“Mio nonno, internato in un campo di concentramento italiano, fu salvato dalla Santa Sede”. Alessandro Hoffmann racconta la sua storia
Il dramma di una famiglia di origine ebrea a Palermo che si trasforma in memoria collettiva
In famiglia nessuno ne parlava, i ricordi del nonno erano legati alla sua vita quotidiana e al suo lavoro, ma dietro quella serenità apparente si nascondeva la storia di un uomo che la notte del 16 giugno 1940 venne prelevato da casa e portato al carcere Ucciardone di Palermo. La sua colpa: essere ebreo.
A raccontare la sua storia è il nipote, il professore Alessandro Hoffmann che, mosso dal bisogno di sapere di più di quel nonno «autorevole, amante della vita, dei frutti della Sicilia e dei viaggi» ha deciso di squarciare quel silenzio che per anni ha celato gli orrori vissuti durante il regime fascista dalla sua famiglia.
«Eravamo legatissimi, ho sbagliato con lui – racconta Hoffmann – se gliel’avessi chiesto me ne avrebbe parlato».
Alessandro Hoffmann senior si era trasferito a Palermo nel 1915 dopo avere preso contatti con la società di import/export dei Fratelli Jung (anch’essi ebrei), con sede in via Lincoln. La Sicilia era infatti uno snodo cruciale nell’esportazione di sommacco, arance, limoni, manna, pistacchi. I ritmi di Hoffmann, nel ruolo di corrispondente della società, erano legati a quelli degli alberi di limoni:
«viveva in città fino a giugno, quando finiva la campagna agrumaria – racconta il nipote – e poi partiva con la nonna. Così fecero per tutta la vita. Era un uomo che campava alla giornata – aggiunge – godeva della vita in modo pieno totale e assoluto. Non si preoccupava del futuro».
A parere del nipote, nel periodo successivo al regime fascista «perde la religione, io l’ho conosciuto solo come laico, mentre chi l’ha conosciuto negli anni Venti lo tratteggiava come un ebreo moderatamente osservante, ma questo non l’ho mai visto. Per me era un laico socialista interessato di politica internazionale».
A distanza di oltre settant’anni, a rendere giustizia alla sua storia e al rapporto che li legava è una cartolina postale datata 15 luglio 1940, nascosta in una collezione di francobolli.
«Dopo quello che ho passato sono contento qui», così scriveva Alessandro Hoffmann alla moglie un mese dopo l’internamento nel campo di concentramento di Campagna, vicino Salerno. Quello che subì prima di arrivare là non lo raccontò mai. In quel momento il suo pensiero soffiava verso la Sicilia e lo sforzo di trasformare in parole il suo stato d’animo aveva la sola preoccupazione di tranquillizzare la moglie Olga.
Dal punto di vista giuridico, Hoffmann rientrava in una casistica che escludeva in realtà, secondo i dettami di legge, la sua pericolosità sociale in quanto ebreo. Era infatti previsto, ricorda il nipote, che tutti gli ebrei stranieri residenti in Italia da prima dell’1 gennaio 1919 fossero esenti dall’espulsione. Lui era in Italia dal 1913 ma venne arrestato ugualmente.
Non era dato sapere il motivo per cui la polizia che bussava alla porta arrestasse le persone in lista: «Prego, ci segua, il questore vuol parlarle», recitava un copione sempre uguale a se stesso.
A Palermo, oltre ad Alessandro Hoffmann, anche Julius Hoffmann (fratello di Alessandro e albergatore), Federico Mausner (corrispondente), Mosè Schatcher (medico), Josif Schachter (fratello di Mosè e studente universitario), Adamo Baumann (oculista), e Angela Sternheim (impiegata) vennero presi e portati prima all’Ucciardone e successivamente in campi di concentramento.
Otto Rosenberg, un sinto unico sopravvissuto della sua famiglia, nonostante avesse più di settant’anni, venne arrestato perché additato dalla gente come “spia”. Era sufficiente un elemento di tal sorta per innescare le maglie del sospetto.
Il silenzio attorno era l’unico compagno di viaggio sui treni che percorrevano i binari dell’oscenità, verso i campi dell’orrore che solo in Italia centro meridionale, incassati fra le montagne, erano circa cinquanta.
«Dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare – racconta Carlo Levi – e si addentrano nelle desolate terre di Lucania», lì c’è Campagna, località sui monti Piacentini. Fu uno dei principali luoghi di concentramento/internamento – una distinzione sottile, specie nei primi anni – allestiti dal governo fascista, sicuramente tra i più grandi assieme a quello di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, destinato ai profughi ebrei e agli ebrei residenti in Italia al momento dell’entrata in guerra (10 giugno 1940).
I reclusi vivevano in due ex conventi, quello di San Bartolomeo e quello dell’Immacolata Concezione, dapprima trasformati in caserma e poi in edifici di concentramento. Gli internati dovevano rispondere a tre appelli giornalieri.
I campi di concentramento non erano gli unici luoghi di internamento: si ricordano anche le colonie di confino quali Lipari, Lampedusa, Pantelleria, Favignana e Ustica.
Il pomeriggio del 27 novembre 1940, Alessandro Hoffmann scrive a mano su un foglio a quadretti a Sua Eccellenza il Signor Vescovo di Campagna:
«Monsignore, essendo stato liberato e trovandomi nuovamente a casa mia, mi affretto a presentrarVi i miei ringraziamenti più sentiti e quelli di mia moglie per l’assistenza accordatami da Voi. Non dimenticherò la Vostra bontà che soltanto Iddio potrà compensarVI. Con i miei più devoti saluti e quelli di mia moglie, mi rassegno».
[Estratto dal libro “Storia di una famiglia di origine ebrea a Palermo di Alessandro Hoffmann]
La salvezza del nonno di Hoffmann si intreccia con quella della Santa Sede, con quella di una Chiesa non apertamente schierata ma che riporta a tratti storie di piccoli miracoli che hanno portato in salvo ebrei grazie alle opere di coraggio di sacerdoti di provincia, come quella di Giuseppe Maria Palatucci.
In sostanza, il ministero dell’Interno aveva comunicato al cardinale Luigi Maglione, segretario di stato di Sua Santità, che «il provvedimento dell’internamento del suddito tedesco Alessandro Hoffmann fu Enrico è stato revocato e che il predetto, pertanto, potrà fare ritorno a Palermo, suo comune di residenza».
Quello che rimane, oggi, è il compito di tramandare ciò che è stato. Di continuare a raccontare le atrocità perpetrate su corpi e anime innocenti perché rivivano nelle parole di chi ne fa memoria.