Il seme della memoria. Una nota personale sulla festa dei morti – Parte 2
Dopo l’avvento del cristianesimo si conservò la credenza che la vigilia del 1 novembre i morti tornassero in visita presso le loro case «sotto forma di fantasmi, coboldi malevoli, gatti neri, fate o demoni, e apparissero a coloro che avevano fatto loro del male durante la vita» (Muir 2000: 88). Ma l’antica credenza celtica doveva essere assai più diffusa se, nel tardo Medioevo, in varie regioni d’Europa si registrano usanze molto esplicite ora intese a tenere lontano i morti considerati esseri malevoli ora invece a ingraziarseli: «In alcune località le campane suonavano per tutta la notte […]; in Germania i bambini accendevano candele e mettevano torte sulle tombe per nutrire gli antenati defunti che tornavano a fare loro visita; in Inghilterra e in Germania si accendevano falò nei cimiteri […]. Nelle case venivano apparecchiati cibi per parenti defunti» (Muir 2000: 89).
Pratiche non dissimili sono ampiamente attestate dagli studiosi di folklore in Italia e in tutta Europa (cfr. Buttitta 1996a: 248 ss.). Per esempio Sébillot oltre a ricordare che la sera del 1 novembre in varie località d’Europa si usava predisporre del cibo per i defunti scrive: «nei Vosgi si lascia acceso il fuoco perché possano riscaldarsi; nella Bassa Bretagna vi si depone per loro il “Ceppo dei morti”. In Tirolo le anime del purgatorio vengono nella casa a prendere il sego che cola dalla “Candela delle Anime”, che è stata accesa presso il focolare per calmare le sofferenze causate dal fuoco del purgatorio, e si ha cura che la stanza sia ben riscaldata perché i morti possano passare la notte al riparo dal freddo; in Irlanda si mettono accanto al fuoco delle sedie destinate a loro e si tiene accesa la lampada; nelle Asturie si fa un fuoco più vivace del solito perché le anime trovando la casa riscaldata possano mettersi intorno al focolare a chiacchierare e rievocare i loro ricordi» (1990: 125).
In Sicilia tratti essenziali della Commemorazione dei defunti (cfr. Pitrè 1881: 393 ss.; Petrarca 1990: 119-130; Giallombardo 1990b: 31-32; Buttitta 1996a: 245 ss.) sono la visita alle tombe per riunirsi ai parenti defunti (fino a un recente passato, e in maniera episodica tutt’oggi, si costuma consumare un pasto in prossimità del sepolcro), l’elemosina ai poveri, la cena in famiglia, il dono ai bambini di giocattoli, dolciumi (tra cui le caratteristiche pupe di zucchero, i pupi a cena, che raffigurano tradizionalmente la ballerina, il carretto, i fidanzati, il paladino e oggi, sempre più spesso, gli eroi dei cartoons) e frutta secca (tra cui, soprattutto in passato, fave), tutti generalmente comprati alla fiera che ha inizio qualche giorno prima del 2 novembre. Inoltre, tutt’oggi, in molti paesi ma anche nei quartieri popolari di Palermo, la sera dell’ 1 novembre si imbandisce una tavola apparecchiando un posto per il parente defunto. La famiglia prende posto alla mensa e gli adulti ricordano i meriti, le storie, del trapassato. Si mangia e si beve. Il vino viene versato anche nel bicchiere del defunto e tutti brindano in onore della bon’arma, la “buonanima”. Infine, quando la cena ha avuto termine, al centro della tavola viene cunsatu u cannistru, allestito cioè un cesto contenente una pupa di zucchero, dei particolari biscotti detti oss’i muortu, della frutta secca, frutta fresca (tra cui non a caso melograni, frutti tradizionalmente associati al mondo ctonio) e di pasta reale. È un’offerta al defunto che verrà, però, materialmente consumata dai bambini (Buttitta 1996a: passim). La notte, si dice, i morti vengono a visitare le dimore che hanno dovuto abbandonare e “portano” i doni ai bambini, quei doni che i genitori hanno comprato alla fiera.
Altra usanza, non del tutto scomparsa, e anch’essa documentata in anni non lontani in diversi paesi, è poi quella delle questue infantili. Questue tanto simili, e non è un caso, a quelle di Halloween stante l’identità bambini-defunti istituita sul piano rituale presso numerose culture (come chiariti definitivamente da Lévi-Strauss nel suo Babbo Natale suppliziato, 1995) e, su un piano più profondo, stante la comune credenza di un necessario ciclico ritorno dei morti sulla terra, morti cui, appunto, vanno offerti doni affinché essi garantiscano la ripartenza dei cicli vitali, segnatamente di quelli vegetativi.
Tra i cibi elettivi del giorno dei morti, oltre ai dolci antropomorfi (ma anche teriomorfi e fitomorfi) come i pup’ i zuccaru, i biscotti al miele e l’oss’i muortu, vi sono nocciuole, noci, mandorle, mortella, castagne, carrube, fave. Si tratta solo in parte di frutti di stagione come i melograni. Ciò che essi detengono in comune è una ben definita qualità: sono tutti semi. In quanto tali partecipano di un unico apparentemente ambiguo simbolismo vitalistico-ctonio. Sono cioè vita in potenza, una vita che può esprimersi compiutamente solo se introdotta nella terra. «Il chicco –osserva Propp– ha la proprietà di conservare a lungo la vita e di riprodurla di nuovo, moltiplicandola. Il noto circolo continuo seme-pianta-seme testimonia l’eternità della vita. Gli uomini mangiando semi divengono partecipi di questo processo» (1978: 47).
Tutto questo non sapevamo né avremmo potuto comprendere noi bambini. Lo sapeva certo mio padre, che, immancabilmente, anno dopo anno ci accompagnava alla Fiera dei Morti, lo sapeva mia madre che imbandiva la tavola serale con pupe di zucchero, oss’i muortu e frutta martorana. Lo sapevano i morti che ogni anno tornavano a carezzare i loro figli e nipoti. Impedire il loro ritorno dimenticando i riti antichi, i costumi e i valori dei padri, ostacola la nostra marcia verso il domani: Si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi.
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Approfondimenti e Bibliografia in:
Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del Lavoro e ritmi della festa, Meltemi, Roma 2006