Essere Viventi. Cura dell’anima e diritto dei corpi nel XXI secolo
Come interpretare l’espressione che dà il titolo al nostro ciclo di incontri1? Che cosa può significare oggi “cura dell’anima”? Qual è l’oggetto della cura? Cosa è quest’anima che si cura? Perché solo capendo cos’è l’anima possiamo sapere che cosa significa curarla o averne cura.
A un primo sguardo, anche storico, la parola “anima” sembra anzitutto un oggetto di confusione. Le tante storie sul concetto di anima dicono infatti tutte assieme o una dopo l’altra parole come animo, anima, io, spirito, mente, psiche, coscienza, soggettività, interiorità, personalità, Sè2. Tanto che a un certo punto può sorgere il dubbio che l’espressione “cura dell’anima” significhi qualcosa come “cura del raffreddore o del mal di testa”, ossia cura di una malattia: in particolare la malattia-confusione generata dall’uso della parola “anima”.
Questa confusione si ripresenta continuamente. Tanto che a un certo punto possiamo pensare che essa sia qualcosa di ineliminabile perché in realtà l’anima non è in se stessa nulla di definito, non significa niente ma, come dice Aristotele, “è in qualche modo tutte le cose”3. Nel senso che non significa niente di per sé ma è come se fosse una metafora totale, un termine atto a significare ogni volta sempre qualcos’altro. In questo modo ci spiegheremmo anche perché il suo uso appare così prezioso nell’arte, in poesia, in musica, in letteratura, nei discorsi degli innamorati e persino nella religione. E per conoscere la sua natura ci basterebbe rivolgerci ai poeti, ai mistici, agli scrittori di canzoni più o meno riuscite. Così che “cura dell’anima” vorrebbe dire, né più ne meno, che “cura del linguaggio”.
Pensate a quello che succede ad esempio in frasi del tipo:
Spesso ci sono più cose naufragate in fondo a un’anima che in fondo al mare.
(Victor Hugo)
L’anima non conosce né nascita, né morte, né principio, né fine; il peccato non la può toccare, né la virtù esaltare; essa è sempre stata, e sempre sarà; e tutto il resto è un involucro, come un globo intorno alla fiamma.
(Hazrat Inayat Khan, mistico indiano di fine ottocento)
Nel vero amore, è l’anima che abbraccia il corpo.
(Friedrich Nietzsche)
Tu sei una piccola anima che porta in giro un cadavere.
(Epitteto)
La felicità è qualcosa che solo l’anima può percepire, non l’intelligenza, né lo stomaco, né la testa o il portafoglio.
(Herman Hesse)
Il corpo è un regalo, l’anima una conquista.
(Giulio Mogol)
Oppure alla poesia-mantra di Nelson Mandela in carcere, Invictus di William Henley:
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per la mia anima invincibile.
[…]
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
In tutti questi esempi, accanto a un senso generale di anima come fondo interiore incrollabile, sede di tutte le potenzialità più alte dell’uomo, si accompagna una componente decisiva. E cioè che questa sua natura nobile l’anima non la condivida interamente con il corpo, anzi spesso la ricavi in qualche modo in opposizione ad esso. In tutti questi usi del linguaggio in cui l’anima è protagonista la sua nobiltà sembra ricavata da una attenzione non paragonabile data al corpo, spesso anzi espressamente qualificato come suo contraltare negativo. Il che conduce ad un’idea di anima come di ciò che resta quando togliamo tutti i processi corporei; quanto di quello che facciamo non può essere spiegato in base alla sola disposizione o funzione degli organi del corpo. O anche la “libertà” dai condizionamenti corporei che possiamo subire4.
Questa definizione, su cui magari molti saranno d’accordo, e che in musica o in poesia pare funzionare perfettamente, quando la trasportiamo in filosofia ha qualche problema. Provate infatti a chiedere ai filosofi che sostengono che esiste l’anima come ciò che non si riduce al corpo, ciò che conquista la propria specificità e grandezza in opposizione al corpo, che non è corpo, quanto costoro realmente conoscano il corpo. Ripiegando sulla definizione di anima come ciò che non è corpo stiamo infatti ragionando in negativo. Ossia la nostra definizione di anima ha senso solo se ciò contro cui la definiamo è sufficientemente chiaro. Per cui se crediamo che esista l’anima come “ciò che non si riduce al corpo” e non abbiamo idea di cosa sia il corpo non andiamo lontano neppure con la nostra stessa definizione.
