Quel cieco che vedeva
Da schiavista a predicatore e attivista per i diritti dei neri. A John Newton è sopravvissuta più di ogni cosa la sua “Amazing grace”, inno alla vita da uomo libero
La verità è che queste due parole – Amazing grace – sono impossibili da tradurre. O meglio: tradurle è possibilissimo, e in italiano suonano come “grazia straordinaria”.
Un grosso pezzo di senso però, come accade per ogni traduzione, viene meno. Perché quest’opera del Settecento inglese – uno degli inni sacri ancora oggi più diffusi, su cui si sono esercitate fior di voci – è un lavoro dell’anima, un inno alla libertà. Basta fare scorrere dalla bocca al cuore queste due parole, e i suoni che evocano, per accorgersi che contengono un mondo intero.
A scriverla fu il pastore anglicano John Newton nel periodo in cui era approdato a una vita in cui probabilmente aveva imparato ad amare, mettendosi nei panni delle persone che, una volta, trasportava come schiavi. Non dev’essere stata un’esistenza facile, la sua. Orfano di madre a 6 anni si imbarcò a soli 11 anni, insieme al padre, per affrontare una vita di mare rude e priva di tenerezze. Fece carriera: e a diciott’anni aveva già la sua posizione come proprietario di schiavi e di una piantagione di Jamaica. Ma, ancora una volta, il richiamo del mare fu più forte: prima a servizio di un mercante non autorizzato, poi continuando a espandersi da solo, sempre in questo macabro traffico di schiavi.
Le riflessioni di John Newton non sono lineari. La sua è una coscienza che matura nel tempo, andando avanti e tornando indietro. E se all’inizio abbraccia un provocatorio ateismo, attinge alla preghiera nei momenti di difficoltà o di malattia. Prega anche perché il Signore lo metta in una via diversa da quella del commercio di uomini, ma continua a guadagnarsi da vivere in questo modo.
Fu l’avvicinamento alla spiritualità, la malattia o il disgusto per quella vita a invertire la rotta del negriero?
Accade. E con occhi finalmente nuovi John Newton riesce a vedere, vedere per la prima volta davvero, forse, i ceppi, le catene, le torture. Gli uomini ammassati uno sull’altro “come libri su uno scaffale”, e spesso trovati morti, in un mucchio ripugnante. E le sferzate, e i serrapollici per sedare le frequenti rivolte. Vede la laidezza, John Newton, e se ne sente responsabile. L’ex schiavista diventa prete anglicano nella comunità di Olney nel Buckinghamshire.
Da questa esperienza nasce l’innario di Onley, scritto insieme al poeta Newton e Cowper. La prima edizione, pubblicata nel 1779, che oggi chiameremmo un successo discografico, conteneva 68 cantici scritti da Cowper e 280 da John Newton.
Sembra che Amazing Grace venne pensata e composta per uno di questi incontri di preghiera. Ritrovata la libertà di amare, Newton componeva, scriveva. E soprattutto testimoniava quella tratta di cui per tutta una vita era stato complice.
Nel 1780 lasciò Onley per stabilirsi a Londra dove divenne rettore. Il suo “Pensieri sul commercio degli schiavi africani” ebbe una vastissima eco, e soprattutto influenzò quel William Wilberforce che avrebbe guidato la campagna per l’abolizione della schiavitù.
Una strofa di Amazing Grace recita: I once was lost, but now am found. Was blind but now I see.
La notizia dell’abolizione del commercio e del trasporto degli schiavi in territorio inglese arrivò nel 1807, quando Newton era cieco e prossimo alla morte.
Eppure, finalmente, in quegli ultimi giorni sulla Terra, John ci vedeva benissimo.