Bellicismo e pacifismo negli scrittori italiani del Seicento
Il bel volume di Massimiliano Malavasi, Per documento e per meraviglia. Storia e scrittura nel Seicento italiano (Roma, Aracne, 2015) si compone di vari saggi dedicati, fra l’altro, all’immagine della guerra nel Seicento, allo «stile della storia al tempo del barocco», a Tacito, a Phillip Clüver, primo «Geographus Academicus» di cui si ha notizia, a Girolamo Canini, autore e traduttore di Tacito e di Montaigne.
Nel primo saggio prende le mosse da un volume di Benzoni (I frutti dell’armi. Volti e risvolti della guerra nel Seicento in Italia), in cui si parla di una «presenza ossessiva della guerra nella cultura italiana del Seicento», soprattutto in correlazione all’incapacità dei vecchi aristocratici di pensare «lo sviluppo della società, se non in termini di sfruttamento della produzione agraria e dunque di conquista manu militari dei beni primari di altri»; Malavasi mostra tuttavia come qualcosa muti nel corso degli anni. L’ideologia bellicistica perde terreno, il vecchio mondo declina mentre si impongono gli Stati in cui si stava realizzando una «più moderna idea della società e dell’organizzazione del consorzio civile»: in primis, Olanda e Inghilterra.
Questo mutamento di mentalità è rintracciabile nella storiografia, benchè ogni opera sia un caso a sè, come l’autore tiene a sottolineare; in alcune, appare chiara la ricerca stilistica, finalizzata a dar pieno conto dell’importanza dell’evento bellico; E’ il caso, ad esempio, della descrizione della battaglia di Nieuwpoort nel racconto della Guerra di Fiandra di Guido Bentivoglio (1639), per la quale lo storiografo si guadagnò persino un elogio del poeta Testi; evidentemente ricercate sono anche le pagine di Famiano Strada su un altro episodio della lunga guerra nelle Fiandre, ovvero, l’assedio alla cittadina di Ostenda, in cui colpiscono le analogie con il mondo greco (a partire dall’associazione Ostenda-novella Troia: Istoria della guerra di Fiandra. Dall’anno MDXCIII sin alla tregua d’anni XII conchiusa l’anno MDCIX, 1673); tuttavia, l’autore nota che non si può parlare di scelte retoriche rivelatrici di un’adesione emotiva e ideologica forte agli eventi narrati: piuttosto, si registrano racconti che mostrano la guerra nei suoi «aspetti più crudamente oggettivi, privi di ogni orpello retorico». Va anche considerato che vari autori di testi storici erano comandanti, Raimondo Montecuccoli, Pompeo Giustiniani, Maiolino Bisaccioni e Galeazzo Gualdo Priorato, e propendono a maggior ragione per un racconto piano, vicino agli eventi di cui si occupavano; la scrittura storica, in vari casi, sembra procedere in modo automatico. Poco si sofferma sugli eventi per sottolinearne il valore politico o trasmettere un eventuale senso della grandiosità della guerra o dell’eroismo di alcuni dei suoi protagonisti.
In alcuni casi, si giunge proprio a schierarsi contro la guerra: Alessandro Zilioli, cittadino veneziano, non esita a paragonare, in un «passo dal sapore aretiniano e boccaliniano», il lavoro del soldato a quello della meretrice, con la differenza che quest’ultima meritava più riconoscenza poichè vendeva piacere (Delle istorie memorabili, 1646). Frugando tra le carte, si vede bene come in questa visione della guerra abbia inciso anche la consapevolezza dei veri motivi dei conflitti in atto, che erano solo apparentemente guerre di religione: d’altra parte, osserva giustamente Malavasi, l’alleanza della Francia con le forze protestanti durante la guerra dei Trent’anni fu un fatto eclatante e fece riflettere di per sè (p. 38).
L’Autore parla di disinganno, visibile nei vari testi di Tassoni sul tema della guerra: in Della guerra in Valtellina, l’autore modenese smaschera le motivazioni eminentemente politiche dello scontro tra cattolici valtellinesi e grigioni calvinisti, forte anche dell’esplicita opposizione del pontefice Gregorio XV a Filippo III, determinato a suo avviso a scalzare i calvinisti, per estendere il proprio dominio sulla Valtellina. Lo scetticismo di Tassoni verso gli ideali militari ereditati come membro di una piccola aristocrazia di famiglia è evidente anche nell’epistolario, in cui la guerra è descritta come «follia giovanile», mentre «gli adulti saggi si dedicano ai commerci»; il mestiere delle armi era buono solo per chi non sapeva dedicarsi ad altro. Riecheggiano qui, suggerisce l’Autore, le parole di Traiano Boccalini, «spregiatore indefesso delle armi», ma forse a Tassoni come ad altri letterati non erano ignote le posizioni dei grandi umanisti sul tema, tra cui quella di Montaigne. Le modalità in cui sono narrati i conflitti rivelano la generale tendenza della storiografia ad uno stile piano, aderente ai fatti, spesso assicurato da numerosi prelievi dalle gazzette (una delle fonti privilegiate). Le indicazioni teoriche sul discorso storico sono, d’altronde, piuttosto omogenee. Solo per fare alcuni esempi: per Paolo Beni, autore di Della historia (1611), lo storico deve mirare alla perspicuitas, prediligere l’«attica siccitas», ma questo non voleva dire che dovesse scegliere l’elocutio plebea, piuttosto, si doveva rifiutare la tacitiana brevitas (p. 207); nel suo celebre Dell’arte istorica, pur riproponendo la concezione classica della storiografia come opus oratorium maxime, Mascardi «consiglia l’uso di un lessico semplice e polito» e suggerisce di mirare alla concinnitas e alla «collocazione armoniosa delle voci»; più radicale è la posizione di Sarpi, per il quale l’arte retorica era uno strumento diabolico, «teso a nascondere la verità e a coadiuvare l’inganno e il crimine» (p. 220).
L’Autore ritiene che si possa parlare dell’affermazione di una storiografia non invasa «dall’ossessione per le figure della ripetizione delle Dicerie sacre del Marino, al gusto dell’ornato nella produzione romanzesca e novellistica, al tessuto fitto di figurae delle prediche di un Lubrano» (221). Vanno tuttavia fatti dei distinguo; il discorso vale per storiografi come Enrico Davila (nella sua Istoria delle guerre civili), per Famiano Strada, che scrive in un latino semplice e piano il suo De bello belgico; per Gualdo Priorato, che riteneva la sua cultura militare «più degna di quella letteraria» (227); non vale per altri, come Virgilio Malvezzi («uno dei grandi maestri della prosa del secolo») o Tesauro (che mette a frutto la sua sapienza in fatto di retorica nel suo Del regno d’Italia sotto i barbari, 1667). In questa pluralità di posizioni, è evidente un «processo di specializzazione» della scrittura storica in cui gioca un ruolo il fatto che si stesse affermando una visione della storiografia in sintonia con una maggiore consapevolezza di essere in un’altra epoca, rispetto agli Antichi: gli ingegni moderni «devono esentarsi dal mendicare le forme dello scrivere dall’antichità. Anzi, questo è un necessitargli a seppellire le ricchezze della loro virtù» (è un passo dal Sansoni di Ferrante Pallavicino, citato nel volume, p. 280). Pur nella loro diversità, molti sono i testi storici seicenteschi italiani che finiscono nelle biblioteche d’Oltralpe; evidentemente essi leggibili e realistici com’erano in genere fornivano abbondante materia alle civili conversazioni, che erano poi i piccoli campi di battaglia in cui i letterati potevano farsi valere, con la loro cultura e la loro retorica.