A proposito di scienza e divulgazione storica: un dibattito su fb
Chi segue questo blog sa che, fin dalla nascita, i suoi responsabili e collaboratori hanno centrato la loro attenzione sui problemi e i metodi della ricerca storica, sull’identità di Clio, per riprendere l’espressione che dà il titolo al blog, sulla crisi della ragione storica nel mondo contemporaneo, sul suo rapporto con la fiction e i social media e su altre questioni analoghe.
Un mio recente intervento su Facebook ha dato luogo ad uno stimolante gioco di azioni e reazioni di estremo interesse che in questa sede voglio brevemente riprendere.
“Ne Il tempo ritrovato, l’ultimo volume della Recherche, Marcel Proust scrive in sostanza che l’arte è la capacità di trasformare le impressioni in espressioni. Certo la storia è cosa diversa dall’arte. Ma questa idea di Proust vale anche per la storia. Forse noi storici abbiamo smarrito la capacità di trasformare le impressioni, mediate dalle fonti, in espressioni capaci di suscitare emozioni nei lettori e nel pubblico. E’ soprattutto per questo che le fiction, anche quelle più scadenti, a vario titolo ispirate a fatti e personaggi storici, facendo leva sulla sfera emozionale del pubblico, hanno presa straordinaria su di esso”. Fin qui il mio primo input che così si concludeva:
“Storici, emozionatevi e emozionate di più!”.
Ne è seguita una discussione a cui hanno partecipato diverse decine di donne e uomini. Qualcuno ha denunciato, sic et simpliciter, che “alla gente riesce difficile ragionare”, “serve il fatterello soprattutto se condito di sensazionalismo. Non si spiegherebbe il successo di Scurati”. Altri suggerisce di “tornare a Croce, la sua scrittura è anche letteratura”. C’è chi ricorda che “i libri dei grandi storici si leggono come romanzi di avventura”, chi se la prende con gli accademici che infarciscono di note i loro scritti, chi mi rampogna perché i lettori di storia “non vanno emozionati, vanno resi consapevoli” e “non confondiamo lo storico con il romanziere”.
La critica radicale alla mia sollecitazione è venuta da un medievista illustre, Bruno Figliuolo, uno dei migliori allievi di Mario Del Treppo. Egli ha scritto: “Caro Aurelio, quelli di cui parli sono gli storici che raccontano, e ne è pieno il panorama intorno a noi. I loro racconti, facili, durano l’espace d’un matin, anche quando siano ricchi di pathos. Poi ci sono gli storici di mestiere, che dovrebbero far progredire la conoscenza attraverso la dimostrazione, che è una cosa diversa: più complicata e meno gratificante ma è la sola strada attraverso la quale si perviene a incrementare le nostre conoscenze sul passato. E se questo lavoro non lo fa chi è stato formato filologicamente, chi altri lo può fare? Io quelli che prendono le scorciatoie narrative li vedo quasi come dei disertori”. E io così replico: “Caro Bruno Figliuolo, ti stimo tantissimo, sei uno storico di valore, ma questa volta sono in totale disaccordo con te.
La grande tradizione storiografica è ricca di esempi capaci di coniugare serietà scientifica e arte narrativa. Tu hai una visione dicotomica che non aiuta, anzi è destinata a marginalizzare sempre di più la conoscenza storica. Se non siamo capaci di esprimerla, oltre che portarla a livelli alti di ricerca, possiamo anche cambiare mestiere”.
Sono stato alquanto radicale, drastico, forse estremista: ma la sortita è stata utile dal punto di vista dialettico. E gli esempi, riportati in alcuni interventi (Huizinga, Bloch, Syme, Vernant, Michelet, Hosbawm, ecc.) hanno avvalorato la possibilità di coniugare rigore scientifico e capacità di avvincere il lettore. Figliuolo precisa: “Caro Aurelio, la stima è reciproca e credo ci sia anzitutto un fraintendimento da chiarire. Il tuo discorso si basa su due assunti: esprimerla, (la conoscenza storica, che dunque precede: per esprimerla devi averla) e necessità di coniugare ricerca e narrazione. E io li condivido entrambi quando siano in equilibrio. Ho però visto sparire dai radar la medievistica anglosassone in vent’anni e precipitare quella italiana dal podio ai bassifondi in dieci. E questo perché sono diventate tutta narrazione e niente ricerca. E narrazione intesa come riassunto di libri altrui condita da qualche ideuzza sparsa. E così questa immondizia si moltiplica e inutile carta produce ancora più inutile carta (Sraffa). E bada bene che non penso a Barbero, che non ha mai confuso i due piani e non ha mai fatto politica universitaria”. Si tratta di uno schiaffo pesante alla medievistica attuale e non è male la citazione ironica del titolo della celebre opera di Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci.