È il legame tra queste due nozioni, quindi, la prima cosa che dobbiamo indagare per potere dare ancora senso, almeno in filosofia, a questa definizione.
E allora ricominciamo dall’inizio.
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Il legame tra anima e corpo come termini correlati, cioè come parole che prendono significato l’uno in relazione all’altra, è storicamente molto complicato. Se analizziamo, limitandoci alla sapienza antica, le nozioni connesse alla formazione di quel principio destinato a diventare “anima” scopriamo, in moltissime tradizioni, una struttura per cui a un certo punto ad un fenomeno od organo corporeo viene attribuito un senso eccezionale. È il caso per esempio dell’atman (soffio) indiano, del neshamah (soffio), del nephes (respiro) e del ruach (soffio vitale) ebraici, dello pneuma (soffio) e dell’anemos (vento) dei greci così come dei rispettivi termini latini spiritus, animus [parte superiore razionale localizzata nel petto, Lucrezio] o anima [parte irrazionale della vita diffusa in tutto il corpo, sempre Lucrezio]. Ma pensiamo anche al ruolo dato al cuore o ai polmoni come organi materiali che contengono il principio di autoriflessione dell’individuo e in molti casi anche la sua radice vivificante.
La stessa cosa accade se guardiamo alla nascita della nozione di psyche, termine dal doppio significato di principio immanente della vita individuale ma anche di componente separabile e libera che però, una volta scissa dalla parte corporea, diventa una quasi-realtà che si aggira nell’ade solo in parvenza di individuo concreto. Un fantasma (eidolon) un’ombra (skia) lasciata sulla roccia dai fumi dell’inferno. O se guardiamo all’accostamento che si può tracciare a partire da Eraclito tra la psyche, il logos e il fuoco, come principio materiale ma leggero, rarefatto, inafferrabile. Brace che arde dentro di noi e riscalda l’aria intorno al nostro cuore espandendola nei polmoni e generando il vento che ci mette in movimento. E che quando moriamo e diventiamo freddi semplicemente non c’è più. Ma può riprendere, forse, a soffiare altrove.
Ecco, in questo “forse” c’è una prima radice dell’idea dell’anima come realmente separabile e opponibile al corpo. Un’idea che la tradizione antica sviluppa in più vie. Una prima prospettiva verte sul sentimento di caducità, dolore e sofferenza legato alla natura materiale dell’essere umano. Sentimento dal quale si cerca di trovare conforto immaginando un livello di vita individuale esente da sofferenza e assimilandolo al modo di vita dei cieli, dei cicli naturali o delle divinità. È il caso delle dottrine orfiche e della loro ripresa per esempio nella demonologia e nella teurgia tardo-antiche.
Una seconda linea parte da Socrate e attraverso Platone determina l’anima come principio di ordine in grado di riproporre una stessa regola universale (l’unità armonica di parti diverse ma coordinate) a molteplici livelli del reale e quindi come una legge formale non vincolata ad una materialità specifica. In questo senso l’anima è pensabile come idea, vale a dire come forma valida universalmente per tutti i corpi in cui vigano relazioni d’ordine siano essi individui, popoli o galassie. Concettualmente separabile, in qualche modo già capace di una certa trascendenza. Sarà in questo senso Plotino il primo a fare della capacità dell’anima umana di pensarsi come principio d’ordine separabile – la base di una scelta etica individuale tra il mondo dei corpi e il mondo dei principi ideali.
Un diverso modo di insistere sulla separabilità è invece quello che parte dalla divisione interna alla singola anima descritta da Platone e la estende al complesso dell’esistente. Si tratta secondo alcuni della linea inaugurata da Aristotele5. Affermando che a seconda del tipo di vita di un organismo si deve cercare un principio vivificatore diverso, nascono per esempio l’anima delle piante (nutritiva), l’anima degli animali (nutritiva + sensibile), l’anima dell’uomo (nutritiva + sensibile + linguistico-razionale) e financo, in certo senso, l’anima di quegli artefatti in grado di produrre movimenti sequenziati e organizzati come i burattini (automata) o i meccanismi complessi.
Quest’ultimo significato solo apparentemente è di natura analogica. Perché in realtà a seconda di cosa un corpo dotato di parti organizzate può fare ad esso spetterà un tipo differente di “esser animato”. Questo fa dell’esser-animato ancora una nozione plurivoca, atta cioè ad esprimere in modo diversificato e sempre traslato le capacità di vita di cui i corpi materiali sono dotati. È quanto afferma Aristotele quando definisce la psyche come l’“attività finalizzata primaria di un corpo fisico organizzato in parti e capace di vita” nella mia traduzione un po’ folle di De Anima 412 a 28-306. Riconoscendo implicitamente che la nozione di anima si articola diversamente a seconda di come un corpo è vivo, vale a dire di come le sue parti sono organizzate per consentire l’espletamento delle sue funzioni primarie.
