Appunti per una storia della Sicilia in età moderna – scheda VI
Una nuova classe dirigente
La crisi della feudalità quattrocentesca siciliana trascina nella sua caduta anche tutta la classe dirigente alla quale era stata affidata la gestione della res pubblica, con la conseguenza che si fa spazio un nuovo gruppo dirigenziale che trova la sua legittimazione nella capacità di gestire gli uffici non solo per la preparazione giuridica acquisita nelle università come Bologna o Padova, ma soprattutto perché è in grado di comprendere e di governare i nuovi processi dell’economia e della gestione dei flussi della finanza pubblica. La chiave di lettura della nuova realtà strutturale che emerge nella prima metà del ‘500 in Sicilia sta proprio nella possibilità per un emergente gruppo sociale burocratico d’origine “borghese” di acquisire un peso maggiore e rilevante in un contesto in cui il governo dell’economia e dello Stato passa attraverso la gestione dei flussi della finanza pubblica. La famiglia dei Bologna costituisce un esempio da manuale: studi universitari; accumulo di capitale con stretti collegamenti con i banchieri che operano in Sicilia; speculazioni sul commercio del grano; acquisizione di importanti uffici pubblici; gestione della Dogana di Palermo; acquisizione di feudi da un ceto baronale quattrocentesco in profonda crisi finanziaria.
Punto di arrivo della crescita sociale è quello dell’acquisizione di un titolo nobiliare e la creazione, soprattutto, con i matrimoni di una rete relazionale grazie alla quale si viene cooptati nel ceto nobiliare rappresentato in Parlamento dal relativo “Braccio”.
Giovanni Sollima: la crescita sociale di un messinese
Gli atti notarili incrociati con la documentazione relativa alle inchieste dei Visitatori e ai giudizi dei Maestri razionali ci permette di ricostruire diversi di questi percorsi in modo esemplare. In questo nostro percorso didattico ne ricostruirò uno che è veramente esemplare: quello di Giovanni Sollima, messinese che vive gli anni delle rivolte e che costruisce le sue fortune grazie alla sua cultura giuridica, alla sua professionalità nella gestione dei problemi della finanza pubblica e alla sua capacità di integrarsi nel progetto viceregio di razionalizzazione della struttura amministrativa del Regno. Il viceré pone estrema fiducia nella sua professionalità e nella sua fedeltà. Infatti, affida a Giovanni Sollima, Locumtenens et magister notarius in officio prothonotari, il rogito dell’atto di conferma della vendita della baronia di Cefalà a favore di don Francesco de Bologna.
Giovanni Sollima è un messinese che costruisce la sua ascesa sociale grazie al suo impegno nell’ambito della struttura burocratica della Regia Curia, partendo dalla posizione di semplice collaboratore del viceré Moncada sino a fregiarsi del titolo di Barone di Castanea. Un caso che si è ricostruito nei suoi più minuti particolari in modo da comprendere al meglio i meccanismi che presiedono al rinnovamento della realtà sociale siciliana e scandiscono il passaggio tra i diversi livelli della piramide che caratterizza l’articolazione dei diversi ordini e ceti nei quali si articola la società della Sicilia del Cinquecento.
Il ruolo del padre
Una carriera che trova i suoi presupposti nell’impegno posto dal padre Nicolò nel farlo specializzare negli studi giuridici e di coinvolgerlo come “apprendista” nel suo lavoro di funzionario nell’apparato burocratico della città di Messina. Nel 1507 il giurista Nicolò Sollima, padre di Giovanni, ha già una posizione di rilievo nell’amministrazione del comune, come si può ricavare dal fatto che è inviato come ambasciatore da parte della città di Messina al Sacro Regio Consiglio, per sostenere la richiesta che i Capitani e i Giudici del distretto messinese venissero sottoposti a sindacato dallo stratigoto e non da sindacatori regi. Nicolò può giovarsi, inoltre, dell’appoggio di un fratello, il quale è abbate del Casale. Successivamente Nicolò riesce a migliorare la sua posizione passando dal comune di Messina al contesto burocratico della Regia Curia con al seguito sempre il figlio Giovanni. Nel 1516 Nicolò, in qualità di Regio segretario, e il figlio Giovanni, non solo sono indicati come membri della corte del Viceré Moncada, ma anche lo seguono nella fuga che lo porta nella più sicura città di Messina per sfuggire agli insorti che assediano Palazzo Chiaramonte. Il padre Nicolò, certamente, fa parte della corte del Viceré Moncada sin dal 1512 in qualità di Luogotenente del Protonotaro.
Seguendo le orme del padre il giovane Giovanni Sollima s’inserisce a pieno titolo nei meccanismi della struttura burocratica della Regia Corte, dando inizio alla sua carriera che dopo alcune incertezze si avvia in un particolare settore, quello della gestione e del governo della finanza pubblica, dove acquisisce sempre maggiore prestigio e, soprattutto, piena padronanza dei meccanismi contabili e amministrativi; oltre ad entrare in contatto con i maggiori esponenti della finanza privata rappresentata dai mercanti e dai banchieri.
