Muhammad ‘Abduh a Palermo (1902) e la Sicilia islamica
Considerazioni sul ruolo della Sicilia halqah li’l-wasl, sull’insegnamento dell’arabo al Convento dei Cappucini e sui “morti in aspettativa”
Lo shaykh al-imam Muhammad ‘Abduh (1849-1905), considerato tra i principali esponenti del movimento ri-formatore musulmano (al-harakah al-islahiyyah), fu giurista e mufti della importante scuola musulmana dell’Azhar al Cairo. fu in Sicilia nel 1902 (1321 dell’egira) nel quadro di un viaggio in Nord Africa ed in Europa. Aveva visitato Tunisi e Algeri, incontrando i rappresentanti locali del cosiddetto modernismo musulmano, si era recato in Francia, e, sulla via del ritorno via mare alla volta di Alessandria, si era fermato a Messina. Questa città costituiva, prima del tremendo terremoto del 1908, uno scalo marittimo importante nelle rotte tra Europa e Oriente arabo-musulmano, secondo un’antica tradizione, sperimentata anche all’epoca della presenza dell’Islam nella Sicilia medievale, a cui fa cenno, come è noto, l’andaluso Ibn Gubayr nella sua celebre rihlah, costretto a scendere a Messina durante il difficile ritorno in Andalus.
Lo shaykh ‘Abduh conosceva le vicende legate alla storia della Sicilia islamica, Siqilliyyah in arabo, e intendeva approfondirle visitando Palermo, città capitale, madinah Siqilliyyah secondo una suggestiva menzione araba, dei musulmani di Sicilia.
La fonte principale che ci parla della visita di ‘Abduh a Palermo e a Messina restano alcuni articoli pubblicati sulla rivista cairina al-Manar tra il 1902 e il 1903, raccolte successivamente dal siro-libanese Muhammad Rashid Ridà in un’opera dal titolo Ta’rikh al-ustadh al-imam al-shaykh Muhammad ‘Abduh (Cairo, 1931, 2 voll.) nel capitolo Bab al-rahalat al-‘ilmiyyah wa’l-tarikhiyyah (vol. II, pp. 473-91).
Dopo essere arrivato a Palermo, lo shaykh ‘Abduh prese alloggio presso l’Albergo Centrale di via Roma e si recò alla Biblioteca Nazionale e all’Archivio di Stato per consultare opere in arabo, manoscritti ed altro materiale riguardante la storia della presenza islamica in Sicilia. E’ attraverso la visita ai monumenti siculo arabi, alcuni dei quali di pura architettura islamica, che lo shaykh ‘Abduh prende coscienza di quanto importante sia stato il ruolo dell’Islam nel configurare uno status della Sicilia nel Mediterraneo, quale halqah li’l-wasl o anello di congiunzione. Interessanti sono le considerazioni dello shaykh dell’Azhar sulla presenza araba e musulmana, sul rapporto tra le diverse religioni monoteiste, sui normanni e sulle relazioni tra potere non musulmano e musulmani siciliani, rimasti nell’isola dopo la riconquista cristiana. A tale proposito scriveva ‘Abduh che nei primi anni del dominio cristiano: “gli arabi godettero della piena libertà nell’esercizio del culto della loro religione e nell’amministrazione diretta dei loro affari” (p. 475).
La visita al Palazzo reale, il Qasr degli arabi e il Cassaru dei palermitani, svela all’illustre ospite la bellezza della camera di Ruggero con le riproduzioni di raffinata fattura islamica, fatimide e iranica, il cofanetto intarsiato e coperto da incisioni d’oro, l’orologio con le iscrizioni in arabo, greco e latino.
Vicino al Palazzo è sita la chiesa di San Giovanni degli Eremiti; in presenza delle bellissime cupolette rosse e del minareto che le sovrasta, lo shaykh egiziano, accompagnato dal prete cappuccino Gabriele Maria da Aleppo, di cui si parlerà più avanti, non potè non rilevare, che, seppur chiesa, quel tempio era sicuramente un omaggio all’Islam. La stessa cosa si può dire per la visita al Palazzo della Zisa (Qasr al-‘Aziz), edificio di architettura islamo-fatimide, che si dice costruito in epoca normanna, ma che gli storici siciliani più antichi ritengono già esistente, come il palazzo della Cuba, prima dell’arrivo dei Normanni. La sala della splendida fontana tipo salsabil, può essere considerata esempio tra i più illuminanti.