Ma se è così, è ancora corretto dire che la nozione di anima si evolve in funzione della nostra conoscenza dei corpi. Cioè di quanto conosciamo in merito a come essi sono fatti ed in che senso siano simili o diversi tra loro. E dunque – soprattutto – in relazione a cosa pensiamo che un corpo sia. Tutte queste definizioni sono cioè fondamentalmente l’espressione di quello che questi autori ritenevano, sulla base della loro conoscenza filosofica o scientifica, fossero i corpi.
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Ma siccome dobbiamo rispondere noi, oggi, proviamo a chiederci cosa sono, per noi i corpi? Può essere che attualizzando la nozione che abbiamo del corpo facciamo un passo avanti nella nostra conoscenza/ricerca dell’anima? In effetti, anche la nostra idea del corpo può essere riconfigurata nella misura in cui essa risulta ancora legata ad una concezione antica. E precisamente alla nozione di corpo come ente dotato di estensione (l’occupare uno spazio che è solo suo), di pesantezza (l’avere un moto naturalmente orientato) e di impenetrabilità (il potere sovrapporsi altri corpi solo volontariamente o violentemente). L’ente-corpo pensato cioè come una sorta di spazio chiuso che a un certo punto può entrare in contatto con altro. Confine fisico dell’individuo, limite oltre il quale ci sono gli altri individui che compongono “il mondo”.
Ebbene la biologia degli ultimi anni, in un significativo parallelo con alcune concezioni filosofiche del Novecento, si è incaricata proprio di smentire questa teoria7.
Con lo sguardo della scienza biologica di oggi, infatti, gli individui sono in realtà sistemi eterogenei di organismi strutturati in base a relazioni di simbiosi. Anche il cosiddetto “corpo individuale umano” è in realtà composto da una comunità di molteplici organismi appartenenti alle specie e ai gruppi più diversi e per di più anche, in molti casi, lontani in termini evolutivi. Cioè dentro di noi abbiamo per esempio una spropositata quantità – indispensabile – di muffe, funghi, batteri e altri microganismi la cui formazione su scala evolutiva precede di molto quella degli organi in cui vivono. Organi tra l’altro che essi quasi sempre hanno contribuito a sviluppare. Si pensi al pancreas, o all’intestino come ad una vera e propria comunità di batteri che a un certo punto diventano letteralmente pensanti perché sono in grado di attivare neurotrasmettitori a livello cerebrale. Questo è per esempio il motivo per cui in tempi recentissimi si è cominciato a parlare dell’intestino come del “secondo cervello” di cui il corpo umano è dotato8. E credo che molti di noi sappiano, quantomeno empiricamente, di cosa stiamo parlando.
La composizione di quello che la biologia attuale chiama il microbioma di un individuo è in questo senso associata anche a fattori quali la dieta, lo stile di vita, l’uso di farmaci e altri aspetti della biografia individuale. Come le relazioni emozionali che intratteniamo con l’ambiente (la gioia, il sollievo ma anche l’ira e lo sconforto) e che attivano anch’esse neurotrasmettitori in grado di influenzare i nostri marcatori genetici, vale a dire il patrimonio che a nostra volta trasmettiamo ad altri individui. Questo vuol dire che diventiamo continuamente corpi nuovi a seconda di quello che ci succede, dentro e fuori.
Dal punto di vista filosofico c’è più di una vicinanza con quanto per esempio Deleuze e Guattari affermavano nel 1980 in Millepiani9, parlando del corpo come di una soglia, vale a dire come il punto in cui molteplici trasformazioni organiche e culturali si sovrappongono, e sostituendo all’idea di corpo come spazio chiuso o limite quella di corpo come bordo o membrana. Vale a dire come tessuto poroso la cui funzione principale è quella di farsi attraversare continuamente da scambi energetici, tanto a livello interiore quanto esteriore.
E si pensi agli sviluppi della fenomenologia post-husserliana e a tutta la filosofia del corpo come “il primo altro” con cui siamo in contatto10. E attraverso la cui esperienza modifichiamo l’idea stessa di un soggetto-individuo umano che si costituisce sul piano mentale in favore invece di una intersoggettività corporea diffusa che comprende, oltre agli altri individui, tutti i fattori ambientali con i quali siamo sempre in relazione.
