Amari e la rivoluzione del 1848: Il miracolo del nuovo Vespro non s’è compiuto
Posted On 16 Febbraio 2017
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In attesa della rivoluzione. La pubblicazione dell’inedito Saggio storico e politico di Niccolò Palmeri – scritto nel 1821 – contribuisce ad accrescere la tensione che monta a Palermo prima del 12 gennaio 1848, specie l’Introduzione che sotto forma di polemico pamphlet segretamente gira per la città. Dietro l’anonimo editore si cela Michele Amari, che continua a raccogliere testi sulla Sicilia araba ritrovati a Parigi, Londra, Leida, Oxford e Cambridge, ma al contempo conosce l’insofferenza di un intellettuale-politico verso i tempi lunghi dei mutamenti storici.
Il libro di Palmeri vuole dimostrare le facoltà legislative del parlamento siciliano e la continuità fra vecchia e nuova costituzione, proietta nel passato le ragioni politiche del presente. Amari dichiara che intende “far conoscere al mondo di quali luminosissimi dritti i siciliani sono stati spogliati”, e con la sua pubblicazione compie un atto politico che di nuovo con un libro accelera gli avvenimenti: siamo nel Risorgimento, i libri sono battaglie. Guerrazzi ammette con Mazzini di avere scritto L’assedio di Firenze “non potendo fare una battaglia”; Michele Amari, divenuto il simbolico rappresentante degli esuli perseguitati dal Borbone, ripulisce il linguaggio del vecchio mondo baronale. Lo legittima. I baroni responsabili di tanti mali si identificano ancora e sempre nella Nazione che difende le antiche libertà: ogni logico ragionamento viene sacrificato sull’altare dell’opposizione a Napoli, colpevole di avere reso provincia la Sicilia.
Amari ammette che le desolanti condizioni della patria non si possono imputare a Napoli. Tanto più che, “forse per espiare”, il governo ha incoraggiato la prosperità del Regno: ha favorito l’agricoltura e disegnato una rete stradale, censito i beni ecclesiastici, cercato di “sgombrare i masnadieri”. Pare che rifiuto verso i Borbone sia cresciuto mentre si succedevano le riforme ma si tratta di un’opposizione dai numeri esigui, coincidente con il “partito siciliano”: nell’Introduzione si legge che, durante gli anni costituzionali, “il popolo minuto, a dir vero, non s’era svegliato; il ceto medio gridava alla francese, i nobili minacciavano all’inglese”. Gli oppositori fanno però parte della “misera compagnia dei letterati del paese”, sono in grado di condizionare il discorso che si continua a fare sulla Sicilia di allora.
Restano così nell’ombra i democratici catanesi allievi di Agostino De Cosmi: sono stati esuli in Francia o in Italia e in Egitto al seguito delle truppe napoleoniche, delusi dall’impero sono tornati in patria dopo l’indulto concesso da Ferdinando nel 1807. Sono reduci divenuti moderati ma a Palermo fanno paura: Vincenzo Gagliani, che ne riassume le posizioni, appoggia la politica antifeudale del governo e denuncia il particolarismo oppressivo dei baroni mostrando la fatuità delle ragioni autonomiste. Palmeri ha parole di fuoco contro Gagliani; Amari ne adotta la condanna, e molto contribuisce a formare un giudizio storico centrato sulla capitale e i suoi baroni.
La patria in azione. Nella città dove “non v’è ciabattino che non conosca i suoi diritti e non senta la violenza d’esserne stato spogliato”, l’introduzione a Palmeri accende gli animi. Il marchese di Torrearsa definisce “sacro deposito” le centinaia di copie custodite nella sua casa, che “d’un subito si sparsero”. Dal canto suo Palmeri si rivela un precursore della teoria amariana, scrive che il popolo ha rivendicato il suo diritto con la guerra del Vespro: con un salto di secoli tornano dal passato i siciliani, ritrovano la propria identità e muovono verso la rivoluzione.
La sommossa che dà il via all’anno rivoluzionario per eccellenza viene annunciata da un proclama per le vie di Palermo, “All’armi figli di Sicilia: la forza di tutti è onnipossente…”. Il modello retorico è di stampo amariano: un popolo inerme insorge contro l’oppressore e conquista la libertà. Modello intrigante finché resta una suggestione letteraria, ma a Palermo nessuno sa che fare e alla fine si adotta l’idea del principe di Butera, di chiedere la costituzione del 1812 “adattata ai tempi”.
Ancora da Parigi, il 3 febbraio Amari invia una lettera “agli amici siciliani” pubblicata sul palermitano «Il cittadino» il 15 del mese, dove racconta come le lodi per l’avvenuta insurrezione comincino a lasciare il posto alle perplessità. Deciso a rivendicare le ragioni palermitane, lo storico stampa a sue spese l’opuscolo Queques observations sur le droit public de la Sicile e tenta di conquistare Gioberti alla causa siciliana, ma il teorico del federalismo gli risponde freddamente. Si rischia di compromettere la causa italiana, la Nazione siciliana trae la sua legittimità dal passato e rimane estranea all’idea romantica di Nazione coincidente con la scelta di un destino comune proiettato nel futuro. Su «L’indipendenza e la Lega» Michele Amari scrive “alla Sicilia convengono quei rapporti che ormai solo possono stabilirsi fra gli Stati italiani” e parte per Palermo dove arriva il 1° marzo.