Ma la parte forse più interessante del soggiorno di ‘Abduh a Palermo è quella riguardante la visita al Convento dei Cappuccini e all’annessa scuola di arabo per i missionari che si recavano nel mondo islamo ottomano. Ad accogliere lo shaykh dell’Azhar fu il prete cappuccino, certo Gabra’il Maria di Aleppo, che era approdato a Palermo proveniente da Beirut. Questi insegnava arabo, utilizzando metodologie e materiali didattici in massima parte importati dal Libano; si conservano ancora all’interno della scuola, come ho potuto costatare qualche anno fa.
E’ utile riportare un brano tratto dall’opera citata di Rashid Ridà, scelto tra quelli in cui le annotazioni dell’uomo di cultura musulmana lo shaykh ‘Abduh risultano essere importanti per due aspetti: il primo relativo alla metodologia dello studio della lingua araba per gli stranieri, e l’altro sulla morte e l’aldilà, che ‘Abduh esternò dopo la visita al cimitero annesso al Convento dei Cappuccini.
«Il convento dei Cappuccini, la loro scuola ed il loro cimitero a Palermo»
(con considerazioni sull’idea di missione religiosa e sulla vivificazione della lingua) La traduzione dall’arabo è mia:
I cappuccini possiedono a Palermo un convento che comprende una cappella, una scuola e due cimiteri. La cappella è una piccola chiesa come tante altre, per cui non vale la pena dilungarsi. La scuola invece è stata fondata per l’insegnamento delle lingue, delle arti, delle scienze e di quant’altro necessitano i missionari, cui è stato affidato il compito di fare appello (al-da‘wah) alla religione cristiana, di predicare il Vangelo, di diffondere tutto quel che lo zelo religioso spinge a diffondere in terre lontane, come i paesi degli Arabi, dei Turchi, dei Persiani e di altri popoli. Vi insegna la lingua araba il monaco Gabra’il Mariya al-Kabušhi da Aleppo. Questi ha studiato l’arabo a Beirut; mi ha detto che tra i suoi maestri annovera il nostro amico, lo shaykh Sa‘id al-Šhartuni, noto linguista arabo autore di Aqrab al-mawarid sulla lingua.
Mi sono recato ad incontrare questo frate e mi sono intrattenuto con lui, parlando della sua attività, del tempo trascorso in Italia, dei motivi che l’hanno spinto a risiedere in quel luogo. Mi spiegò chiaramente che era venuto qui per servire la propria religione. Insegnando l’arabo, il Collegio si prefiggeva di meglio diffondere (la religione cattolica) nei paesi degli Arabi.
Mentre conversava, si applicava ad utilizzare le regole grammaticali, per quanto era nelle sue possibilità, e per questo ho lodato il suo impegno. Era convinto infatti che solo usando correttamente la lingua durante la conversazione, anche se viveva in Italia, avrebbe profittato dello studio dell’arabo, per cui si comportava in conformità. Gli sarebbe stato più facile infatti comunicare con me nella parlata aleppina, alla maniera di uno di Beirut, che usa il beirutino, e di uno di Tunisi, il quale usa la vulgata tunisina, poco importa se poi, tale parlata, sarebbe risultata a me a volte incomprensibile.
In questa scuola si studia teologia con lo scopo sopra ricordato. Non sto a dilungarmi su tale attività, essendo chiaro che lo studio di tale scienza è funzionale all’attività missionaria, come facilmente può capire chi è addentro ad affari relativi all’appello alla religione. Chi invece non sa di questa cose, non è a costui che rivolgiamo le nostre note. …. Questo frate insegnante di arabo nel Convento ha adottato un metodo semplice nella didattica delle principali nozioni grammaticali dell’arabo ad uso degli italiani. Propone la regola grammaticale araba, quindi la spiega in lingua italiana, facilitandone, per quanto più è possibile, la comprensione e l’apprendimento. Sicché, ho potuto constatare che tra gli allievi del monaco ve ne è uno che legge egregiamente l’arabo, anche se non parla bene, a causa della mancanza di esercizi di audizione e di conversazione.