Ecco, la cosa che la cultura filosofico-scientifica del Novecento recepisce e trasmette al nostro secolo è l’idea che anche parlare del “corpo” in generale o al singolare sia una modalità in qualche modo metaforica. Al limite una astrazione talvolta utile a livello metodologico ma fondamentalmente errata, in quanto non esiste corpo che non sia composizione e ricomposizione costante di processi a loro volta parimenti de- e ri-composti.
In questo senso la biologia contemporanea parla per esempio del corpo organico come di un olobionte, vale a dire di un insieme dinamico e variabile di tutte le relazioni che in un determinato spazio-tempo possono istituirsi tra processi biologici. Così la cellula, l’embrione, il neonato, l’adolescente per quanto riguarda la parte ascendente della vita, e poi l’adulto, il maturo, il senescente, il cadavere destinato a rientrare nel ciclo degli scambi post-organici, sono corpi sempre diversi perché diversi sono gli scambi biochimici tra gli ambienti che li utilizzano come soglie per riequilibrarsi continuamente.
Per non parlare del modo in cui le identità sessuali si configurano e ri-configurano continuamente a seconda della prevalenza ormonale nelle varie fasi del nostro sviluppo o dell’influenza delle dinamiche linguistico-discorsive che plasmano il modo in cui ci raccontiamo a noi stessi. E ci rapportiamo con quanto la società afferma su come un uomo, una donna, un bimbo, una bimba sono “detti” dover essere. Oggi, ieri, nell’ottocento, nel medioevo, nel Cristianesimo, nell’Islam. In questo senso, ancora la biologia contemporanea e la genetica non parlano più di individuo, ma di con-dividuo come costruzione e ricostruzione organico-sociale continua11.
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Che forma assume dunque, in questo scenario anch’esso metaforico che è diventato a questo punto “il corpo”, quell’altra metafora che ci ostiniamo a chiamare anima? Una possibilità è quella di pensare, come fa lo scienziato Douglas Hofstader, che in questo nuovo scenario biologico il comportamento collettivo di un sistema di con-dividui possa avere molte proprietà sorprendenti12. E che in questo senso l’anima sia in qualche modo ancora concepibile come l’insieme delle proprietà inaspettate che ogni volta emergono da un sistema di corpi: il surplus di capacità vitali che emerge dall’interazione dei con-dividui come qualcosa di non scritto originariamente nei loro singoli progetti genetici. Una forma d’ordine nuova che rappresenta il modo in cui diversi sistemi di replicazione (quelle che Richard Dawkins chiama “le macchine per la sopravvivenza”13) scoprono di risultare energeticamente più efficienti fondendosi che non combattendosi.
In questo senso l’espressione “Cura dell’anima” potrebbe avere oggi il significato di “attenzione all’emergere della vita”. Nel senso del riconoscimento del fatto che animali, piante, batteri, generi sessuati o ibridi uomo-macchina sono solo alcuni degli innumerevoli scenari simbiotici in cui la vita ogni volta si riconfigura per non annientarsi.
1 Il testo che segue è la trascrizione integrale dell’intervento discusso all’interno del ciclo di incontri Conversatorio al conservatorio. Riflessioni filosofico-musicali sulla cura dell’anima, Conservatorio di Palermo, 10 Marzo 2019.
2 Cfr. ad esempio S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2002 e L. Vanzago, Breve storia dell’anima. Il Mulino, Bologna 2009.
3 Aristotele, De anima 431 b 20.
4 Cfr. su questo V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina, Milano 2007.
5 Cfr. su questo G. Agamben, Mysterium disiunctionis, in Id. L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
6 L’espressione aristotelica è ἐντελέχεια ἡ πρώτη σώματος φυσικοῦ δυνάμει ζωὴν ἔχοντος.
7 Cfr. C. Sini e C. A. Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano? Jaca Book, Milano 2018.
8 Monti e C. A. Redi, Noi siamo l’intestino, in “La Lettura/Corriere della Sera”, domenica 8 aprile 2018, vol. 332, pp. 2-3.
9 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Cooper/Castelvecchi, Roma 2003.
10 Cfr. ad esempio M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965.
11 Cfr. ancora C. Sini e C. A. Redi, Lo specchio dio Dioniso, cit.
12 Cfr. D. R. Hofstadter e D. C. Dennett, L’io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull’anima, Adelphi, Milano 1985.
13 Dawkins, Geni egoisti e memi egoisti, in D. R. Hofstadter e D. C. Dennett, L’io della mente, cit.