Lo scultore Vincenzo Ragusa e la genesi dell’Istituto d’Arte e della Scuola d’Arti applicate all’Industria di Palermo – Parte seconda
A presiedere il primo consiglio direttivo fu chiamato l’architetto Giuseppe Damiani Almeyda, di nomina governativa, e già dopo pochi mesi emersero fatti gestionali commendevoli – ancor più gravi di quelli registrati all’Istituto d’arte – imputabili al direttore Ragusa, tali da costringere il Damiani a richiedere l’invio di un commissario regio. Contemporaneamente, il prefetto, così scriveva al ministro il 5 luglio 1888:
Reduce dal Giappone con una collezione di cose giapponesi e con una donna giapponese per giunta, egli con la speranza di vendere al Governo il suo così detto museo […] si è trovato implicato in tanti litigi e debiti, ai quali dovrebbe far fronte col prezzo del museo […]. Essendo stato nominato direttore anche di una scuola d’arti applicate all’industria si è comportato in guisa che col presidente del Consiglio di vigilanza, ch’era un antico suo amico e protettore [cioè Damiani Almeyda], non s’è trovato pure d’accordo e gli altri membri elettivi del Consiglio rappresentanti della Provincia e del Comune ebbero a dare le loro dimissioni, da che a loro non pareva di poter assenzionare tutto quello che si proponeva e si faceva dal detto professore Ragusa(8).
Come se non bastasse, in quelle stesse settimane, il prefetto veniva sollecitato a fornire chiarimenti pure al ministro degli Affari Esteri. L’artista, infatti, era tornato in Sicilia, con la moglie Otamà Kiyohara e con una coppia di coniugi giapponesi: un abile laccatore e sua moglie, la ricamatrice Taio Kiyohara, sorella di Otamà, per farsi coadiuvare nella realizzazione del progetto. Nel 1888, il genitore delle due sorelle Kiyohara, convinto che alle figlie fosse impedito di ritornare in patria, fece istanza al proprio governo affinché intervenisse presso quello italiano, lasciando intravedere un vero e proprio sequestro di persona ad opera del Ragusa. Le delicate indagini condotte dalla Questura chiarirono la vicenda; non si trattava di sequestro, ma di mancata riscossione dei compensi spettanti, visto l’insuccesso del progetto industriale, che costringeva al periodico rinvio del rientro in Giappone della coppia di collaboranti:
gli oggetti di quella regione – precisava il prefetto – qui esposti in vendita, non sono stati abbastanza apprezzati, sicché nel volgere di pochi anni gli affari sono andati così male che il Ragusa è oramai costretto a venderli a un prezzo infimo(9).
In che cosa consisteva il progetto di Vincenzo Ragusa e con quali mezzi pensava di attuarlo? Una nota manoscritta, databile 1883, tra le carte del prefetto, contiene l’elenco di 16 nominativi facenti parte di un «Comitato promotore delle Scuole Officine da impiantarsi a Palermo» tra cui Ignazio Florio, Damiani Almeyda, Giuseppe Alliata principe di Ucria, il principe Gaetano Lanza, il conte Francesco Trigona. Questo comitato avrebbe accolto favorevolmente l’idea originaria dello scultore di costituire una «Società generale per l’introduzione delle industrie artistiche in Palermo» su base azionaria, al fine di esercitare le industrie speciali del Giappone più utili ai nostri bisogni, come l’industria delle Lacche. […] A misura che i mezzi aumenteranno e che lo si giudicherà utile si potrà fare anche la lavorazione delle ceramiche, delle terre cotte e delle fusioni in bronzo(10).
Accanto ad essa, lo stesso Ragusa suggeriva la creazione di scuole officine, sostenute finanziariamente dagli enti locali e dallo Stato, per «educare i giovani operai d’ambo i sessi nel buon disegno e nelle migliori manualità dei diversi mestieri» e per limitare «l’invasione delle industrie straniere e migliorare le condizioni delle nostre».
La società per azioni non risulta sia andata oltre le enunciazioni della bozza statutaria e il programma velleitario di Ragusa – sempre più travolto dai debiti – naufragò al nascere. Non ottenendo lo scopo e ben prima che la Scuola d’arte applicata all’industria venisse riconosciuta con decreto del 3 marzo 1887, Ragusa riuscì a farsi anticipare dal Comune e dalla Provincia le somme a questa destinate per ripianare parte dei “suoi” debiti, contratti per mantenere la “sua” scuola-museo giapponese.
Il Damiani, resosi conto dell’indifendibilità dell’ex amico Ragusa, si dimise da presidente del consiglio direttivo, richiedendo al Ministero il commissariamento della scuola. Il ministro condivise e deliberò in tal senso nominando prima Giovan Battista Filippo Basile, nell’aprile del 1889, e dopo la morte di questi nel 1891, l’architetto Giuseppe Patricolo.
Appare davvero impietosa la ricostruzione dei fatti che il Patricolo formalizzò in una lettera di qualche anno dopo al presidente del Consiglio provinciale di Palermo, per sollecitare il pagamento del contributo annuale dovuto alla scuola:
1° Perché l’attuale Scuola è un Istituto pubblico di arti industriali italiane, e quindi non può confondersi con la Scuola privata di arti giapponesi che una volta ebbe il Ragusa.