Il mago della finanza
A differenza di molti altri protagonisti della vita amministrativa siciliana, il Sollima, da buon messinese, non è attirato dalla gloria dei campi di battaglia o dalle dotte disquisizioni giuridiche, ma cerca di mettere a frutto la professionalità acquisita nel campo della gestione della finanza pubblica. Infatti, come si ricava dalla lettura del suo curriculum, dopo aver rischiato la vita nel corso di una spedizione militare guidata dal Viceré Moncada in terra d’Africa, si dedica a sfruttare appieno la sua preparazione e la sua conoscenza dei meccanismi del funzionamento del mondo della “mercatura”.
La sua prima esperienza è quella di Luogotenente del Protonotaro, carica nella quale subentra alla morte dal padre, grazie alla quale partecipa allo svolgimento delle sessioni parlamentari, sia ordinarie che straordinarie, intervenendo di fatto nei lavori parlamentari come si ricava dalla sua affermazione di essersi procurato “in persona multi vuthi per possere meglio serviri sua Maestà cesarea”. Grazie a questa esperienza “parlamentare”, il Sollima acquisisce piena conoscenza dei meccanismi che governano la ripartizione dei donativi fra le varie città. Infatti, è in grado di ricalcolare, in occasione della visita di Carlo V in Sicilia, il carico fiscale spettante alla Camera reginale ed in “particolare alla città di Siracusa determinando “li taxi conformi a li fochi et facilitati”. Ben presto il suo ruolo diventa sempre più incisivo per la gestione del debito pubblico. I viceré gli affidano il compito di recarsi presso diverse città, al fine di riuscire ad ottenere le somme necessarie ad alimentare un debito pubblico che diventa sempre più ingovernabile. Allorquando bisogna procurare sul mercato finanziario siciliano un prestito, definito come “cambio”, di cinquantamila scudi (onze 20000) da inviare in Fiandra, è proprio il Sollima ad attivarsi riducendo a più miti consigli i mercanti della loggia di Palermo, rinegoziando il prestito e riducendo il tasso di interesse del cambio dal 12 % all’8%, facendo risparmiare alla Corte ben 4 punti, un vantaggio non indifferente dato il rilevante ammontare del prestito. Allorquando sia il Gonzaga sia il de Vega decidono di effettuare alcune spedizioni in Africa, affidano al Sollima il compito di organizzare in Sicilia il supporto logistico e di reperire i fondi necessari.
Sempre attento alle necessità finanziarie della Regia Corte, Sollima si preoccupa di sollecitare l’intervento del Viceré per valutare i vantaggi che sarebbero derivati per le finanze del Regno dall’imposizione del “nuovo imposto” sull’estrazione del grano dai caricatori regi.
Si occupa, inoltre, di sovrintendere al reperimento delle somme di denaro necessarie al potenziamento delle fortificazioni delle città di Trapani e di Termini Imerese. In particolare, per quest’ultima città, la sua mentalità di uomo di affari legato anche al gran negozio del grano, lo induce a commentare positivamente la decisione di potenziare le fortificazioni in quanto si tratta di “cità di importancia per quillo caricaturi chi è lo principali del Regno”.
Il consolidamento del suo patrimonio
Sfruttando le potenzialità offerte da questa sua particolare posizione di gestore dei flussi della finanza pubblica, il Sollima gestisce non solo gli affari della Regia Curia ma anche i propri, riuscendo a far sì che dalla cura delle finanze pubbliche ne derivi un vantaggio personale con ricadute positive sul suo patrimonio. Come il Sollima riuscisse a trarre vantaggio dal suo ruolo nel contesto della struttura amministrativa della Regia Corte, emerge chiaramente dagli atti dell’inchiesta portata avanti dai Visitatori nei suoi confronti, ai quali sono allegati gli estratti dei suoi “conti correnti” accesi presso diversi banchieri palermitani. Le scritture contabili mostrano chiaramente che il Sollima, utilizzando l’intermediazione fornita da banchieri e da mercanti compiacenti, partecipa a moltissime operazioni finanziarie che vedono la Regia Corte come parte. Ad esempio: partecipa, sempre grazie ad intermediari, ai prestiti, detti impropriamente “cambi”, richiesti dalla Regia Corte per far fronte alle necessità di cassa; oltre ad entrare in quota su partite di grano fornite all’armata regia. Affari che passano attraverso rapporti più o meno palesi con uomini d’affari genovesi e, soprattutto, sono mediati dai banchieri i quali, ancora una volta, rappresentano l’interfaccia o, per meglio dire, lo snodo che rende possibile il raccordo operativo tra il mondo della finanza e la Regia Corte. I grandi affari, ovverosia quelli che condizionano le fortune non solo dei mercanti – finanzieri ma anche dei responsabili del governo della res pubblica come nel caso del Sollima, passano attraverso le partite di dare ed avere accuratamente registrate nei libri di contabilità dei banchieri siciliani. Un dato di fatto che emerge chiaramente dalle indagini patrimoniali fatte dai Visitatori nei confronti del Sollima e degli altri responsabili della burocrazia regia.
