Appunti per una storia della Sicilia in età moderna – scheda V
La nuova classe dirigente va al potere (1516 -1523)
La formazione del nuovo modello strutturale ed organizzativo dello Stato moderno passa non soltanto attraverso una trasformazione dei meccanismi della finanza pubblica ma anche per il rinnovamento della classe dirigente politica ed amministrativa al quale affidare il governo del Regno di Sicilia. Gli studi della Baviera, in particolar modo, mettono in rilievo che questo cambiamento non è soltanto generazionale, ma investe tutti gli aspetti della vita del Regno, incidendo sulla sfera morale e politica, sul campo sociale ed economico e sulle strutture giuridico istituzionali.
La classe dirigente feudale siciliana, che si è radicata in Sicilia come conseguenza della conquista dell’isola da parte dei Martini, nel primo ventennio del secolo XV I è spazzata via ed il suo posto è preso da personaggi che non appartengono alla classe feudale bensì ad una nuova classe sociale che potrebbe definirsi “borghese”, che, come i Bologna, trae le sue fortune dal commercio e dal controllo dei flussi finanziari sempre più rilevanti che caratterizzano l’amministrazione sia della Regia Curia sia delle città demaniali come Palermo o Messina.
La Baviera sottolinea che questa crisi istituzionale e generazionale, che è andata maturando durante il lungo Regno di Ferdinando II, trova il suo momento conclusivo in un arco temporale di sette anni (1516 – 1523) nel quale una serie di rivolte e di congiure squassano l’isola.
Quello che soprattutto ci sembra di poter dedurre con certezza è che dal 1516 al 1523 la Sicilia – e non solo per la sua posizione di antemurale contro il pericolo musulmano – rappresentò un punto nodale di tutto rilievo nella vita politica della Corte absburgica. Tre furono, come è noto, i momenti cruciali della crisi:
- Rivolta contro il Moncada,
- Congiura e rivolta dello Squarcialupo,
- Congiura dei fratelli Imperatore.
I tre episodi, che anche noi abbiamo qualificato con la terminologia tradizionalmente adoperata, non debbono a nostro giudizio essere considerati come fra loro staccati ed indipendenti, ma vanno studiati come momenti diversi di uno stesso fenomeno.
Questa chiave di lettura ci potrebbe permettere di capire e di collocare in un unico contesto quella congerie di sussulti, rivolte che caratterizzano, tra la fine del Quattrocento ed il primo decennio del Cinquecento, la contrapposizione tra la vecchia aristocrazia di origine feudale e gli esponenti delle amministrazioni comunali delle città demaniali. Processo politico nel quale si inserisce, a pieno titolo, il Viceré, il quale neutralizza gli effetti politici antimonarchici delle rivolte, disarticolando il fronte isolano che si oppone all’autorità sovrana e viceregia, grazie all’aiuto della cosiddetta nascente classe sociale di uomini nuovi che cresce nel contesto delle città demaniali. Tutto questo per tutelare “l’interesse generale” della Sicilia. Il Viceré, inoltre, si serve delle rivolte per eliminare fisicamente, arrestandoli e processandoli, i maggiori esponenti della nobiltà e della burocrazia ad essa legata, erogando condanne a morte e, soprattutto, sequestrando i beni che passano, attraverso meccanismi amministrativi più o meno trasparenti, ai nuovi emergenti.
