Alessandra Wolff principessa di Lampedusa. Una meravigliosa impertinente
Nella Palermo degli anni ’30 si vanno spegnendo le luci mondane accese all’inizio del secolo attorno alle grandi famiglie inglesi, ai Florio, alle vecchie casate nobiliari che si ripiegano su se stesse. Nell’aria c’è un diffuso avvilimento, che non s’impressiona all’arrivo della nuova principessa di Lampedusa. Lei parla correntemente cinque lingue, disquisisce di patologie sessuali e perversioni ma, scrive Caterina Cardona nell’ormai introvabile “Lettere a Licy” che raccoglie parte della corrispondenza fra Giuseppe Tomasi e sua moglie Alessandra, la nobiltà palermitana viveva di nostalgia e non si accorse più di tanto della personalità della nuova arrivata.
Il carattere morbosamente possessivo della suocera, che per nulla al mondo intendeva rinunciare al figlio, fa precipitare Alessandra in una guerra che non aveva scelto di combattere e le suggerisce di alternare i soggiorni a Palermo con quelli a Roma e nel suo castello a Stomersee. Fu così che iniziò quello che Caterina Cardona chiama “matrimonio epistolare, a distanza”, dove le lettere somigliano ad una conversazione sommessa, sempre in francese. Una corrispondenza originale, il motto di lui era “no personal matters”, niente questioni personali. E così, niente tenerezze o abbandoni. Qualche parola affettuosa solo nell’intestazione o nel congedo, in genere in una lingua diversa. Erano entrambi poliglotti, si sentivano parte di un mondo in via d’estinzione e forse il francese serviva a rendere aerei e ironici i sentimenti, facendoli diventare socialmente accettabili. Nel frattempo ognuno seguiva la sua strada. Il principe descrive le sue giornate sempre uguali, come uguali sono le persone, le cose e i luoghi che gli stanno attorno: a ogni perdita, a ogni morte segue un rattrappimento, una scarnificazione. Sino ad arrivare a quel vuoto in cui germoglierà il romanzo.
Negli stessi anni lei adopera il suo rigore per costruirsi come psicoanalista, una pioniera ancora ricordata con grande amore da chi ebbe la fortuna di incontrarla.
Di lui, autore di quel Gattopardo destinato ad una fortuna postuma che Alessandra contribuì a creare, conosciamo la cosmogonia. Di cui fa parte anche lei, che avrebbe ben diritto ad un suo “monumento” autonomo. Ancora oggi il ricordo più completo di Alessandra Wolff è il necrologio pubblicato nel 1982 da Francesco Corrao, che fu tra i precursori del futuro Centro di Psicoanalisi di Palermo.
Corrao ricorda come la principessa avesse importato Freud in città, “e con esso un modello culturale e scientifico di impronta europea”, rievoca il provincialismo di Palermo e anche “ostilità, disprezzo e sarcasmo da parte dei medici, degli psichiatri, dei clinici universitari”. Scrive che in città gli anni ’30 erano ben tristi, e quando leggiamo che “le persone di ingegno emigravano o si eclissavano” ci sembra che le sue parole possiamo riferirle anche ai nostri giorni.
Alessandra Wolff principessa di Lampedusa aveva un rigore prussiano, nell’organizzazione del suo lavoro e nella difesa dell’ortodossia freudiana. Al 1934 datano i suoi primi contatti con il gruppo ristretto che da pochissimo aveva fondato la Società di Psicoanalisi Italiana, soprattutto con Cesare Musatti, Nicola Perrotti ed Emilio Servadio: lo stesso gruppo che dopo la guerra provvede a ricostituire la Società. E lei, dal 1955 al ’59, ne sarà Presidente: ad oggi, l’unica donna.
I suoi studi sono rigorosamente esemplari, per prima introduce la categoria dei “bordelines” cioè, banalizzando, quei nevrotici che vivono in una zona al confine fra normalità e patologia. In un altro degli articoli sparsi in cui è possibile trovare notizie su di lei, pubblicato da Giancarlo Petacchi nel 1985, leggiamo di come la principessa fosse una donna a suo modo contraddittoria, in cui si alternavano dolcezze e improvvise durezze, “unite a una concezione elitaria dell’esistenza e ad una difficoltà ad adattarsi agli altri”. Nella vita pratica era un po’ ingenua e goffa, scrive Petacchi, ma questo non può stupire considerate le sue origini. Ogni goffaggine e ingenuità sparivano nel decifrare i movimenti dell’accadere psichico. Senza perdere il dono di una leggera ironia, che poteva adoperare senza tabù nelle situazioni più diverse. Così ad un giornalista, che insisteva ad interrogarla sulla validità delle varie fasi nello sviluppo della libido, su cosa fosse in definitiva la fase anale, rispose: “quando lei era piccolo sarà pur stato messo sul vasino, no? Ebbene, quello che lei provava quando stava sul vasino, quella è la fase anale”. Petacchi ricorda ancora “il viso attonito del giornalista e l’espressione di convincimento, dovuta all’evidenza interiore del ricordo”. In quel continente sconosciuto scoperto dalla psicoanalisi, formato da pulsioni e desideri, c’era spazio anche per una risposta impertinente.