Il Gattopardo e altri… animali
Come il cinema lesse l’unità d’Italia
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Non è solamente la celebre frase tratta da “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ma anche il modo in cui gran parte del cinema italiano ha letto negli anni la storia dell’unità d’Italia.
Dal punto di vista cinematografico, il film del 1963 tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non si limita a descrivere semplicemente la caduta dell’aristocrazia borbonica, ma esprime una scelta ben precisa nell’affrontare il Risorgimento con occhio distaccato e disincantato. Gli intrighi amorosi di Angelica, interpretata una indimenticata Claudia Cardinale, sono il fulcro di una narrazione cui lo sbarco garibaldino fa da sfondo e la vicenda personale della protagonista finisce per mettere in ombra l’importanza del un passaggio storico ritenuto transitorio e quasi effimero.
Questo approccio intimista alla trasposizione delle vicende storiche si ritrova in gran parte della produzione cinematografica legata all’unità d’Italia. Quasi una consuetudine giunta fino ad oggi, che nega le spinte celebrative ed i toni epici tipici dei cineasti americani.
Forse per trasmettere una certa disillusione e la profonda sfiducia degli intellettuali italiani, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti del potere politico, la filmografia relativa all’epopea patriottica ottocentesca diviene la cartina tornasole di un malcontento sociale serpeggiante per l’intero Novecento. Tanto che, ai principi di Salina, fanno eco gli Uzeda di Francalanza ritratti ne “I Viceré” di Roberto Faenza, film del 2007 tratto dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto. Un’altra storia di decadente nobiltà perduta nell’immobilismo sociale.
Un racconto fortemente politicizzato tanto quanto il “1860 I Mille di Garibaldi” di Alessandro Blasetti. Una produzione propagandistica del 1934, basata su un racconto di Guido Mazzucchi, in cui l’esaltazione storiografica fascista si perde quasi completamente a causa di un velato respiro preneorealista. L’effetto ottenuto da questa pellicola – come da quella di Faenza più di settant’anni dopo – è quello del distacco da parte della popolazione rispetto ad eventi slegati dalla percezione tanto della nobiltà quanto della popolazione rurale.
Come se l’unificazione nazionale avesse rappresentato un semplice momento di transizione politica senza mutare realmente gli equilibri del potere. Si tratta ovviamente di una rilettura spesso cinica di eventi legati a momenti storici diversi e lontani dalle spinte nazionalistiche di un Risorgimento tendenzialmente voluto e cercato da borghesi e intellettuali.
Proprio in questa direzione si muove anche “Senso”, sempre di Luchino Visconti, (assistenti alla regia furono gli allora esordienti Francesco Rosi e Franco Zeffirelli) che nel 1954 aveva già provato, con scarso successo, a dare una propria lettura dei tanti fallimenti dei primi moti rivoluzionari. Questo approccio decretò il boicottaggio e la censura del film tratto da una novella di Camillo Boito. La pellicola sulla storia d’amore tragica tra una nobildonna italiana ed un menzognero ufficiale austriaco avrebbe dovuto chiamarsi “Custoza”, come l’omonima battaglia, inserita in una lunga sequenza divenuta poi marginale dopo numerosi tagli operati a livello ministeriale.
Migliore fortuna, almeno dal punto di vista della censura, ebbe “Viva l’Italia!” di Roberto Rossellini. Uscita nel 1961, la pellicola venne prodotta e finanziata tra gli eventi legati ai cento anni dall’unità d’Italia, ma il taglio neorealistico ed il rigore storico della narrazione posero il film in netta contraddizione con la retorica risorgimentale ricercata all’epoca di produttori.
Vincitore nel 2010 di ben sette David di Donatello – tra cui quelli come miglior film e migliore sceneggiatura – “Noi credevamo” di Mario Martone è un film episodico carico di disillusione rispetto sogno nazionalistico Risorgimentale. Basato sul romanzo di Anna Banti, il film mostra la lotta e la delusione finale dei protagonisti, unitisi alla Giovine Italia mazziniana, dai primi moti unitari fino al momento del tradimento in cui l’esercito piemontese affrontò sull’Aspromonte le forze garibaldine votate alla conquista di Roma.
Trentacinque anni prima, nel 1974, era stato “Allosanfàn”, di Paolo e Vittorio Taviani, a mostrare la tragica futilità dei piccoli moti rivoluzionari autonomi diffusi lungo la penisola. Con un giovane Marcello Mastroianni e le musiche di Ennio Morricone, pur rappresentando un punto di vista profondamente critico rispetto alla materia risorgimentale, il film dei Taviani ebbe un discreto successo. Ben diverso è invece il revisionismo storico di “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”.