L’analisi della Baviera – Albanese
La puntuale analisi che la Baviera fa degli avvenimenti che hanno caratterizzato in Sicilia il passaggio tra il Quattrocento ed il Cinquecento, ci permette di comprendere al meglio il complesso accavallarsi di eventi e di cambiamenti che hanno caratterizzato proprio quegli anni, e quali riflessi questi hanno avuto nella formazione della nuova classe dirigente:
Ci sembra – scrive la Baviera (A. BAVIERA ALBANESE, Problemi della giustizia in Sicilia nelle lettere di un uomo di toga del cinquecento, in “Studi dedicati a Carmelo Trasselli” a cura di Giovanna Motta, Soveria Mannelli (CZ), 1983, pp. 99-104) – vengano a maturazione processi che affondano le loro radici in un passato anche lontano e che quasi sempre hanno profonda matrice politica e che, pur nella loro peculiarità, possono inquadrarsi appieno in quella crisi generale dell’età del Rinascimento che dovunque allora andava con chiarezza delineandosi. Questi processi investono tutti gli aspetti della vita del paese dalla sfera morale e politica a quella propriamente giuridico-istituzionale, incidendo altresì profondamente nel campo sociale ed economico. Già durante il lungo Regno di Ferdinando II era andata manifestandosi una crescente tensione tra le opposte concezioni che il Regnum da una parte e la Monarchia dall’altra avevano sul ruolo e sulla collocazione politica e giuridica della Sicilia entro il complesso degli Stati dipendenti dalla Corona. I moti scoppiati nell’isola nel 1516, dopo la morte di quel sovrano, in apparenza diretti contro il viceré Ugo Moncada, sembrano segnare il vero momento di rottura dell’equilibrio da decenni ormai instabile e pur tuttavia faticosamente fino ad allora mantenuto fra tali opposte concezioni. Da quel momento gli eventi andarono snodandosi da un presto agitato ad un crescendo drammatico. Conseguente ai moti anti Moncada – e con esso variamente collegata – fu la cruenta esplosione rivoluzionaria del 1517, capeggiata da Giovan Luca Squarcialupo, scoppiata nella capitale ed ivi, in principio, confusamente diretta contro le istituzioni supreme del potere ed in particolare contro il sacro Regio Consiglio ed i suoi componenti appartenenti all’ordine giudiziario sanguinosamente soppressi, ma che da Palermo si diffusero in tutta l’isola, assumendo in centri diversi diverse configurazioni non riconducibili ad unità. Ancora oscuri ne rimangono in fondo motivazioni e scopi anche se, almeno in un primo momento, l’ispirazione del moto sembra potersi vagamente far risalire al ceto dirigente isolano e più precisamente a quella ampia frazione di esso che aveva assunto la nota posizione autonomistica l’anno precedente: non si può peraltro sottovalutare il fatto, apparentemente contraddittorio ma di cui pur si intuisce la profonda, ineluttabile logica, che furono proprio alcuni rappresentanti di tale ceto a soffocare nel sangue la rivolta durata appena una breve estate. È difficilissimo far rientrare entro schemi lineari e quindi è difficilissimo apprezzare al loro giusto valore e comprendere appieno i giochi di potere, le alleanze e le discrasie tra vecchia aristocrazia di origine “feudale”, detentrice di molte leve del potere, ordine dei funzionari statali di alto e medio livello, esponenti delle amministrazioni comunali delle città demaniali – identificabili in certo senso con il ceto borghese – ed infine plebi urbane e contadine, che nell’uno e nell’altro movimento si evidenziarono e si composero variamente ed instabilmente come in un caleidoscopio. Ancora più emblematica e problematica insieme appare la rivolta parlamentare del 1522, la quale all’origine sembra mostrare il fronte isolano opporsi compatto all’autorità sovrana e viceregia nell’asserito interesse generale del paese, che in quel momento si volle identificare con la difesa delle categorie meno abbienti, fronte che venne ben presto sfaldato dalle forze governative con l’arresto dei suoi più significativi leaders appartenenti agli strati più elevati della nobiltà e della burocrazia, alcuni dei quali furono eliminati dalla scena