Galeazzo Ciano: vita pubblica e privata del “quasi Duce” nell’Italia del Ventennio nero
La storia del Ventennio nero è ormai intrisa di mistica enfasi sulle nefandezze razziali dello Stato totalitario, che per alcuni sono la consapevole e ineluttabile conseguenza della “natura” del fascismo, mentre per gli altri sono l’esito di una stretta politica troppo forte inferta dal maglio tedesco. La riduzione del fascismo a problema “razziale”, ultimo residuo di una generazione di studiosi restii ad acquisire una visione d’insieme di una stagione politica ormai conclusa, impedisce un’analisi spietata del problema forse centrale della storia di quegli anni: le ragioni di un’alleanza. Il più semplice degli interrogativi (a sentir molti) resta tuttavia quello più oscuro e difficoltoso da dipanare, perché, per quanto siano uscite caterve di commentari alle “affinità elettive” tra fascismo e nazismo oppure abbecedari di “realismo politico” circa le megalomani aspettative della potenza italica, a oltre sette decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale scarseggiano i lavori seri capaci di fornirci spiragli di luce su una matassa di dati e di informazioni facilmente derubricati come “schemi ricorrenti” e fallaci. Chi studia la storia e non fa filosofia spicciola sa bene quanto gli schemi assolutori e moralistici abbiano scarso valore euristico e non permettano di arricchire la nostra conoscenza del passato. E conoscere il passato significa conoscere se stessi, il proprio spazio di esperienza e orizzonte di aspettativa e, quindi, rafforzare le basi per un futuro più solido e meno penoso.
Questa premessa ha il compito di introdurre l’imponente saggio di Eugenio Di Rienzo dedicato alla figura di Galeazzo Ciano (Roma, Salerno Editrice, 2018, 700 pp., € 34). Di Rienzo, storico modernista, da decenni attivo nella storia contemporanea (come è già accaduto per la biografia di Napoleone III e per altri studi dedicati alla seconda guerra mondiale), non ci fornisce un’ennesima interpretazione del “genero di regime”. Non è nemmeno interessato alla vita privata del conte livornese (al pettegolezzo, per intenderci). Intende letteralmente passare al setaccio trent’anni di vita italiana attraverso le vicende di famiglie “immorali” che, a loro modo, hanno segnato anche la storia della Repubblica antifascista. Il saggio ha già ottenuto i giusti e meritati riconoscimenti sulla stampa d’informazione italiana. Davide D’Alessandro, Marcello Rinaldi, Giampietro Berti, Paolo Mieli e Mirella Serri hanno più o meno tutti insistito sull’importante reinterpretazione delle informazioni del Diario, che ci permette di reinterpretare un periodo storico ormai ridotto – come detto – a rievocazione di facili stereotipi. I commentatori, seguendo l’impostazione filologica e problematica indicata dall’autore, hanno rimesso in discussione l’immagine auto-assolutoria fornita da Galeazzo e poi veicolata da Edda Mussolini, con l’intento di dividere il “grano dal loglio”, un fascismo buono da uno cattivo. Le intricate trame ordite da Galeazzo durante il settennato agli esteri non vanno ritenute tanto l’azione di una “serpe in seno”, quanto il tentativo di individuare una rotta italica in mezzo alla tempesta europea.
L’autore non è certo tenero verso la “moralità” del personaggio, né tantomeno verso la moglie Edda e il suo “familismo immorale”. Ma il ritratto fornito in questo saggio biografico è l’immagine spassionata di un paese alla ricerca di una propria collocazione geopolitica e – come vedremo – di un proprio “destino”. Questo mi sembra il punto centrale del saggio di Eugenio Di Rienzo. Certo, come fanno notare tutti i commentatori, il diario ci rivela quanto Mussolini e Ciano non fossero poi così distanti nella visione politica d’insieme, quella di un “peso determinante” non declinata nei termini formulati da Dino Grandi, di equidistanza, ma di diretto inserimento nella Storia. Prendiamo come esempio il rimpasto mussoliniano del febbraio 1943: mentre il Duce è mosso dall’esigenza di sganciare la Germania dal fronte russo, il genero “distrae” gli oltranzisti con le sue trame rivolte agli Alleati sotto l’egida della Croce e dei Savoia. Una situazione analoga si pone all’indomani della prigionia veronese di Ciano, quando Mussolini tenta (per un breve periodo) di salvare la vita al genero placando l’anima sanguinaria dei fascisti repubblichini e dei tedeschi (e non certo perché spinto da pietas familiare).
