“Storie d’Italia” di Aurelio Musi
Storie d’Italia (Morcelliana 2018) è il recente, bel libro di Aurelio Musi: un libro di storia della storiografia, dedicato alle rappresentazioni che nel XX secolo gli storici hanno fatto della storia dello Stato-nazione italiano. Alle origini sta la limpida posizione crociana: storia si può fare soltanto di ciò che è esistito: una storia d’Italia non può che iniziare dalla formazione dello stato italiano, dunque dal 1861. Per l’innanzi si fa storia delle varie realtà regionali, più o meno grandi. Questa fu la formulazione etico-politica del problema. Per Croce il problema era difendere e comprendere le potenzialità del liberalismo risorgimentale che aveva costruito lo stato nazionale. Politica, ma diversa fu l’interpretazione fascista e di Volpe. L’Italia era già una realtà dopo la caduta dell’impero romano. Il fascismo perciò rivendicò di aver realizzato in istituzioni la lunga storia italiana, che dopo un ininterrotto percorso aveva messo capo alla nazione fascista. Nel primo caso la libertà si era fatta politica; nel secondo la politica aveva creato comunità, ma non libertà. Alla fine della Seconda guerra entrambi questi schemi andarono in crisi.
Per Musi il vento nuovo fu quello del marxismo e di Gramsci. La dinamica sociale adesso costituì il fondo della lunga durata della realtà italiana e lo spazio della sua identità e differenza: le due Italia, quella delle città del centro Nord e quella delle campagne del Sud, ma pure della centralizzazione imperiale. Non è possibile seguire le tante analisi di Musi, che esplora le grandi iniziative editoriali sia nei contributi sia nei meccanismi editoriali ed economici, e vi segue come il policentrismo delle storie articoli il motivo unitario. Nel secondo dopoguerra un momento di svolta e da un punto di vista editoriale e per l’interpretazione complessiva fu cruciale la Storia d’Italia Einaudi. Ampliò lo spettro dei temi e i suoi sei volumi (1972-76) ebbero un successo gigantesco, secondo Musi per la novità metodologica loro. La storia etico politica vi era indebolita, mentre la lezione delle “Annales” fu ben presente. Per chiarire la logica della scelta delle collaborazioni per la prima volta si utilizza la documentazione archivistica. La Storia d’Italia Einaudi segnò il climax della serie di storie d’Italia in più volumi e a più mani, ma sembrò anche chiuderne la ripresa. Lo si vede con le iniziative di Giuseppe Galasso e Ruggiero Romano. Galasso diresse la Storia d’Italia UTET (varata nel 1975), che ha avuto un più quieto ma non banale successo. Seguendo l’interpretazione crociana, i molti volumi tracciano le storie degli stati regionali italiani e il problema storico dell’identità italiana è ricostruito nel solco di Guicciardini, de Sanctis e appunto Croce, anche con un vivace apporto della sociologia e del marxismo. A questa storia Musi riconosce molto valore, e invece poco a quella di Romano, pubblicata da Bompiani alla fine degli anni ’80 in dodici volumi, ma con minore successo di quella Einaudi. Romano proponeva tuttavia un’idea interessante. La storia italiana era analizzata sulla base delle categorie di paese e di nazione, che permettevano l’introduzione di temi storiografici nuovi, antropologici e sociologici e un’originale integrazione della vita sociale italiana in quella europea.
Che conclusioni trarre? Le Storie d’Italia del Secondo dopoguerra poggiano su presupposti storiografici d’anteguerra: Croce, Gentile, Gramsci, Volpe. Gli storici italiani hanno fatto i conti con la Seconda guerra senza la necessaria radicalità e di conseguenza si è conservato, anche a prescindere dal valore specifico, un tessuto storiografico che ha permesso in modo minore che altrove l’elaborazione di nuove prospettive. Il paese era antico, la nazione era giovane. A mantenere separate le due categorie, si è rimasti a pensare un paese vecchio e una nazione senza storia.
Si direbbe che sensibile alla nuova realtà di oggi la ricerca si sia avviata su un’altra strada. Del resto, non è la storia a dare insegnamenti: è la vita magistra historiae. La storia si occupa di un oggetto definito: e la grande parabola dello Stato nazione si è conclusa. Più che le istituzioni, si studiano gli italiani. Anni fa Procacci scrisse una storia degli italiani e Vivarelli parlò del conformismo degli italiani nel fascismo; di recente Carlo Capra ha studiato Gli italiani prima dell’Italia. Un lungo Settecento, dalla fine della Controriforma a Napoleone. A parte le temibili e stolide ambizioni sovraniste, far parte della realtà europea e globale spinge a chiedersi quale sia la natura, cioè la storia culturale di un paese e come interagisca con gli altri popoli in un’epoca di connected societies. La fine della storia delle rappresentazioni della nazione-stato descritta da Musi ci fa comprendere che viviamo in un’epoca di necessario cosmopolitismo.