e relegati nel Castel Nuovo di Napoli. La pretesa aspirazione siciliana di sottrarsi alla Corona spagnola per darsi a quella francese, mentre sottolinea la persistenza della concezione pattizia del rapporto che legava il Regnum alla Monarchia – concezione che era stata del resto alla radice dei moti del 1516 come dei fatti del 1522 – starebbe a dimostrare che neanche l’isola era sfuggita alla perturbazione ed allo sconvolgimento generali conseguenti alla trasformazione dell’Italia tutta in campo di battaglia tra le due grandi potenze europee. Essa si concretò qui nella così detta congiura dei fratelli Imperatore maturatasi negli anni 1517-1523, non solo in Sicilia ma anche in quel mondo complesso e pieno di intrighi che era la Roma papale del primo Cinquecento. In tale Congiura vennero coinvolti oltre agli organizzatori appartenenti alla fascia più elevata del ceto cittadino palermitano variamente collegati con rappresentanti dei ceti paralleli degli altri centri demaniali, anche (e non si sa se a ragione o in virtù di uno di quegli spregiudicati giochi politici da poco teorizzati dal Machiavelli) alcuni degli elementi che più attivamente avevano impersonato la resistenza sia nel 1516, sia, e ancor più, nel 1522. I processi tremendamente sommari, celebrati con la procedura ex abrupto, allucinante per la sua brevità e per la sua crudeltà, le torture, le inevitabili conseguenti confessioni, le durissime condanne e le esecuzioni capitali dei personaggi più prestigiosi e quindi più pericolosi perché portatori di una precisa ideologia, sembrano veramente aver impresso una svolta decisiva alla storia del Regnum.
Le condanne e i sequestri: la svolta giudiziaria per gli “uomini nuovi”
La sentenza contro i pretesi congiurati è pronunciata dalla Magna Regia Curia il 19 giugno del 1523 e letta sul piano davanti la Cattedrale di Messina. Le condanne sono erogate contro: Federico, Giovanni, Vincenzo e Francesco de Imperatore, Vincenzo de Leofante, Iacobo Spatafora, Giovanni de Sancto Philippo, Federico de Abatellis, Vincenzo de Benedictis, Claudio de Imperatore. Accertata l’esistenza di una congiura il cui obiettivo è quello di consegnare la Sicilia ai Francesi, si condannano a morte e al sequestro dei beni: Federico, Giovanni, Vincenzo e Francesco de Imperatore, Vincenzo de Leofante, Iacobo Spatafora, Giovanni de Santo Philippo, Federico de Abatellis. Vincenzo de Benedictis e Claudio de Imperatore, considerati “inabiles et incapaces”, vengono condannati ad essere deportati in un castello da designare da parte del Viceré.
Incamerati i beni da parte della Corona, si procede ad una loro redistribuzione a favore della nuova classe di “uomini nuovi” grazie al cui aiuto il Viceré può ricostruire una struttura di governo che gli permette di rimodellare la struttura istituzionale del Regno di Sicilia e l’apparato servente secondo i modelli che sono propri delle monarchie nazionali ed alle quali si ispira il re di Spagna nella costruzione del suo impero. Una redistribuzione delle terre e della titolarità dei principali uffici che caratterizza ogni cambiamento epocale del Regno. L’unica differenza consiste nel fatto che cambiano i metodi seguiti dal vincitore per operare la redistribuzione della terra o del potere amministrativo. I Martini, allorquando subentrano alla monarchia autoctona siciliana, hanno la possibilità, avendo conquistato militarmente l’isola, di distribuire i feudi appartenuti ai “perdenti”, a quanti li avevano supportati nella loro conquista; il Viceré, dopo la rivolta Imperatore, per la redistribuzione delle spoglie deve seguire strade diverse che abbiano la parvenza della legittimità giuridica. In particolare, il Viceré, per ricompensare coloro che lo hanno sostenuto supportandolo e permettendogli di avere ragione dei congiurati segue due vie: la prima quella del risarcimento dei danni materiali subiti in occasione dei tumulti, la seconda quella di pilotare la vendita dei feudi appartenuti ai condannati per lesa maestà, favorendone l’attribuzione agli esponenti di spicco della nuova classe dirigente.