Oh, quanto bisogno avrebbero gli Arabi di apprendere ciò di cui necessitano per approfondire la conoscenza della loro lingua ! Ma, quanto è faticoso il lavoro, quanto è arduo il cammino, e quanto irta di difficoltà è la strada dell’Arabo che si sforza di riappropriarsi della propria lingua !! Arriva alla fine del proprio cammino, e non si accorge che non è riuscito ad andare oltre all’inizio della strada.
Forse che non avvertiamo la necessità di avvicinare la meta e di semplificare il modo di raggiungere ciò di cui necessitiamo in fatto di conoscenza della lingua araba, al fine di comprendere le cose preziose che vi sono custodite, ed esprimere, suo tramite, ciò che è all’interno di noi stessi, avendo così il piacere di trasmettere la nostra lingua ai figli in modo corretto ed in stile elegante ? Non è forse giunto il momento di tornare a quanto era familiare in fatto di lingua ai nostri padri, facendo rivivere ciò che li ha fatti vivere, abbandonando quelle innovazioni deplorevoli dei loro successori, che hanno provocato la loro morte e, con essi, la nostra fine ?!.
Dei due cimiteri, il primo è una costruzione ampia che si estende sotto terra (leggi catacombe); vi si scende tramite una scala e vi sono aperture da cui arriva la luce. Vi si conservano corpi di defunti in modo diverso: in casse chiuse di legno, di pietra, di bronzo, come nel caso per esempio del signor Crispi, già capo del governo italiano. Il Crispi riposa in questo luogo dentro una bara chiusa. Ma, vi sono anche casse di vetro, attraverso cui si può vedere il morto con l’espressione che aveva al momento del trapasso. In un’unica cassa si trovano inoltre numerosi scheletri di individui scomparsi, i cui volti il visitatore può scorgere. Tale vista rattrista il cuore e da essa l’animo trae ammonimento.
Questi due gruppi di defunti hanno il privilegio di essere “collocati in aspettativa” in questo luogo, qualora appartengano a famiglie ricche, che possono versare al convento quanto esso richiede per acconsentire a tale privilegio. Vi è un altro gruppo di defunti imbalsamati, sistemati in piedi ed ai lati del locale, con i vestiti che avevano al momento di morire. Si tratta di salme di monaci e di preti che hanno voluto “essere posti in attesa” in questo posto, da dove poi risalire con la sua benedizione. Le loro figure sono deprimenti: a guardarle stringe il cuore, per cui risparmiamo al lettore la loro descrizione. Basti raffigurarsi un cadavere con quanto di più ripugnante la morte possa lasciare raffigurato in un corpo umano.
L’altro cimitero è invece, come il resto dei camposanti, all’aperto, ed i morti sono seppelliti nel ventre della terra. E’ uno dei posti più belli e tra quelli più puliti, con le tombe dalla bella architettura, all’ombra di cipressi cresciuti in perfetto ordine. Ci fu detto che: coloro che qui vengono sepolti sono principi e persone facoltose. I poveri vanno altrove, in modo confacente alla loro condizione di povertà”. Come se fosse stato loro stabilito, per decreto, la disuguaglianza anche dopo la morte. La quale, invece, non solo rende uguali i ricchi alle categorie sociali meno abbienti, ma trasforma i loro corpi morti in alimento per vermi tra i più repellenti, così come accade a tutto il mondo animale.
Mi fu detto che il Governo, dopo essersi insediato a Roma, vietò la sepoltura nel primo dei cimiteri cui si è fatto cenno, ordinando che i morti venissero seppelliti solo in quei cimiteri che hanno le caratteristiche del secondo, ora ricordato, o della stessa tipologia. Ha permesso che nelle cappelle fossero “riposte in attesa” solo le salme del papa e del re, e di nessun altro. Soltanto le casse con i defunti appartenenti alle due categorie citate possono stare in chiesa. Ciò è un buon decreto del Governo; colui che si è celato al popolo mentre era in vita dietro la propria maestà, non può non essere da ammonimento dopo la morte per la gente comune.