Eleonora Pimentel Fonseca e il suo sogno repubblicano
La libertà? È donna
La figura di Eleonora Pimentel Fonseca, nel corso dei secoli, è stata oggetto di ricostruzioni storiche più o meno fantasiose. È quel che succede quando ci si trova di fronte a un personaggio così affascinante da far sembrare quasi un peccato mortale non evocarne la memoria, pur nella consapevolezza di incorrere nel rischio di enfatizzare eccessivamente ciò che del suo vissuto si conosce e di “inventare” i tasselli mancanti per fornire coerenza e completezza alla narrazione storica.
Nel caso della Pimentel, il fiorire di lavori a lei dedicati (a partire da Benedetto Croce per passare a Enzo Striano, Maria Antonietta Macciocchi, Mario Forgione ed Elena Urgnani) da un lato ha propagato l’eco della sua esperienza di vita anche in direzione di un pubblico di non specialisti, ma dall’altro ha radicato nella coscienza dei più episodi mai avvenuti e notizie che ad oggi non sono suffragate dalle fonti.
La figura di Eleonora, inoltre, è stata trattata spesso come quella di una donna “da romanzo”, in grado di stimolare l’empatia di lettori e spettatori per i drammi vissuti e la capacità dimostrata nel superarli. Ma quasi “scollata” dal momento storico complesso in cui ella visse ed entro cui è doveroso inquadrarne l’impegno intellettuale e politico, la vera linfa della sua esistenza.
A questa situazione ha cercato di far fronte Antonella Orefice con il suo “Eleonora Pimentel Fonseca. L’eroina della Repubblica napoletana del 1799” (Salerno editrice, Roma, 2019). Complice presumibilmente la penuria di informazioni sulla protagonista, l’opera non coincide con una sua biografia, sebbene rientri nella collana “Profili” della Salerno editrice; piuttosto, si presenta come una storia della Napoli borbonica e giacobina della fine del XVIII secolo, sul cui sfondo risalta lo spessore della Pimentel quale donna precorritrice dei tempi.
Di origine portoghese, Eleonora nacque a Roma nel 1752. Giunta nella capitale del Regno meridionale, ricevette una solida formazione da mentori d’ispirazione illuministica e, così “votata alla cultura”, sviluppò ben presto una certa abilità nello scrivere componimenti poetici. Ciò le garantì l’ammissione all’Accademia dei Filateti e all’Arcadia, le procurò gli apprezzamenti di intellettuali del calibro del Metastasio, ma soprattutto a Napoli attirò il vivo interesse da parte della famiglia reale. In particolare la regina Maria Carolina, piacevolmente colpita dal contenuto encomiastico dei suoi sonetti, la volle come bibliotecaria personale: la sovrana non poteva immaginare allora che, aprendo alla giovane poetessa le porte della corte, le avrebbe spalancate anche quelle dei più importanti salotti culturali, dove si sarebbe lasciata permeare dalle idee riformistiche al punto di sollevarsi poi contro l’oscurantismo di Ferdinando, come la peggiore delle “serpi in seno” (p. 85).
A sconvolgere le giornate di Eleonora − e quasi certamente a radicarle nell’animo l’idea che la libertà e l’uguaglianza fossero obiettivi da perseguire anche a costo della reputazione e della vita − concorsero una serie di fatti luttuosi che, incominciati con la morte della madre, Caterina Lopez, seguirono con l’apprendere che la sua eredità fosse vincolata a un futuro matrimonio e al concepimento di un figlio. L’affrettata decisione paterna di darla in sposa al tenente Pasquale Tria de Solis − un uomo profondamente diverso da lei, rivelatosi gretto, ostile alla cultura e violento − fu all’origine di quell’unione “funesta” su cui tanto si è concentrata l’attenzione dei biografi della Pimentel. Soprattutto da quando, negli anni ’70 del Novecento, è stato ritrovato il faldone del processo di separazione.
L’infelicissimo matrimonio con Tria, appena allietato dalla breve parentesi terrena dell’unico nato della poetessa, fu segnato da atti di opportunismo e di ferocia e da “plateali” tradimenti. Lo scandalo che suscitò allora la fine di quel legame coniugale a posteriori avrebbe contribuito ad elevare Eleonora a simbolo di “riscatto femminile”. Tuttavia, come ben evidenzia Antonella Orefice nel suo testo, la Pimentel non costituì un modello di donna, per così dire, “anticonformista” solo per esser riuscita ad emanciparsi dal suo consorte in contrasto con l’etica della società settecentesca. Piuttosto fu una personalità “eccezionale” per l’audacia con cui, da appartenente al “gentil sesso”, “militò” tra gli intellettuali affinché l’ideale repubblicano − l’unico antidoto all’asservimento dell’incolta e tumultuosa “plebe” − potesse realizzarsi e durare nel tempo.
Dalla sede del “Monitore napoletano” − il giornale che diresse per conto del Governo Provvisorio − la Pimentel sostenne con fermezza e lucidità la Repubblica Napoletana, scagliandosi ora contro i sovrani rifugiatisi a Palermo − appellandoli «despoti», «tiranni», «oppressori» (p. 129) − ora contro l’atteggiamento prevaricatore dei francesi.
Da donna impegnata politicamente, però, Eleonora non riuscì a comprendere quanto quel disegno fosse prematuro: non si trattava di compiere la sua volontà personale o quella di pochi patrioti, ma di realizzare un progetto più grande, una res publica che allora né era condivisa dal “popolo” (disposto ancora ad essere governato con le famose tre F: feste, farina e forca) né trovava sostegno in un panorama internazionale costellato di monarchie. Di certo, fino al 20 agosto 1799, giorno in cui salì sul patibolo insieme ad altri sette condannati, dovette credere fermamente che ogni forma di libertà − sia che riguardasse la sfera privata che quella pubblica − valesse la lotta, l’umiliazione, il sacrificio. In fondo, come ella scriveva, «la libertà non può amarsi per metà» (p. 10).
Opere come quella di Antonella Orefice perpetuano il ricordo di quanto la «signora marchesa giacobina Eleonora Pimmentella» la amasse completamente (pp. 234, 252).