Mi è sembrato particolarmente illuminante l’intervento di uno scienziato, Francesco Lelj, ex rettore dell’Università della Basilicata, che ha scritto: “Devo dire che anche in ambito scientifico, e in particolare poi nella divulgazione scientifica, una scrittura emozionante fa leggere il saggio o l’articolo scientifico con maggiore attenzione e diletto del lettore. In questo, ad esempio, George Gamow o Richard Feynman erano maestri”. E Alberto Abruzzese ha trovato “strana l’idea che le emozioni non possano riguardare la consapevolezza…”.
E i divulgatori come la pensano? Sentiamo uno di loro, Alessandro Vanoli: “Non so se ho titolo di parlare in questo contesto, perché immagino che da non accademico e da divulgatore io rappresenti, per alcuni dei partecipanti al dibattito, una sottocategoria. Mi limito ad apprezzare l’appello e il giusto richiamo all’emozione, che, come ha notato qualcuno, può andare anche nella nobile direzione di una storiografia che comincia da Huizinga e arriva (scombinando un po’ i piani) sino a Natalie Zemon Davis. Ma è chiaro che la questione per molti irritante è un’altra:
quella della divulgazione. Credo che negli ultimi anni ci sia stata un po’ di confusione di piani generata dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla perdita di autorevolezza sociale (diciamo così) della disciplina e da nuove logiche di mercato. Ma credo altrettanto che si possano e si debbano mantenere i confini. Chi fa ricerca nel modo più rigoroso non dovrebbe essere chiamato a usare toni necessariamente più accattivanti (quella scrittura non è letteratura, ma comunicazione scientifica). Ma chi volesse, tra gli storici, sforzarsi di più nella comunicazione dovrebbe poter essere supportato senza quello stigma antico ( e tutto accademico) della divulgazione come resa impoverita del vero sapere. Potrebbero magari scoprire che, oltre al piacere di aprire un dialogo con un pubblico più vasto, questa operazione è pure capace al meglio di offrire punti di vista non privi di valore sul piano epistemologico (lo notava, tra gli altri, in quegli anni, proprio la sopracitata Natalie Zemon Davis, non io”.
Al centro di questa discussione è stata dunque la divulgazione storica. Un antichista attento anche a tale profilo, Giusto Traina, ha osservato: “Capisco i colleghi che si sentono snobbati dagli storici di largo respiro, ma è inammissibile questo modo di mettere nello stesso calderone i divulgatori a buon mercato, i divulgatori intelligenti, gli apripista che pensano e gli studiosi che non fanno a botte con la loro lingua madre.
Perché impiegare un po’ di tempo a riscrivere fa parte del mestiere”.
A mia volta, dico che dobbiamo evitare di usare l’attributo di “disertori” che è termine assai infelice. Per fortuna noi storici – e applico questa qualifica a tutti coloro che praticano conoscenza storica, anche ai buoni divulgatori – non abbiamo fatto nessun giuramento alla “patria” disciplinare. E spero che nessun giudice possa condannare qualcuno come traditore, disertore.
Per concludere con un quesito, per ora, aspettando altri contributi alla discussione.
“Impressione”, come recita il Treccani, è l’atto del lasciare tracce e l’esperienza derivante da uno stimolo esterno che colpisce la coscienza. “Espressione” è invece l’atto del comunicare ad altri quanto si sente e si pensa. L’atto si compie con la parola, la scrittura, il segno: la loro qualità contribuisce all’efficacia dell’ “espressione”. Può lo storico fare a meno della sintesi, della simbiosi meglio, tra il primo e il secondo atto?