella edizione curata da Silvia De Laude e Luca Scarlini (il Saggiatore, 1266 pagine, 65 euro) ci mostrano molte intriganti sfaccettature.
Oscar Wilde era una star letteraria e del costume, una volta uscito dal carcere s’era votato a un’esistenza apertamente scandalosa. Aveva lasciato Londra e viveva a Parigi, città ideale per le trasgressioni e promiscuità di un’epoca che non conosceva l’Aids. Nel 1897 lo troviamo in Italia con Bosie, viaggia sotto falso nome ma spesso lo riconoscono e allora può capitare d’essere cacciati via dal ristorante, come accade a Napoli, perché gli altri clienti rifiutano di rimanere nello stesso locale. Nemmeno a Capri sono ben accolti, la piccola comunità inglese li ha messi al bando. Quando si recano in Sicilia è quasi un pellegrinaggio: “non è ostinazione, è l’infelicità a volgere i miei passi verso il Sud” aveva scritto mentr’era a Parigi, e rifletteva “spero di arrivare in Sicilia, ma viaggiare costa una follia”. Risponde così anche lui al richiamo di un Sud preindustriale, dove la memoria classica promette d’accogliere ogni pulsione del desiderio.
Oscar e Bosie si rifugiano a Taormina, la città greca che il barone-fotografo von Gloeden ha promosso nell’immaginario europeo come patria della marchetta estetizzante. I ragazzi fotografati come satiri o pastorelli, in un’atmosfera arcadica che esalta i loro corpi e le pose da scultura ellenica, sono oggetto di un turismo sessuale esercitato quasi alla luce del sole: il codice penale italiano, diversamente da quello inglese o tedesco, non faceva parola di atti omosessuali tra adulti consenzienti. Bastava non dare scandalo e, se l’amore proibito rimaneva appena celato tra le pieghe del non detto, anche la Chiesa mostrava comprensione per le debolezze della carne.
Quindi a Taormina, nel dicembre 1897. Dove Oscar Wilde, che fra tante altre cose è un raffinato cultore dei classici, si impegna a ritrovare le pose più convincenti per le fotografie di von Gloeden. L’atmosfera satura di cultura greca rivive nei versi evocativi che Wilde dedica a Teocrito, il cantore degli amori fra Eracle e il fanciullo Hylas: “Ronza ancora tra l’edera l’ape /Dove Amarilli è regina / Ricordi la Sicilia?”
Il viaggio dell’aprile del 1900 è meno incantato. Wilde non è più bello come un dio greco, Toulouse Lautrec lo ritrae così gonfio e imbolsito che non sembra avere niente a che fare con l’efebico dandy che dettava la moda a Londra. Lo scrittore accompagna il ricco e assai nevrotico Harold Mellor, e col suo umore sulfureo sarebbe un ideale compagno di viaggio se tanto spesso non lo riconoscessero. Sempre con riprovazione. E naturalmente tutti i salotti rimangono ben sprangati. Si fermano a Palermo otto giorni: Wilde ne scrive all’amico Robert Ross in una delle lettere più belle dell’intero epistolario, scanzonato e irriverente come nei suoi giorni migliori. La città gli appare splendida, “posta nella migliore posizione del mondo, trascorre la sua vita nella Conca d’oro”. S’innamora della Cappella Palatina, tutta d’oro, dove “ci si sente come si fosse seduti nel cuore di un enorme nido”, i suoi mosaici sono i più belli mai visti.
Più d’una volta è stato in carrozza a Monreale, “i cocchieri sono ragazzi deliziosi magnificamente scolpiti”. Negli ultimi tempi Wilde oscilla tra la sacrestia e il marciapiedi, ha sempre sigarette da regalare ai giovanotti e attraverso un’ostentata abiezione dichiara di raggiungere “una specie di sublime melanconia”. Fra i cocchieri preferisce Manuele, Francesco e Salvatore, che però vengono tutti battuti da Giuseppe, “un giovane seminarista che abitava nella cattedrale di Palermo, lui e undici altri, in stanzette sotto il tetto come uccelli”. Giuseppe gli mostra la cattedrale, un po’ alla volta, “e io letteralmente mi inginocchiavo davanti all’enorme sarcofago di porfido nel quale giace Federico II”. Il sarcofago scuro e severo, sostenuto “da leoni che hanno preso parte del furore dell’anima irrequieta del grande imperatore”, è uno dei centri del viaggio palermitano assieme al seminarista Giuseppe, entrato nella Chiesa per una ragione che Wilde definisce “squisitamente medievale”, perché di poverissima famiglia. Ogni giorno lo scrittore lo bacia dietro l’altare maggiore, “gli diedi anche molte lire e gli predissi un cappello cardinalizio”. Chissà se ebbe ragione.
Se ne tornò a Parigi, era molto malato e morì qualche mese dopo, a soli 46 anni. Scrisse: “mi hanno detto che la mia malattia è sconosciuta. Sono davvero contento: morire di una malattia comune sarebbe stato molto umiliante”.