Epidemie di oggi e di ieri
Misure di distanziamento sociale, reazioni popolari, sentenze della magistratura
Nella pagina dedicata ai commenti, il quotidiano “La Repubblica” dello scorso giovedì 30 aprile pubblicava un intervento intitolato “Se non basta obbedire” in tema di responsabilità di fronte al virus.
L’autore era Gustavo Zagrebelski: giurista, docente di diritto costituzionale, giudice della Corte Costituzionale dal 1995 al 2004, e suo presidente nel 2004, nonché come è noto autore di numerosi libri e saggi. Nell’articolo, Zagrebelski rifletteva su un problema di scottante attualità e sempre più discusso anche nelle settimane successive, fino ad arrivare al momento della ripresa di una relativa “normalità” della vita sociale e economica: i decreti della presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm). Per il costituzionalista, i Dpcm “mescolano vere e proprie prescrizioni giuridiche, con annessa comminazione di sanzioni, a consigli ed esortazioni che, evidentemente, di giuridico hanno poco o nulla ma riguardano l’assunzione di condotte autonome e responsabili”.
Manifestano in tal modo una “confusione” sulla quale sarebbe bene distinguere: “una cosa è l’ubbidienza, altra cosa è la responsabilità. […] La prima cosa è giuridica, la seconda cosa è etica. I mezzi per promuovere l’ubbidienza non sono quelli per promuovere la responsabilità. Anche quest’ultima implica doveri, ma sono doveri autonomi che ciascuno impone a se stesso in nome della libertà propria e degli altri, in nome cioè della solidarietà. […] A ciascuno il suo: al governo le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e imporre), alla società nelle sue tante articolazioni, la promozione dell’etica della responsabilità”.
Certamente – continua Zagrebelski – dal momento che numerosissimi sono “i momenti e i luoghi dell’esistenza che offrono occasioni all’infezione” bisogna fare “attenzione a tutte le pieghe in cui il contagio può insinuarsi e riprodursi”. Ma non si può pensare – come credono certi giuristi – “che le abitudini di vita si possano cambiare a colpi di decreti: le abitudini si cambiano con altre abitudini, non soltanto con le leggi. In qualunque società libera, le leggi senza le abitudini soccombono o, comunque, durano poco. Prima o poi, la loro efficacia, senza la collaborazione dei cittadini, perde mordente e rischia di finire come le grida impotenti del tempo di un’altra epidemia, quattrocento anni fa”.
Al di là dell’evidente riferimento alle grida emanate in occasione della peste su cui Alessandro Manzoni scrisse pagine memorabili ne “I promessi sposi” – un’epidemia e un romanzo storico non a caso alquanto frequentemente evocati in questo periodo – le riflessioni del giudice e presidente della Corte Costituzionale sono tornate alla mente di chi scrive poco più di una settimana dopo, leggendo e vedendo via internet le notizie di attualità dell’emittente televisiva tedesca Südwestrundfunk (SWR Aktuell) relative al giorno 8 maggio.
Nel pomeriggio di quel sabato, a Stoccarda (capitale del Land Baden-Württemberg), una cinquantina di persone hanno dimostrato pacificamente contro le limitazioni a contatti personali, dopo avere preparato la manifestazione misurando la distanza di un metro e mezzo tra una persona e l’altra. Le limitazioni, secondo i dimostranti, incidevano negativamente sui diritti fondamentali. Inizialmente il Comune aveva proibito la manifestazione, ma l’organizzatore aveva fatto ricorso contro la delibera comunale alla Corte Costituzionale Tedesca (con sede a Kalsruhe, sempre nel Baden-Württemberg).
Che non solo aveva accolto la richiesta urgente, ma aveva anche deciso che con quella delibera il Comune viola il diritto fondamentale del ricorrente alla libertà di riunione. Preso atto della decisione della Corte Costituzionale, il Comune ha poi ritirato la delibera originale e consentito la manifestazione: purché nel rispetto della distanza di un metro e mezzo tra ogni partecipante e della distanza di due metri tra il complesso dei manifestanti e i passanti. La motivazione del ritiro della delibera originaria è stata la seguente: il diritto di riunione è un bene altrettanto fondamentale quanto la protezione della salute, e con questa seconda delibera il Comune li rispetta in base alle vigenti prescrizioni legislative.