Una realtà pienamente percepita dai contemporanei come si può ricavare da alcune testimonianze rese davanti ai Visitatori in occasione dell’istruttoria dell’inchiesta avviata contro Francesco Bologna. In particolare, il dottor Joan Battista de Riga, interrogato dai Visitatori proprio su questi temi, afferma:
Di poi di li rivolti, multi persuni pretendiano refecioni di li beni chi li foro sacchigiati ad ipsi et faciano loro processi di li beni chi diciano haviri perduto. Et subta quistu coluri, lo vicere don Hedoro duca di Montiliuni li dava a cui feghi a cui altri cosi et di poi intisi dicto testimonio pubblicamente chi si dicia chi chisti tali persuni li haviano havuto multo più di aquillo chi haviano perduto.
Sempre il de Riga, nella stessa testimonianza, riporta quanto si mormora nelle strade e nelle piazze di Palermo e cioè che le vendite dei feudi a favore di personaggi di spicco come Francesco Bologna siano state condizionate dal Viceré, che ha spinto il Sacro Regio Consiglio a effettuare delle valutazioni economiche inferiori al valore reale di mercato. Infatti, riporta l’opinione comune in base alla quale si afferma che:
in tempo di li rivolti, quando foru confiscati li beni di li ribelli a la Regia Curti, et infra di quilli la baronia di Chifala fu venduta a don Francesco de Bulogna, chi è di quisto Regno, in quillo tempo, secundo li fu dittu ad ipso testimonio per quarantamila fiorini di sei tarì et illo pagamento non fu tutto in dinari si non parti in dinari et parti in formenti et altri cosi […]. Et si dicia como lo ditto Thesoriero havia avuto la ditta baronia in bono prezo per essiri amicu et servituri di lo viceré. […] Teni per certo chi si haviria donari più dinari per la ditta baronia […] si dicia chi valia quattro centu di rendita ogni anno chi sunno milli scuti.
Ma oltre ai si dice, vi sono delle accuse precise che si fanno al Viceré, il quale è accusato di non condannare e reprimere gli accordi che intercorrono, in modo più o meno sotterraneo, fra i membri del Sacro regio Consiglio e gli acquirenti dei feudi. Ad esempio, Nicola Barresio, cittadino di Messina, afferma che Francesco Bologna ha acquistato la terra di Sutera concordando con il Maestro razionale Iacobo Abbate un prezzo di stima del feudo di molto inferiore a quello di mercato. L’accusa di non avere scelto la via dell’asta pubblica per la vendita dei feudi sequestrati ai ribelli, lascia indifferente il Viceré e quanti hanno beneficiato dei suoi favori. La risposta è formulata da Giliberto Bologna, barone di Cefalà e di Capaci, il quale rende testimonianza che la scelta della Regia Corte di non ricorrere all’asta pubblica per l’aggiudicazione dei feudi messi in vendita, fa parte di una prassi comune sempre seguita allorquando la Regia Corte e il Sacro Regio Consiglio vogliono vendere un feudo. In quel caso da parte della Regia Corte
si solino chamare li mezzani e dari carrico a li mezzani di cercare i possibili acquirenti ne mai la regia curti soli incantari ne fari incantari ne vindiri a lu incantu puplico a la candila predii, feghi et baronii”.
D’altra parte, la scelta, da parte del Viceré, di non ricorrere all’asta pubblica è politicamente del tutto comprensibile, in quanto la vendita di un feudo fa parte di una decisione strategica che ha delle ricadute importanti non soltanto sul controllo del territorio ma anche per il governo del Regno dato che il feudatario sarà presente nel contesto del Parlamento. Quindi una scelta fortemente condizionata dalle implicazioni politiche che questa comporta, e che giustifica la decisione del Viceré di controllare tutti i passaggi legati alla vendita dei feudi, poco importa se non riesce a spuntare un prezzo di mercato.
Nel primo ventennio del Cinquecento in Sicilia si è innescato un processo di cambiamento sociale strettamente connesso ai profondi mutamenti politici ed economici che caratterizzano il passaggio tra il medioevo e l’età moderna.
Ninni Giuffrida