Nell’idealizzata Nazione l’illustre esule non avrebbe avuto il censo necessario a esercitare il diritto di voto, e ignora ogni cosa sulla gestione finanziaria di uno Stato. Ma l’amicizia con Mariano Stabile e l’essere “benemerito della patria” gli valgono la nomina a ministro delle Finanze. È subito costretto a fare i conti col patrimonio statale quasi inesistente mentre la rivoluzione esige somme enormi.
Il mito e la realtà. Si spera nell’aiuto inglese contro il Borbone e, per timore che re Ferdinando possa chiedere alla Lega italiana di riconoscerlo re delle Due Sicilie, lo si dichiara decaduto assieme alla sua dinastia: Amari è fra quanti preparano il decreto decadenza, chiede che in casi così straordinari anche i ministri possano votare. Il 13 aprile il decreto è approvato fra continue manifestazioni di esultanza.
Presto diventa evidente che la rivoluzione si avvita su se stessa. È perfetta per un gesto simbolico, per proclamare la libertà contro il tiranno: ma col furore delle dichiarazioni non si materializzano gli eserciti né migliorano le finanze. Michele Amari detta il manifesto che chiama il popolo alle armi ma è meno a suo agio nel ruolo di ministro. Al barone Friddani rimasto a Parigi scrive che il suo compito gli sembra “remo pesantissimo e supplizio orrendo”, le giornate sono piene di “dettagli aridi e ignobili”, è sopraffatto da richieste che non può soddisfare. Il 31 agosto lo storico lascia la carica per unirsi agli agenti del Governo siciliano che, lontano da Palermo, cercano l’aiuto delle potenze europee.
Intanto la rivoluzione ha dissolto l’autorità del governo senza proporre un nuovo ordine, presto la pubblica sicurezza diventa il più grave dei problemi. Ma, come se scorressero su due piani paralleli e distanti, i proclami della patria realizzata niente hanno da spartire con le sue miserie. In un crescendo di entusiasmo viene proclamato re di Sicilia Alberto Amedeo di Savoia; il 31 agosto il marchese di Torrearsa comunica che la guerra si avvicina, la spedizione allestita a Napoli contro la Sicilia sta per muoversi e l’annuncio viene accolto con gioia. Il 3 settembre Giuseppe la Farina dichiara “la nostra gloria è cominciata!”: è ministro della Guerra, le sue posizioni sono alquanto originali. Anche lui amariano, poteva scrivere “la guerra dei popoli è guerra spontanea, al di fuori di ogni combinazione e di ogni calcolo”. Commenta Piero Pieri che il sentimento della libertà e le innate qualità militari dovevano compensare ogni deficiente addestramento e la mancanza di disciplina e di quadri.
La prima a cadere è Catania, il 7 aprile 1849. Poi è tutta una corsa a dissociarsi: i borbonici avanzano senza combattere, le deputazioni cittadine si affrettano a offrire sottomissione e chiedere perdono.
Di nuovo a Parigi. Michele Amari torna a Palermo il 16 aprile, continua a sostenere che bisogna resistere anche se Francia e Inghilterra non progettano di inviare aiuti. La situazione è disperata, nelle parole di Mortillaro a volere la guerra è un pugno di fanatici che “nell’atto che son pronti ed apparecchiati alla fuga gridano guerra sulla patria desolata”. Presto accade quanto con facile previsione Mortillaro aveva anticipato, tra il 22 e il 26 aprile gran parte dei capi della rivoluzione abbandona l’isola. Assieme al principe di Scordia, al marchese Torrearsa e Mariano Stabile, Michele Amari lascia la Sicilia sulla fregata inglese Odin: fuga affrettata ma non precipitosa, il giorno prima è andato “a levare un’impronta della iscrizione araba della Cuba di Palermo”, la pubblicherà a Parigi nel 1851.
Nella città abbandonata dai capi della rivoluzione la plebe è padrona: non è più lo scrigno di ogni potenziale virtù ma vuole combattere, cerca un capo, si prepara a resistere anche se la Deputazione ha presentato un atto di resa. Il 7 maggio Palermo è in stato d’assedio. Al contempo viene saccheggiata dalle squadre degli insorti, che si placano solo dopo la promessa di una totale amnistia.
Una volta a Parigi, Amari è lacerato dai rimorsi. Il 14 maggio legge sui giornali che la plebe palermitana era insorta senza capi e scrive a Mariano Stabile: “siamo disertori! Disertori della causa da noi medesimi promossa… questa parola disertore mi suona come la tromba del giudizio agli orecchi di un credente”. Lo stesso giorno comincia un diario intitolato Il mio terzo esilio, dove le forze della rivoluzione sono “un pugno di noi e caterve di galeotti e gente che meritava di stare in galera”. Il miracolo del nuovo Vespro non s’è compiuto.
In Sicilia vengono evitati i processi, si lascia espatriare chiunque voglia andar via: da molti anni il Regno produce esuli in grande abbondanza, a migliaia vanno in Piemonte o in Toscana, ma la città da tutti sognata è Parigi. Più che luogo d’esilio Parigi è terra promessa. Dove pensare alla gloria di Sicilia è più intrigante e coinvolgente che non complottare vivendo in un’isola povera, senza industrie, senza strade. Da lontano la Sicilia riconquista tutto il suo alone mitico ed è più bello soffrire per la sua libertà.