Tornando ai mezzi di informazione italiani, il quotidiano “La Stampa” di martedì 12 maggio pubblicava nella sezione “Lettere & Idee” un intervento di Eugenia Tognotti, “La pandemia curata dai sociologi”. Tognotti, già professoressa ordinaria di Storia della medicina e delle scienze umane all’università di Sassari, sottolineava come nella guerra al coronavirus sia “cruciale l’apporto della scienza sociale e comportamentale per comprendere come agiscono e pensano gli esseri umani nel mondo reale e in diversi contesti sociali e culturali”. E forniva al riguardo l’esempio – anche questo frequentemente evocato di questi tempi – della Spagnola di un secolo fa. Bisogna qui ricordare che Tognotti è autrice di un libro in argomento pubblicato dall’editore Franco Angeli nel 2002, riedito nel 2015 e di prossimissima nuova uscita: “La Spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919).
Nell’articolo pubblicato sulla Stampa, l’autrice richiama l’attenzione sulla lezione che la Spagnola dell’Italia allora nella vera e propria guerra (la I mondiale) può offrire in relazione ad uno degli obblighi attuali (e pare ancora per non poco tempo futuri), la mascherina. Durante quell’epidemia “la mascherina era rifiutata e spregiamente chiamata museruola. Gli incalzanti appelli dei responsabili di sanità pubblica erano ignorati. Scrivendo su Science nel 1919, in un articolo intitolato proprio Le lezioni della pandemia, un ingegnere sanitario americano, George A. Soper, ammetteva che i tentativi di contenere il disastro sanitario erano falliti nella comunità.
E indicava i fattori che ostacolavano l’adesione della gente alle misure preventive: l’avversione a chiudersi in un rigido isolamento come mezzo per proteggere gli altri, contrariamente alla natura umana; il fatto che le persone agiscono, spesso inconsciamente, senza pensare di rappresentare un pericolo continuo per loro e per gli altri”.
Le riflessioni di Zagrebelski con annesso riferimento al romanzo di Manzoni; il rinvio di Tognotti all’esempio della Spagnola e – detto molto brevemente – all’inconscio dell’agire comunitario nel rifiutare misure volte a contenere l’espansione dell’epidemia; ciò che è successo a Stoccarda lo scorso 8 maggio. Tutto questo mi ha fatto venire alla mente una storia dell’8 maggio di 134 anni fa in cui – anche se diversamente, è ovvio – tutte le suggestioni offerte dalle riflessioni e osservazioni sul nostro presente forniscono (possono fornire) materiali alla ricerca storica.
L’epidemia allora in corso era il colera (su cui la stessa Tognotti ha pubblicato nel 2000, con Laterza, “Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia”). Il giorno 8 maggio del 1886 si era verificata (dirò presto dove) una reazione popolare “inconscia” a un decreto emanato a causa dell’epidemia di colera. Un tribunale aveva emanato poi, nel 1887, la sentenza sulle conseguenze tutt’altro che pacifiche di quella reazione popolare. A seguito della sentenza un giurista e avvocato aveva scritto un saggio stabilendo l’analogia tra le modalità della reazione popolare e la “comunicazione epidemica di idee e di sentimenti che si verifica nella folla”.
Nonché la riflessione che la maggiore capacità di descrizione di entrambe – reazione popolare e comunicazione nella folla – fosse offerta da romanzi come “Germinal” di Zola e “I promessi sposi” di Manzoni. Un altro giurista – avvocato e professore universitario – aveva scritto su fatto e diritto dell’evento un libretto intitolato “La folla delinquente”, prima ancora che il tema e il titolo stesso fossero oggetto della nuova scienza “psicologia collettiva” di Scipio Sighele prima e di Gustave Le Bon poi.
Tutte riflessioni tornate alla mente perché nel 2008 me ne ero occupata in un breve saggio: “Il giudice, gli avvocati e la folla. Il tumulto popolare per la festa di S. Michele a Gravina (1886) nella sentenza del Tribunale di Bari (1887)”, in “Acta Histriae”, 16, 2008, 4, pp. 561-576.
Ma che cosa era successo a Gravina il giorno 8 maggio 1886 come reazione popolare a una ordinanza di un sindaco per via del colera? Il fatto è narrato nella sentenza del tribunale di Bari del 17 febbraio 1887. E per quanti problemi di metodo, come sappiamo, possa sollevare questo tipo di narrazione, vi si può fare affidamento anche per mancanza (ancora, al momento) di altre narrazioni.
In sintesi, il problema e la progressione degli eventi a Gravina di Puglia, dove l’8 maggio si celebrava per consuetudine immemorabile la festa del patrono San Michele Arcangelo in un santuario privato, San Michele alle Grotte, oltre l’abitato della città. Dopo la funzione religiosa era tradizionale che quasi tutto il “basso popolo” (espressione della sentenza dl tribunale) si radunasse nel santuario mangiando e soprattutto bevendo molto (come “nella maggior parte delle università delle provincie nel mezzogiorno”).