Il titolo nobiliare
Giovanni Sollima il 10 settembre 1553, 38 anni dopo la fuga precipitosa dallo Steri insieme con il Viceré per sottrarsi alla furia dei rivoltosi e la sua partecipazione all’omicidio dello Squarcialupo, raggiunge il punto più alto della parabola che segna la sua ascesa sociale, acquisendo, con un investimento di 14000 onze, un titolo nobiliare. Infatti, a seguito dell’acquisto fatto da Cesare Lanza il 17 maggio 1553, è investito della Baronia, terra e castello di Castanea con i feudi di Cartularo, Acqua Santa e Barletta, oltre ad una salina sita nel Valdemone.
Un incidente di percorso
Dieci anni dopo, allorquando – come lui stesso dice nella sua biografia – ha raggiunto la venerabile età di circa ottant’anni, la parabola della sua carriera assume un andamento negativo ed inizia il momento più difficile della sua vita. I Visitatori Cordova, Agustin e Oriolo (1545 -1568) iniziano ad indagare su tutta la sua attività di pubblico amministratore e, acquisita la convinzione della sua colpevolezza, lo accusano di malversazione e lo mettono sotto processo. Non potendo negare i fatti attribuitigli in quanto basati su prove documentali inoppugnabili, il Sollima imposta la sua difesa sul fatto che i meriti da lui acquisiti nel rafforzare il potere regio nel Regno di Sicilia, favorendo la trasformazione in senso moderno della struttura finanziaria ed amministrativa della Regia Curia, possono far passare in secondo piano alcune sue scorrettezze amministrative.
La fine del percorso
L’avventura terrena del Sollima, che ha superato la soglia degli ottanta anni, si concluse nel gennaio del 1570. Il suo testamento, redatto presso un notaio della terra di Ficarra, è pubblicato a Palermo il 27 gennaio 1570 dal notaio Giuseppe Fugazza alla presenza del giudice della Magna Regia Curia Francesco Russitto, “intus unam cameram domus in qua infrascriptus condam spectabilis dominus Johannes Sollima baro Castanie”, allorquando si trovava a Palermo, abitava. Un documento lungo ed articolato sia per la complessità strutturale dell’impianto dei vari legati e delle sostituzioni in caso di premorienza dei diversi eredi, sia perché il Sollima, quasi certamente di suo pugno, inserisce numerose considerazioni con le quali ribadisce due concetti che reputa importanti: la sua fedeltà alla Corona e che la sua attività di funzionario è stata sempre rivolta a perseguire il vantaggio economico e politico della Regia Corte..
Dall’esame di questo documento emergono alcuni dati importanti per valutare al meglio la biografia del Sollima: il primo concerne la quantificazione della ricchezza che il Sollima è riuscito ad accumulare nel corso della sua carriera di funzionario della Regia Curia; il secondo è connesso all’orgoglio di essere riuscito ad inserirsi nel contesto sociale della nobiltà, grazie all’ acquisto del titolo di barone, e, nello stesso tempo alla preoccupazione di assicurare la linea di successione necessaria a perpetuare il cognome dei Sollima nell’ambito delle famiglie nobili siciliane.
Il Sollima oltre che uomo di affari si sente anche un feudatario e chiude il suo testamento con alcune disposizioni grazie alle quali rende grazie all’Altissimo per averlo sempre protetto e, allo stesso tempo, pongono le condizioni per perpetuare nell’immaginario collettivo degli abitanti della cittadina sede della baronia la memoria della sua famiglia. Infatti, prevede alcuni legati a favore della chiesa madre e dell’ospedale di Castanea, oltre alla creazione di una rendita destinata ad alimentare le doti necessarie per sposare due “puelle virtuose, virgines, orfane et pauperiores predicte terre Castanie”.
Uno strano destino si accanisce sulla linea ereditaria destinata a raccogliere l’eredità del Maestro razionale Sollima. Giovanni muore nel maggio del 1587 lasciando come erede Giovanni Pietro Antonio Francesco Sollima, il quale muore nel 1591 senza figli. La baronia passa, quindi, a Cesare Sollima fratello di Giovanni Pietro. Con Cesare ha termine la linea di successione maschile, e subentra la famiglia Bavera di Marsala grazie al matrimonio con donna Antonina Sollima. Nel 1553 il Maestro Razionale Giovanni Sollima acquista il titolo, nel 1597, di fatto, la baronia passa ad un’altra famiglia. Il sogno di Giovanni di far sì che la sua famiglia si inserisca nel novero dei grandi titoli nobiliari siciliani si infrange in meno di 44 anni.
Ninni Giuffrida