La prima parte del saggio (Il delfino di regime, 1903-1937) inquadra l’ascesa dei Ciano quale famiglia di spicco dell’Italia post-liberale. Di Rienzo si concentra, in particolar modo, sull’operato di Costanzo nel primo dopoguerra (ritratto come uno dei “pescicani” della riconversione industriale post-bellica) e sull’influenza paterna esercitata nella carriera del giovane Galeazzo. Di Rienzo ricostruisce la gioventù del “delfino di regime”, quasi a voler sottolineare un nesso fra le ambiguità politiche paterne e la gioventù “bella” (e dorata). La seconda parte (La grande scacchiera, 1937-1941) vede il giovane livornese occupare un posto di primo piano nella politica estera italiana (e non solo). Dopo le prime esperienze diplomatiche, dopo il ruolo all’Ufficio stampa del Duce e la direzione del Ministero Stampa e Propaganda, Galeazzo è attivo nel tentativo di “ammansire” il revisionismo tedesco attraverso il Patto d’Acciaio (un accordo pasticciato e mal negoziato). La svolta (negativa) è rappresentata dal pantano greco, che segna l’inevitabile declino di Ciano. La terza e ultima parte (Il Talleyrand del fascismo, 1941-1944) cerca di ricostruire la fitta rete di trame ordite dal “delfino di regime” dal rimpasto del febbraio 1943 sino al processo di Verona, per “salvare” l’Italia. Di Rienzo ricostruisce passo dopo passo l’azione di Ciano, tentando di evitare i tranelli tesi dal Diario e di filtrare le opinioni dei contemporanei (generalmente poco lusinghiere). L’epilogo finale, tragico e farsesco in pari misura, vede Ciano contro tutti e con nessuno, intento a salvarsi dall’ineluttabile abbraccio mortale con la Germania, dove pure si rifugia spinto dalla moglie Edda.
Il saggio si apre e si chiude sulle vicende del Diario, scritto in larga parte manipolato da Galeazzo e forse dalla consorte, che tuttavia ha permesso al giovane rampollo livornese di ottenere la “remissione dei suoi peccati” (umani e politici) e alla sua famiglia di ottenere una buona rendita editoriale, poco prima della decisione da parte della Corte di Cassazione di dissequestrare i beni familiari (il “miliardo” di Costanzo). L’attenzione dell’autore sulle vicende familiari non va considerata come una concessione al “colore familiare”, né tantomeno come la mera indicazione di un familismo imperante e onnipresente nella storia italiana. Niente storia giustiziera o giustificatrice, anzi. Va piuttosto collocata alla luce della domanda delle domande: perché l’Italia si alleò con la Germania? Le pagine del Diario sono di aiuto? È difficile rispondere a queste domande, che ci paiono il vero nucleo essenziale del saggio di Eugenio Di Rienzo.
Discutere della veridicità di una fonte porta spesso a discutere il contesto in cui è sorta e i moventi degli attori coinvolti. Qual era lo spazio operativo a disposizione di Ciano? E, di concerto, cosa poteva fare Mussolini? Il ritratto impietoso fornito da Di Rienzo non sembra lasciare molto scampo all’uomo storico: il destino è più forte del meccanicismo. La storia non si fa con la “filosofia” spicciola. Il “tramonto del Mediterraneo” avrebbe potuto forse intitolarsi quest’impietoso ritratto dell’anima latina, quasi a indicare che il nostro paese un “diciotto brumaio”, alla rovescia (il 25 luglio 1943) l’ha conosciuto eccome. E da esso non si è mai ripreso del tutto.