Il sindaco di Gravina aveva permesso la celebrazione delle funzioni religiose, ma vietato – per via del colera – che la festa continuasse con le tradizionali “gozzoviglie”, per impedire le conseguenze che questo avrebbe potuto avere per “la pubblica igiene”. Di tali misure il sindaco aveva informato tanto i due deputati della festa quanto il proprietario del santuario, che nulla avevano obiettato “comunque dolenti per dover rinunziare ad un guadagno certo, sul quale facevano assegnamento”. Aveva poi ovviamente dato disposizioni corrispondenti ai carabinieri e alle guardie municipali, preposti all’ordine pubblico.
Il “popolino”, però, “dispiaciuto di un tal divieto, considerando non il movente, che consigliava il Sindaco a quelle provvidenze, sivvero il baratto che avrebbe dovuto fare, rinunziando alle ulteriori gozzoviglie ed agli stravizzi, ai quali erasi preparato, e che formavano per esso l’obiettivo della festa, cominciò a tumultuare. Ond’è che, gridando abbasso il Sindaco, vogliamo la festa abbattute le porte del Santuario, vi penetrarono, e diedero il segno dell’allarme, suonando a distesa le campane”.
Le campane richiamavano un ancora maggior numero di persone, e quando giunse al santuario la banda musicale, la “turba” la obbligò a seguirla mentre procedeva, ingrossandosi sempre di più, verso l’abitato di Gravina. Durante il percorso carabinieri e guardie municipali erano fatte oggetto di ingiurie e oltraggi verbali. Giunta in città la “turba […] inconscia forse degli atti propri”, gridava “irrefrenata” contro il sindaco “Abbasso” […] legittimando tali grida sediziose con quelle di “Viva il re, viva la Regina, vogliamo la festa”.
Da allora e da là in poi fu un susseguirsi di azioni “sdegnate” e “sfrenate”: contro l’ufficio delle guardie municipali, contro il circolo cittadino presso il quale si trovava il sindaco, con lancio di pietre che mandavano in frantumi “vetri, lumi ed altri oggetti ivi esistenti”. Inutili i tentativi di fermare la “folla tumultuante” da parte di due guardie municipali, che anzi ne riportarono ferite ed escoriazioni. La “moltitudine” sempre più “esaltata” si dirigeva si dirigeva prima contro l’ufficio del dazio di consumo, e poi verso la villa (i giardini) comunali scagliandovi sassi e rompendo alberi.
Crescendo costantemente procedeva quindi verso il palazzo del sindaco, scagliandovi pietre e gridando di nuovo abbasso il sindaco; in seguito verso il circolo industriale agricolo, dove continuava a scagliare pietre, prendendo all’interno la bandiera nazionale da un armadio, che poi serviva per rompere i lampioni delle strade. A nulla valsero i tentativi dei carabinieri di frenare l’impeto della folla. “Tempestosa e forsennata divenne quella moltitudine al grido alla Caserma, alla Caserma”, dove avvenne infine l’irreparabile. Il maresciallo dei carabinieri prima fece esplodere in aria, per avvertimento, colpi di rivoltella.
Poi, di fronte al tentativo di invasione della caserma, stretto “dalla necessità delle cose” ordinò di far fuoco sulla folla. Uno di coloro che furono feriti più gravemente morì sei giorni dopo. In seguito a questo la “turba […] intimidita” infine si disperse, dopo avere continuato ancora per un poco a rompere e devastare ciò che trovava sul suo percorso.
Fin qui gli avvenimenti del giorno della festa di San Michele. Nei giorni immediatamente successivi furono arrestati coloro che più evidentemente erano stati identificati come protagonisti delle azioni dei tumultuanti a danno di cose (circolo, municipio, caserma…) e persone (le due guardie municipali ferite).
Celebrato poi il processo a carico degli arrestati, il tribunale di Bari emanava nel febbraio del 1887 una sentenza che consapevolmente – considerata la natura del reato e le circostanze che lo avevano causato – assumeva “una tesi […] nuova, pure accennata da insigni penalisti”. Ecco la tesi: non era stato l’uomo ad aggredire, ma “l’ente collettivo, la folla che, divampando, insorge, invade, irrompe, trascende”. Come si poteva “pretendere la piena responsabilità del delitto consumato, quando la mente trovavasi annebbiata, viziata, e la coscienza perturbata e da mille passioni compulsata”? Il “delitto collettivo” doveva indubbiamente “essere raggiunto dalla pena, per riaffermarsi il diritto niegato”. Ma la giustizia esigeva che “gl’imputati, che in minima frazione, formante una parte di quella [turba]” erano chiamati a rispondere degli avvenimenti, avessero diritto a reclamare le scusanti.
