Dal porto al marsala passando per Nelson
«Noi siamo assolutamente sicuri – scriveva Adam Smith – che la libertà di commercio, senza alcun intervento del governo, ci fornirà sempre il vino di cui abbiamo bisogno».
E di vino, in effetti, gli inglesi non se ne fecero mancare mai; anzi si può proprio sostenere che la storia dell’enologia europea sia debitrice verso i mercanti-imprenditori di quella nazione per aver dato vita a degli ottimi nuovi vini settecenteschi come il madeira, il porto, lo sherry e il marsala che erano stati degnamente preceduti nel ‘600 dalla malvasia delle Canarie e dal vino di Malaga.
Il primo passo verso la creazione del porto venne compiuto dopo la firma del trattato di Methuen del 1703 tra Inghilterra e Portogallo che prevedeva, fra l’altro, la possibilità di esportare le lane inglesi e, di contro, di importare vino portoghese col beneficio di una tariffa doganale ridotta di un 1/3 rispetto al dazio applicato sui vini francesi. Da quella data i mercanti britannici, prima semplici importatori, cominciarono a insediarsi a Porto e ad aprire proprie aziende (Warre’s, Sandeman, Cockburn, Offley) per incettare il vino dell’Alto Douro e manipolarlo con aggiunte di brandy. Ciò che, infatti, rendeva il porto «a special wine» era l’aggiunta di acquavite di vino che, in verità, sin dal XVI secolo veniva utilizzata occasionalmente per fortificare i vini della Catalogna prima di imbarcarli per mete lontane, per evitare che si deteriorassero.
La nascita della “Companhia Geral da Agricultura das Vinhas do Alto Douro”, nel 1756, determinò la creazione di un monopolio che si estese anche al settore del brandy, comportando la chiusura delle distillerie private e la proibizione ad importare alcool dall’estero. Verso la fine del ‘700, però, i mercanti britannici insorsero contro la Companhia accusata di vendere brandy di pessima qualità e proprio in questa fase si svilupparono le condizioni favorevoli per la “internazionalizzazione” del marsala. L’inizio delle guerre napoleoniche e ancor più gli effetti del Blocco continentale del 1806 cominciarono a ridimensionare il peso della Companhia; le importazioni di porto si ridussero sensibilmente fra il 1803 e il 1812 e il governo portoghese – nel frattempo rifugiato in Brasile – sottoscrisse, nel 1810, un nuovo trattato di commercio con la Gran Bretagna nel quale si poneva fine ai monopoli e ai privilegi delle factories inglesi.
Anche per il vino madeira il secolo XVIII è considerato di grande crescita, tuttavia, i volumi delle della sua esportazione non erano paragonabili a quelli del porto. A fine ‘700, i principali mercati di riferimento erano nelle Americhe; quello europeo risultava irrilevante.
Il madeira veniva fortificato con aguardiente ma anche sottoposto ad un processo di ossidazione provocato dal calore generato nelle stufas.
Non sappiamo con certezza quando il mercante John Woodhouse sia arrivato a Marsala. Le fonti ottocentesche indicano il 1773 e un avvio di attività incentrato sul commercio della barrilla cioè delle ceneri di soda. Sarà il figlio omonimo, tra gli anni ottanta e novanta del ‘700, a sviluppare l’interesse per il vino. Inizialmente Woodhouse jr. si limitava a comprare botti di mosto o di vino d’annata nelle varie contrade e a trasferirlo nel suo magazzino per travasarlo nelle pipes fabbricate dai maestri bottai locali che venivano imbarcate senza particolari manipolazioni. La svolta si ebbe al finire degli anni ’90 allorché la presenza nel Mediterraneo della flotta di Nelson e le truppe inviate in Sicilia, per difenderla dalla possibile invasione francese, alimentarono una domanda del tutto inattesa.
La Royal Navy cominciò ad essere rifornita con le pipes di marsala – subito ben apprezzato – sin dal 1799, per la sua squadra di stanza nella rada di Malta. Il nome della ducea di Bronte alla falde dell’Etna, che re Ferdinando IV avrebbe donato a Nelson nel 1800, fu attribuito anche a un tipo di marsala denominato Bronte-Madeira.
I Woodhouse saranno i primi ad esportare marsala oltreoceano, grazie al solido legame stabilito con il finanziere inglese e console degli Stati Uniti a Palermo, Abraham Gibbs.
Nel diario di viaggio dell’ufficiale irlandese George Cockburn (1763-1847) si rileva, per la prima volta, il riferimento esplicito al vino marsala affine al madeira.
La necessità di associare il marsala al madeira o ai vini andalusi di Xeres, derivava da esigenze di marketing ante-litteram. Il consumatore britannico doveva essere orientato e rassicurato sul tipo di prodotto offerto e, in tal modo, si forniva un elemento di comparazione. Questi accostamenti sarebbero stati proposti ripetutamente nei decenni successivi e, ancora nel 1834, Vincenzo Florio nell’atto costitutivo della sua fattoria indicava: «fabbrica per acconciatura di vini nazionali all’uso di Madeira». Al di là dell’abbinamento per evidenti finalità commerciali, i fratelli Woodhouse si convertirono sin dai primi anni dell’800 da esportatori in imprenditori vinicoli, impiantando all’interno del baglio di proprietà un alambicco per la distillazione dell’acquavite. Il processo di fortificazione con modeste aggiunte di brandy (circa il 2%), sarebbe diventato, negli anni, sempre più elaborato e avrebbe comportato un incremento della gradazione alcolica e un tempo di invecchiamento anche molto lungo. Questa variazione suscitò l’attenzione dell’autorità doganale marsalese e l’inizio di un forte contrasto, nella convinzione che i diritti dovuti dai Woodhouse sulle botti esportate non potessero essere quelli di norma applicati al vino “usuale”; così facendo, infatti, non si sarebbe tenuto conto delle aggiunte di acquavite che, considerata a sé stante, veniva sottoposta a ben più elevata tassazione. Ma i doganieri di periferia sottovalutavano l’efficienza della rete di protezione britannica e il re non poteva permettersi di inimicarsi proprio i Woodhouse grandi finanziatori del senato marsalese per gli acquisti di cereali, nonché mercanti-imprenditori la cui attività avrebbe continuato indisturbata a generare lavoro e ricchezza in quelle contrade.