“Come ti erudisco il pupo”. A proposito dell’attuale dibattito sul fascismo
Dato che Aurelio Musi mi chiesto di aggiungere al suo un mio intervento sull’ultimo sgocciolamento di Antonio Scurati, accetto, pur con qualche riluttanza l’invito, affrontando il rischio di entrare nel gallinaio mediatico che si è sviluppato sul fascismo e sul suo immaginario ritorno.
Di Scurati, comunque, parlerò poco. E lo farò solo per invitare lui e i suoi immagino numerosi emuli di prendere a modello per le loro prossime fatiche, Balzac, Zola, Dickens, Tolstoj che erano letterati che sapevano di storia e non storici della domenica. Il problema, infatti, non è Scurati che avendo deciso di partecipare al Premio Strega, “per antifascismo” (!?!), ed essendo mal piazzato al totalizzatore, comprensibilmente, si arrabatta a potenziare il battage pubblicitario a favore della sua creazione. Il problema vero è, invece, il cattivo uso politico della storia (ne esiste, infatti, anche uno buono) che si va facendo sul ventennio nero, da destra e da sinistra.
A destra, Antonio Tajani (ex Almirante’s boy nella sua lontana verde età) grida “viva l’Istria e la Dalmazia italiane”. Poi spaccia un giudizio semi-assolutorio su Mussolini, su cui si potrebbe discutere con qualche frutto per tornare a riflettere sul “Welfare in camicia nera” che ispirò il New Deal di Roosevelt, se quel giudizio non fosse stato enunciato con la stessa disinvolta sciatteria di un chiacchierata al “Bar Sport” dell’omonimo romanzo di Stefano Benni. Il tutto per accaparrare qualche nostalgico voto a un partito in via d’estinzione come Forza d’Italia.
A sinistra, se è possibile si fa anche peggio, con l’occhio fisso alle elezioni europee e solo a quelle. Si ritorna a parlare di fascismo come “male assoluto”, arrivando per così dire a una “nazi-mistificazione” del regime, se ne annuncia il revival sotto i labari della Lega (“Salvini nuovo Duce”), e, infine si arriva addirittura all’”invenzione dell’evento”, datando la nascita del fascismo all’adunata milanese di Piazza Sansepolcro del 23 marzo 1919.
Quella adunata non oceanica fu solo un insignificante episodio di cronaca politica, tra i tanti che si susseguirono in quel dopoguerra inquieto e disperato nel quale la classe dirigente liberale dichiarò fallimento, come ha ben detto Roberto Vivarelli. Eppure a quella “piazzata” sono state dedicate, in queste settimane, interminabili articolesse sui giornaloni progressisti, conferenze di storici laureati, l’immancabile volume di Mimmo Franzinelli (Mondadori), poligrafo attentissimo alle ricorrenze per ovvie ragioni di mercato, che definisce quel 23 marzo “data cardine nella storia d’Italia”. Né è mancata, in questa occasione, persino qualche visita guidata per le scolaresche ambrosiane a Piazza Sansepolcro, “per erudire il pupo” (mi si consenta la citazione del celeberrimo opuscolo umoristico-pedagogico di Luigi Lucatelli), utilizzando le magnifiche e progressive risorse della Public History.
Come scrisse Cesare Rossi, all’epoca vicinissimo al futuro Duce, il consesso milanese fu, infatti, «trascurabile dal punto di vista numerico e qualitativo, poiché un terzo almeno dei convenuti in seguito passò all’antifascismo». Lo stesso Mussolini parlò di soli 54 partecipanti che «presero solenne impegno ad essere fedeli ai principi fondamentali del movimento». E altri testimoni riferirono che nella ristretta schiera numerosi erano i repubblicani, i socialisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici, che di lì a poco passarono dalla parte opposta della barricata. Insomma, quel giorno, a Milano, il fascismo non nacque. Per vederlo sorgere come “macchina da guerra totalitaria”, secondo la definizione di Giovanni Amendola, bisognerà attendere, invece, il novembre del 1921, quando un movimento fino ad allora anarchisteggiante e attraversato da più di qualche fremito libertario, cresciuto in consensi e amalgamatosi nelle prove della guerra civile, si trasformò nel Partito Nazionale Fascista.
E allora tanto rumore per nulla? Direi proprio di sì. Perché di rumore e solo di rumore si tratta. Anzi d’inquinamento acustico. Molto dannoso, però. A osservare l’intera vicenda con un po’ di distanza, come ha scritto il mio amico Marco Gervasoni, si fa forte, infatti, la convinzione che, ora, sia diventato più difficile analizzare e giudicare liberamente il fascismo dal punto di vista storico, come si iniziò a fare dopo l’Intervista di Renzo De Felice del 1975. Un bel progresso, insomma, di cui tutti si possono intestare il merito: letterati ansiosi di premi e prebende, giornalisti, opinionisti di accatto e di professione, attori in cerca di scrittura, registi in attesa di un produttore, star e starlettes, nani e ballerine, la nostra sgangherata classe dirigente, e ahimè, anche una parte degli analisti del passato desiderosi, oggi come ieri, di uniformarsi alle “veline” della politica politicante.
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