Commentando la sentenza sulla “Rivista di giuresprudenza” in un numero dello stesso anno 1887, il direttore, l’avvocato Giuseppe Alberto Pugliese rilevava che nei “reati collettivi devesi innanzitutto studiare un curioso fenomeno. Al principio di una ribellione nessuno pensa a far male; tutti gridano abbasso il sindaco, ed abbasso il governo, come nelle dimostrazioni africane si è gridato abbasso Depretis. Ma il mutuo gridare, la compagnia, il contatto, il coraggio che viene dal sentirsi insieme scalda a poco a poco gli animi, ubbriaca moralmente, fa perdere la testa senza volerlo, senza saperlo; si va avanti perché si è portati, si fa quel che gli altri fanno; la coscienza individuale si smarrisce, il sentimento della individuale responsabilità si perde; ed è l’anima della folla che pensa e comanda, è il corpo della folla che ubbidisce ed esegue”.
La “verità”, poi, che uno “stato di ebbrezza morale, d’ipnotizzazione scambievole, di corrente materiale ed emozionale” potesse portare “cento mani” a essere “strumenti incoscienti”, Pugliese la trovava “scolpita” nella “stupenda descrizione della rivolta degli affamati” di Alessandro Manzoni e in chi descriveva “la vita delle miniere e dei suoi fenomeni criminosi”, come lo Zola di “Germinal”.
Nell’iniziare l’articolo, peraltro, Pugliese aveva segnalato come un “libro sul reato collettivo, sul reato della folla, della massa” non fosse ancora stato scritto. Auspicava, quindi, che “chi avesse tempo e polso adatto al grave tema sociale si affettasse a farlo”. La sollecitazione di Pugliese veniva consapevolmente raccolta, nello stesso anno 1887, da un giovane avvocato di Trani, collaboratore della rivista, Cesare Ricco. Allievo di Pessina a Napoli negli anni degli studi universitari, autore di numerosi contributi agli studi filosofici e giuridici, Ricco era noto e apprezzato nell’ambiente forense e in quello della scienza giuridica. Oltre che su Gravina, sulla ben più grave rivolta di Conversano Ricco scriveva un breve saggio intitolato “La folla delinquente” (Trani, Vecchi editore, 1887), riprendendo e facendo proprie, con ulteriori riflessioni, le posizioni del tribunale di Bari e dell’avvocato Pugliese, arricchendole in base a profonde letture letterarie, filosofiche, giuridiche.
Solo quattro anni dopo, nel 1891 usciva la prima edizione italiana de “La folla delinquente” di Scipio Sighele, saggio di “psicologia collettiva”. La sentenza del tribunale di Trani, l’articolo di Pugliese con annesse citazioni da Manzoni e da Zola erano parte costitutiva di quella che rivendicava come sua nuova teoria positivista in tema di reati commessi dalla folla. Una teoria che non doveva chiedersi “se gli autori di un reato commesso nell’impeto di una folla sieno responsabili o semi-responsabili, formule vecchie di concetti errati; noi dobbiamo chiederci soltanto qual sia la forma speciale e adatta di reazione che a loro deve spettare”.
Ignorava del tutto, peraltro, il lavoro di Ricco su “La folla delinquente”. Mancata conoscenza, oppure plagio (quello stesso di cui lui avrebbe ripetutamente accusato Le Bon)? Non si può sapere. Certo è che il positivismo di Sighele e la sua nuova psicologia collettiva lo portavano a giudicare e a condannare di fatto la folla, e non a comprenderla come avevano fatto il giudice (il tribunale di Bari) e i giuristi (Pugliese e Ricco). Che cosa avrebbe scritto Marc Bloch, difendendo la storia (Clio) a proposito di giudicare e comprendere?
Breve nota bibliografica: ricordo qui che i riferimenti puntuali alla sentenza del tribunale di Bari, ai lavori di Pugliese e Ricco sono nel mio saggio sopra citato Il giudice, gli avvocati e la folla. Il tumulto popolare per la festa di S. Michele a Gravina (1886) nella sentenza del Tribunale di Bari (1887). E che in tema, in senso più ampio, rimane fondamentale e tuttora insuperato, a mio parere, il ricchissimo libro di Damiano Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2002.