2° Perché l’Amministrazione e la Rappresentanza della Scuola si appartiene al Presidente del Consiglio direttivo, ai termini dell’art. 8 dello Statuto, votato dal Consiglio Provinciale e pubblicato per R. Decreto, e non al Ragusa che n’è Direttore Artistico senza affatto ingerenza nell’Amministrazione.
3° Perché questa Scuola ancora non esisteva né materialmente né legalmente quando vennero concesse le lire 3.636 al Ragusa; in effetto il Decreto Reale di fondazione fu emanato il 3 marzo 1887, cioè due anni dopo che le somme furono pagate al Ragusa, e la Scuola fu aperta il 1° ottobre 1887 per dispaccio Ministeriale del settembre dello stesso anno; e quindi ad un Ente che ancora non esisteva negli anni 1885 e 1886 nulla poteva e doveva pagarsi.
4° Perché di tale pagamento fatto al Ragusa per scopi di pigione di casa di un suo Istituto privato, niun vantaggio pervenne all’attuale Scuola e Museo Artistico-Industriale, a quella Scuola verso la quale la Provincia si è obbligata.
Trovo opportuno infine far rilevare alla S.V. Ill.ma che il Municipio di Palermo, che dapprima aveva fatto obiezioni analoghe a quelle sollevate dalla Provincia, per avere ugualmente sussidiata la Scuola privata del prof. Ragusa, finì col dare ragione alla domanda di questa Scuola, stanziando nel bilancio del 1890 il saldo dell’intero assegno dovuto per spese d’impianto(11).
In buona sostanza, Ragusa era riuscito a farsi anticipare somme che non potevano essere erogate e che il Comune e la Provincia pagarono incautamente al futuro direttore di una scuola legalmente inesistente!
Le vicende qui sintetizzate certamente fanno riflettere sull’incapacità dell’artista di evitare l’isolamento da parte sia dei suoi principali amici, sia degli interlocutori nelle istituzioni scolastiche, nei ministeri competenti e negli enti locale e territoriale. Fermo restando, infatti, il suo comprensibile desiderio di realizzare un progetto didattico-museale innovativo e di non disperdere il prezioso e ricchissimo patrimonio di reperti orientali portato a Palermo, il suo modus operandi si rivelò sostanzialmente autodistruttivo. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di aver distratto fondi per usi personali o per arricchirsi, ma nessuno poteva difenderlo a spada tratta, specialmente all’interno di una cornice politico-istituzionale post-unificazione in cui tra governo, provincia e comune le tensioni autonomiste mai sopite e il rivendicazionismo campanilistico erano intensi e persistenti.
Per comprendere, invece, la fine ingloriosa del progetto di società per le industrie artistiche occorre sottolineare quanto fossero fragili le premesse; Ragusa sopravvalutò sia quei borghesi-imprenditori che aveva tentato di coinvolgere, sia l’entità della domanda di mercato di prodotti orientali; dai primi, infatti, non ottenne riscontri, a cominciare da Ignazio Florio che, nel 1884, aveva avviato una fabbrica di porcellane e di ceramiche, chiamandovi a collaborare fra gli altri il pittore Rocco Lentini e due tecnici stranieri, prima Augusto Mely, poi Oluf Olsen. Il giapponismo rientrava pienamente tra le mode europee del tempo la cui influenza in ambito locale è già da tempo oggetto di studio(12), tuttavia, a Palermo non generò sul piano delle iniziative imprenditoriali effetti paragonabili a quelli che l’originale interpretazione del liberty avrebbe, invece, prodotto [si pensi al rapporto tra Ermesto Basile e Vittorio Ducrot].
E sulle potenzialità della domanda di mercato la sopravvalutazione fu ancora maggiore, come dimostrato dalle vendite a prezzi “infimi” che fu costretto a praticare. D’altronde, non andava meglio agli artisti palermitani i quali, fatta salva qualche eccezione, avevano serie difficoltà a trovare chi comprasse le loro opere.
E infine, il museo privato di Ragusa non aveva alcuna attinenza con quelli in via di formazione in Italia e all’estero, nell’ambito delle istituzioni pubbliche, le cui collezioni si andavano componendo con repertori identitari “nazionali” di design storico-artistici, soprattutto dal periodo greco-romano a quello rinascimentale, con specifiche finalità didattiche, volte a potenziare e celebrare il culto della cultura classica.
Note
8) Ivi, b. 104, lettera del prefetto al ministro della I. P., Fiorelli, Palermo, 5-7-1888.
9) Ivi, lettera del questore al prefetto, Palermo, 14-9-1888.
10) Ivi, b. 71, fasc. «Società Generale per l’introduzione delle industrie artistiche in Palermo», bozza dello statuto sociale s.d. ma databile 1883, art. 1.
11) Asp, Pref. Arch. Gen., b. 109, lettera di Giseppe Patricolo al presidente del Consiglio provinciale, Palermo, 1-1-1896.
12) A. Spadaro, Otama Kiyohara/Eleonora Ragusa: una favola fin de siecle, suppl. a «Kalós» 2002, n. 1; Ead., O’Tama e Vincenzo Ragusa: echi di Giappone in Italia, Kalós, Palermo 2008; Ead., O’Tama e Vincenzo Ragusa. Un ponte tra Tokyo e Palermo, Fondazione Sant’Elia, Palermo 2017; D. Brignone, Liberty e Giapponismo. Arte a Palermo tra Ottocento e Novecento, Silvana, Milano 2017.
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