La Liberazione e l’unità nazionale
O della necessità, oggi forse più che in passato, di un promemoria su cui puntellare il futuro
In questa fase di emergenza epidemica che sta attraversando l’Italia, e non solo, la riflessione sul passato e sulle prospettive della nostra nazione merita la giusta attenzione.
A distanza di 159 anni dalla nascita dello Stato liberale, L’identità di Clio offre un’opportuna occasione di discussione e di approfondimento. D’altronde, una rilettura del tema storico-politico dell’identità nazionale, vanificato dall’irrilevanza di una classe dirigente al cospetto di scenari globali inquieti, si rende oggi quanto mai necessaria.
In questa luce molteplici sono gli spunti emersi – dagli interventi inaugurali di De Francesco, Lupo, Pescosolido e dello stesso Aurelio Musi – che concernono sia il piano del rapporto generale tra vicenda storica ed attualità politica, sia il profilo della ridefinizione e dell’aggiornamento dei termini classici della questione meridionale, efficacemente enucleati nel contributo di Lupo; termini che continuano a rappresentare nodi irrisolti di un “problema aperto”(1).
In tale ottica il discorso dell’unità italiana e delle sue sorti progressive, per così dire, deve tornare ad assumere, al di là di stucchevoli richiami retorici, il rilievo politico, non solamente storiografico, che ad esso è mancato. Di qui occorre una decisa ripresa dello spirito del Risorgimento, sommamente incarnato non solo nell’operato decisivo di figure come Cavour e Garibaldi nel cruciale periodo del compimento del processo unitario, ma anche ed anzitutto nell’afflato patriottico di Mazzini, i cui ideali risultarono elemento basilare della sofferta ma vittoriosa costruzione nazionale.
Del pensiero e dell’azione del Risorgimento italiano si sono infatti dissolte le radici morali. Siamo invece costretti a fare oggi i conti con pericolosi ritorni nazionalisti e populisti di tutt’altra natura, che rappresentano anche il risultato ostile dell’ininterrotto susseguirsi (con l’atteggiamento passivo ed accondiscendente di taluni governi) di opzioni e misure miopi ed improprie varate negli ultimi anni da una Unione europea sicuramente non rappresentativa di equilibrati interessi comunitari. Del resto, i recentissimi fatti legati al problema degli interventi economici a sostegno della lotta contro la pandemia in corso sono lì a testimoniarlo.
Un’altra idea d’Europa è possibile ed auspicabile, quantunque non si riescano a scorgere soggetti capaci di immaginare orizzonti di rinascita. Un’altra Europa è per esempio esistita nello svolgimento intellettuale di padri nobili, che, memori di Ventotene, nel secondo dopoguerra riuscirono sapientemente ad immaginarla coesa, solidale e politica, quando una Germania divisa dalla guerra fredda fu bisognosa dell’aiuto di tutti.
Ecco, io penso allora che parlare di nazione italiana, dei suoi esordi rivoluzionari, della lunga durata del suo sviluppo morale e civile, proprio nel momento in cui si rinnova il ricordo ultra centenario dell’evento celebrativo che edificò lo Stato unitario, non possa prescindere da queste brevi note a margine dedicate ad una spinosa questione, qual è quella europea, la cui urgenza dovrebbe indurre tutti a riconsiderare l’insieme di principi, regole e comportamenti propri di un continente veramente unito.
De Francesco afferma, in un passaggio interessante del suo ragionamento, che una rinnovata forma di “patriottismo repubblicano” (nuova religione civile degli italiani?) dovrebbe far leva su di una più razionale e proficua sinergia tra Stato e “poteri regionali”.
Mi piace a tale riguardo storicamente rammentare che il contributo maggiore alla delineazione dello spazio geopolitico dello Stato italiano di metà Ottocento venne fornito dai regionalismi parlamentari di marca settentrionale, certamente più attrezzati e determinati. La loro alleanza – che mise definitivamente nell’angolo quelle mire ed aspettative delle temibili deputazioni meridionali che con Nicotera intendevano portare al centro degli interessi nazionali le indifferibili questioni del Mezzogiorno – avviò dopo il 1876 la vita di una istituzione accentrata e trasformista. E inventò la tradizione di un modello forgiato sul primato del centro, espressione idealtipica di quello che Galasso(2) efficacemente definì come un chiaro esempio di “democrazia latina”.
Non so, francamente, se nella matrice storica del ruolo egemone ricoperto da classi dirigenti di derivazione regionale (che nel bene e nel male molto servì a riempire di contenuti politici e sociali la giovane cornice unitaria) possano rinvenirsi nelle condizioni attuali le ragioni di un riequilibrio nazionale del tipo istituzionale e funzionale, teso al riconoscimento delle “piccole patrie” e del ruolo rivendicato dalle autonomie locali nei confronti del potere centrale.
Certo è che quando si è trattato di conferire agli enti territoriali una concreta possibilità di protagonismo amministrativo – come avvenuto nel 1999-2001 (riforma del Titolo V della Costituzione) con avventati provvedimenti che attribuivano alle regioni competenze strategiche in materia di gestione e controllo della sanità pubblica, allo scopo di neutralizzare la spinta eversiva della Lega, quale primo passo, nelle intenzioni, di una più compiuta trasformazione in senso federale della forma dello Stato – si sono evidenziati col tempo tutti i limiti di una simile operazione, come convenientemente ha rilevato Musi a proposito dei risvolti governativi e sanitari dell’epidemia di coronavirus.
L’Italia resta in ogni caso una nazione moderna. In situazioni di eccezione come l’attuale, di sospensione più o meno parziale della democrazia (il riferimento teorico è a Carl Schmitt), non la dimensione regionale bensì la suprema istituzione dello Stato ha il dovere di assumersi il superiore compito della decisione ed assicurare a tutti i cittadini un “comune destino politico”, come accadde – osserva giustamente Pescosolido – nell’Italia del 1859-61. Protagonisti assoluti risultarono quei patrioti avvertiti che seppero affermare i postulati di una compagine, dove – come sottolineò Rosario Romeo(3) – “l’etica della civiltà moderna” fu il momento rivelatore di un fondamento identitario di matrice italiana ed europea.
Ed oggi più che mai, nel ricordo del 17 marzo 1861, il valore pregnante dell’unità deve essere ripreso e rilanciato per tornare a costituire, rinnovato, la bussola di una ridestata coscienza collettiva.
Note:
1 G. Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Manduria-Roma, Lacaita, 2005.
2 G. Galasso, Stato nazionale e democrazia latina: il modello italiano, in P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, 1. Le interpretazioni, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp.327-400.
3 R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 533.
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