Pellicola del 1971 di Florestano Vanconi, ispirata alla novella di “Libertà” di Giovanni Verga, che porta sul grande schermo una visione profondamente negativa dell’unità d’Italia, legandola ai racconti sui cosiddetti fatti di Bronte e la violenta repressione dei moti post unitari.
Ben diverso è invece il tono di “Camicie Rosse (Anita Garibaldi)”. Un film del 1952 dalla gestazione complessa, che ha visto alternarsi alla regia Goffredo Alessandrini, Francesco Rosi e Luchino Visconti, su un soggetto ed una sceneggiatura di Enzo Biagi. Una vera e propria esaltazione di Anna Magnani, qui nel ruolo di Anita Garibaldi, la cui presenza scenica fagocita impietosamente sia la narrazione degli eventi storici che il resto del cast.
Proprio la Magnani e Mastroianni saranno la causa del successo di “Correva l’anno di grazia 1870”, film del 1972 di Alfredo Giannetti sull’Italia post unitaria, il cui lavoro finirà per perdere la propria forza contenutistica in favore del divismo legato ai due protagonisti. Sempre sulle conseguenze dell’unità nazionale, in particolare sul brigantaggio visto come una guerra tra gli abitanti del sud Italia e gli invasori piemontesi, verte “Il brigante di Tacca del lupo” di Pietro Germi, pellicola del 1952 ritenuta da molti critici simile per costruzione ad un western classico rivisto in chiave italiana.
Dai toni ben diversi è la commedia “Un garibaldino al convento” di Vittorio De Sica, che nel 1942 mostra già la perfezione tecnica che lo renderà uno dei grandi registi del Neorealismo. Toni leggeri sono anche quelli utilizzati da Roberto Rossellini in “Vanina Vanini”, pellicola del 1961 tratta da un racconto di Stendhal. Sempre sulla falsariga della commedia drammatica si muove “Le cinque giornate”, Dario Argento, film del 1973 con Adriano Celentano, che rappresenta l’unica produzione del regista non legata al genere horror o thriller. Un film crudo, che adopera toni tragicomici per raccontare la violenza insensata dei patrioti durante i primi moti rivoluzionari. Su queste stesse vicende storiche, sono state realizzate trasposizioni per il piccolo schermo: ”Le cinque giornate di Milano”, sceneggiato televisivo in 5 puntate diretto da Leandro Castellani nel 1979 e “Le cinque giornate di Milano”, diretto da Carlo Lizzani nel 2004, con la partecipazione di Giancarlo Giannini.
Altra produzione a cavallo tra cinema e televisione è “Piccolo mondo antico”: l’opera di Antonio Fogazzaro venne portata sul grande schermo nel 1941 da Mario Soldati e sul piccolo nel 1957 con lo sceneggiato in cinque puntate di Silverio Blasi con Giorgio Albertazzi. A questa prima riduzione seguono la versione di Salvatore Nocita del 1983 e nel 2001 la miniserie in due puntate “Un mondo d’amore: piccolo mondo antico” di Cinzia Th Torrini.
In conclusione, alla fine di questo rapido viaggio nel cinema legato all’epopea risorgimentale, va segnalato “L’eroe dei due mondi”. Film di Guido Manuli, che nel 1994 rappresenta la prima incursione dell’animazione italiana nella storia dell’unità nazionale, attraverso il racconto dell’avventurosa vita di Giuseppe Garibaldi.
Un discorso a parte, rispetto alla produzione cinematografica legata espressamente all’unità d’Italia, merita il regista Luigi Magni, la cui produzione artistica verte sulla narrazione delle radici storiche di Roma, intesa come città e come popolo. Questa narrazione cercata dall’autore lungo tutta la propria carriera, finisce necessariamente per incrociare ripetutamente gli eventi risorgimentali in una lunga serie di film.
Da “Nell’anno del Signore”, del 1969 (con Claudia Cardinale, Nino Manfredi, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi), proseguendo con la commedia musicale “La Tosca” del 1973 (con Gigi Proietti e Monica Vitti), “In nome del papa re”, del 1977 (nuovamente con Nino Manfredi), “Arrivano i bersaglieri” del 1980, ambientato il giorno della breccia di porta pia, “In nome del popolo sovrano” del 1990 (ancora con Alberto Sordi e Nino Manfredi), concludendosi nel 2000 con “La carbonara”.