Ripensare l’unità d’Italia al tempo della pandemia
La storia, le riflessioni, la coscienza collettiva, la legge: tra ciò che resterà e ciò che invece andrà cambiato
Il 17 marzo, la data dell’unità d’Italia, è “la giornata più gloriosa della nostra storia nazionale”. Il giudizio è di Guido Pescosolido nell’intervento qui di seguito pubblicato. Nessuna espressione meglio di questa può introdurre il numero monografico del nostro magazine.
L’unità della nazione è oggi confermata al tempo del coronavirus. Lo spirito di sacrificio di medici, operatori sanitari, lavoratori della produzione di beni indispensabili e della loro distribuzione, la complessiva tenuta delle istituzioni anche in una condizione di Stato di eccezione, il generale accoglimento e l’osservanza da parte dei cittadini dei provvedimenti governativi, il loro senso e la responsabilità dell’appartenenza alla patria dimostrano che, oltre il secolo e mezzo di storia di una nazione giovane, “l’ordine durevole dell’Italia unita” – l’espressione è di Salvatore Lupo – permane ancora come un riferimento ineliminabile della nostra vita civile.
Sia i problemi del “qui ed ora”, per così dire, sia i problemi del “dopo” covid-19 sono tutti leggibili entro il rapporto fra il presente e il passato della nostra nazione. Le questioni di lunga durata, su cui riflettono anche i contributi qui presentati, sono essenzialmente tre: il rapporto fra Stato centrale ed istituzioni locali; la complessiva fragilità dell’economia italiana e i suoi squilibri interni, entrambi fattori destinati ad accentuarsi nel “dopo” coronavirus; il rischio della permanenza e dello sviluppo dei pregiudizi e dei luoghi comuni relativi alle modalità di unificazione della penisola.
La prima questione fu già ben presente all’attenzione, alla sensibilità delle classi dirigenti postunitarie, nelle discussioni anche accese su centralismo e autonomie. È andata vieppiù aggravandosi, tuttavia, nei decenni successivi, a partire soprattutto da alcune disposizioni della Carta costituzionale non unilineari al riguardo, dalla creazione delle regioni a statuto speciale, dall’istituzione del nuovo ordinamento regionale nel 1970. Ma il colpo più pesante al coordinamento fra poteri dello Stato e poteri locali è venuto dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che, condizionata dai rischi di secessionismo minacciati dalla Lega e dal progetto utopistico di imporre un federalismo dall’alto, ha attribuito alle regioni poteri e competenze come il governo della sanità pubblica, che dovevano invece restare allo Stato centrale.
In questi giorni i cittadini, pur dimostrando quel senso di appartenenza nazionale di cui si diceva, sono disorientati da una gestione dell’emergenza che oscilla tra la somma di decreti quasi quotidiani d’urgenza, promulgati dal governo centrale, e disposizioni differenziate e spesso contraddittorie, provenienti da regioni ed enti locali. Il dopo covid-19, alla luce dell’esperienza di questi giorni, dovrà necessariamente porre all’ordine del giorno la riforma della riforma del Titolo V e il ritorno di competenze, come quelle sulla sanità, allo Stato centrale.
La seconda questione. Il nostro Paese è riuscito a diventare la settima potenza economica mondiale grazie al contributo determinante fornito dalle risorse in uomini e mezzi del Mezzogiorno al processo di accumulazione originaria del capitale. Il boom economico tra la metà degli anni Cinquanta e la metà del decennio successivo si è potuto realizzare proprio perché il nostro Paese ha inaugurato una nuova fase del processo unitario di integrazione fra le aree più industrializzate del Nord e il contributo decisivo del Mezzogiorno. Il quale ha pagato, tuttavia, un prezzo elevato, paragonabile a quello pagato nella prima fase postunitaria, attraverso l’accentuazione di squilibri e divari territoriali. E il risarcimento del sacrificio da parte dello Stato ha solo parzialmente compensato lo straordinario contributo delle popolazioni meridionali. Il regionalismo differenziato le metterebbe definitivamente in ginocchio.
Ma – e vengo al terzo problema – la diagnosi di questo processo storico e le terapie proposte per la soluzione di una questione meridionale non certo obsoleta, anzi più che mai drammaticamente presente (sia pure in termini rinnovati rispetto a quelli classici) non possono essere identificate entro l’orizzonte di pregiudizi e luoghi comuni che rischiano solo di dividere il Paese, di disperdere quel patrimonio unitario faticosamente conquistato e strenuamente difeso in oltre un secolo e mezzo di storia. Non ci portano da nessuna parte né l’idea dell’Unità come “conquista del Nord”, dei perfidi Savoia che sono venuti a colonizzare il Sud, né la prospettiva neoborbonica del duosicilianismo, peraltro una reazione puramente difensiva e perdente rispetto al pregiudizio del Mezzogiorno come “palla al piede”, freno dello sviluppo nazionale.
Ripensiamo piuttosto a come rinsaldare il senso di appartenenza alla patria unitaria e la condivisione di un comune destino entro un orizzonte assai problematico, privo di una governance globale e ancora in larga misura affidato ai tanto vituperati Stati-nazione. Un orizzonte che sarà ancora più fosco nel tempo storico successivo al coronavirus.