L’Italia delle piccole patrie
Se i rigurgiti nazionalisti vengono messi in crisi dalla pandemia
Sono trascorsi quasi dieci anni dal centocinquantenario dell’unità italiana e, se poniamo a confronto il quadro politico e sociale del 2011 con quello di ora, non mancano i segnali di un ritorno in forze di quanti rivendicano la centralità dei singoli stati rispetto alle ideologie cosmopolite e globaliste.
Si tratta di una richiesta che raccoglie consensi trasversalmente e per questo motivo si dimostra capace di molto condizionare la vita politica italiana. Rilanciato da una infinita crisi economica e nutrito dalla sfiducia verso una dimensione europea nella quale per troppo tempo ci si era illusi tutto potesse trovare soluzione, il nazionalismo – perché di questo si sta parlando – sembra tornato a disporre di un ampio consenso nella società italiana.
Difficile dire se le celebrazioni dell’Unità abbiano dato impulso a questa tendenza, ma in ogni caso l’insidia non era sconosciuta. I promotori ritenevano comunque di poterla dominare tramite una puntuale pedagogia della nazione, che proprio in nome del Risorgimento mettesse in campo un rinnovato amor di patria capace di rilanciare – a fronte delle spinte secessioniste – le ragioni dell’unità. Insomma, quanti vollero ricordare il centocinquantenario puntavano alla costruzione di un patriottismo democratico, che ponesse fine a un dissidio che si trascinava dalle origini stesse dell’Italia repubblicana e nella quale si confrontavano letture contrapposte della nascita, della stabilizzazione nonché delle successive articolazioni dello stato unitario.
Da un lato vi era chi non nascondeva un nesso tra il movimento nazionale e la sua degenerazione nel nazionalismo prima e nel fascismo poi; dall’altro chi negava che al Risorgimento si potesse imputare una qualche responsabilità nella deriva autoritaria del primo Novecento. Questa querelle di antica data superò anche il momento unanimistico delle celebrazioni del 2011 e ha continuato a dominare la scena della società italiana, di cui si fa prova provata la costante diffidenza verso la statualità di ampi settori della società italiana e il richiamo, sempre seducente, di un particolarismo pronto a vestirsi dei panni di una politica delle libertà.
E tuttavia, la devastante crisi di questi giorni tutto sembra rimettere in gioco: lo Stato unitario, dato puntualmente per esaurito, ricompare, nel quadro di un dramma sanitario di proporzioni paurose, quale un punto di riferimento insostituibile per assicurare una politica di contenimento del contagio e per articolare una strategia di solidarietà tra i territori. Il mito delle libertà locali frana a fronte dell’evidente incapacità dei poteri regionali di reggere l’urto di una crisi devastante. Il rapporto tra Stato centrale e poteri territoriali – da oltre cinquant’anni sempre a vantaggio di questi rispetto a quello – conosce un’improvvisa torsione e impone la necessità di un profondo ripensamento, non fosse altro perché è nel frattempo venuta meno la sponda del riferimento all’Europa.
Quando si uscirà dalla crisi, si dovrà ricordare come il potere centrale e quelli locali abbiano avuto difficoltà a interagire e si dovranno ridefinire le rispettive aree di competenza. Se vogliamo sfuggire alla facile conclusione che nuove forme di accentramento di governo siano inevitabili, non resta altra via che un rinnovato patto tra poteri locali e Stato unitario fondato sul convincimento che un Paese coeso si costruisce dal basso.
Il precedente storico della fondazione dello Stato unitario mi sembra, da questo punto di vista, poter dire ancora qualcosa: dopo il 1861, prima che la difficile stabilizzazione del nuovo stato portasse all’involuzione accentratrice, molti credettero a un’Italia delle piccole patrie, delle quali si valorizzassero le peculiarità nel quadro di una politica unitaria alla quale tutte dovevano parimenti concorrere.
A così tanto tempo di distanza, la questione sembra riproporsi, perché i drammatici avvenimenti di questi giorni sembrano imporre ai poteri regionali dialogo e collaborazione – e questo non mi sembra stia avvenendo soprattutto per responsabilità dei governatori meridionali che guardano solo al governo centrale – per trovare poi sostegno in uno Stato unitario che li sappia coinvolgere e raccordare.
A fare da collante di questa rinnovata intesa dovrebbe essere proprio quel patriottismo repubblicano promosso dal centocinquantenario del quale proprio in questi terribili giorni sembra però di cogliere alcuni segnali incoraggianti.