Appunti per una storia della Sicilia in età moderna – scheda VIII
La “frontiera disarmata”
La decisione di Carlo V di aprire le ostilità sul fronte africano e di guidare personalmente l’armata per la conquista di Tunisi accresce la virulenza del conflitto ispano-ottomano. La risposta militare turca è affidata non solo alle truppe che sviluppano la loro offensiva via terra sia nei Balcani sia lungo le coste dell’Africa del nord, ma anche alle armate navali, comandate da brillanti ammiragli come Barbarossa o Dragut, che, durante i mesi estivi, vanno in corsa lungo le coste dell’Italia meridionale e delle isole maggiori, la Sicilia e la Sardegna, saccheggiando borghi e villaggi e catturandone gli abitanti. Una situazione strategica che rende la difesa della Sicilia sempre più problematica anche per il fatto che le armate navali turche possono utilizzare il supporto logistico dei porti mediterranei della Francia e rafforzare il loro potenziale offensivo con la presenza di galere francesi che si affiancano a quelle ottomane grazie all’alleanza con il re di Francia. La preoccupazione sulla presenza delle galere francesi lungo le coste siciliane emerge chiaramente dalla corrispondenza dei viceré siciliani. Il Vega, ad esempio, rifiuta di dare una licenza di otto giorni allo spettabile Pietro de Afflitto, capitano delle milizie, «per esseri in questi mari comparsi certo numero di galeri francesi quali si iudica che vadano per ajuntarse con l’armata torchesca».
I viceré sanno nello stesso tempo che piani militari turchi non prevedono la conquista della Sicilia, bensì uno stillicidio di incursioni più o meno efficaci rivolte a danneggiare gli insediamenti urbani lungo le coste, a fare bottino, a catturare schiavi. Gli ottomani, in tal modo, oltre a creare problemi di non poca rilevanza all’economia siciliana, cercano di obbligare gli spagnoli a spostare i tercios in Sicilia dove si logorerebbero in una lunga e tediosa attesa per la difesa contro un nemico che non si sa quando e dove potrebbe arrivare. Gli avvisi sono sempre generici e fanno riferimento sia ai preparativi in corso per l’armamento della flotta “turca”, sia ai possibili obiettivi delle incursioni. Le notizie, spesso, si rivelano approssimative: il numero delle navi è inferiore a quello annunziato, oppure le condizioni meteorologiche cambiano repentinamente obbligando l’armata a mutare rotta, risparmiando alcune cittadine e condannandone altre. Le truppe italiane, spagnole e tedesche non possono acquarteriarsi per molto tempo nelle città siciliane nella attesa di un attacco che non si sa quando e dove sarà scatenato; costano troppo sia in termini economici, sia per i problemi che creano per l’ordine pubblico e inoltre si sottraggono a fronti dove lo scontro con il nemico è quotidiano e, soprattutto, certo.
D’altra parte, alla Sicilia è affidato il compito, come si ricava anche dalla lettura del discorso di Carlo V pronunciato al Parlamento siciliano, di proteggere le altre province e la Spagna dagli attacchi dei Turchi, in cambio del sostegno militare e finanziario da parte dell’Impero. La così detta “teoria dei bastioni” trova in Sicilia non solo la sua teorizzazione ma anche la sua concreta sperimentazione.
Il processo di modernizzazione dell’apparato militare della Sicilia
Carlo V affida ai viceré Pignatelli, Gonzaga e Vega, che si succedono al governo della Sicilia, l’impegnativa incombenza di far transitare l’isola dal medioevo all’età moderna anche nell’esercizio “dell’arte della guerra”. La realtà delle strutture delle difese passive e attive della Sicilia durante i primi anni del sec. XVI è tragicamente inadeguata alle esigenze del nuovo modo di fare la guerra: le mura dei luoghi forti sono inadatte a resistere al tiro dei nuovi cannoni da assedio; le poche torri di avvistamento, realizzate spesso nelle vicinanze delle città, non sono in grado di rendere possibili efficienti contatti visivi tra loro per far circolare le notizie; le comunicazioni stradali sono inesistenti; lunghi tratti di costa sono totalmente indifesi e nulla si oppone agli sbarchi degli ottomani; la milizia feudale è insufficiente, sia numericamente sia qualitativamente, per far fronte alle incursioni del turco rendendo necessario il ricorso alle compagnie dei militari spagnoli. Gli avamposti come Malta e Pantelleria, fondamentali per il controllo delle rotte tra la Turchia, la Siria e l’Africa del nord, sono privi di ogni difesa passiva e sottoposti, continuamente, alle incursioni ottomane che provocano gravi danni strutturali e umani. La Sicilia, quindi, nei primi anni del secolo XVI, si presenta come un “bastione indifeso” incapace di far fronte al ruolo di fortezza affidatogli da Carlo V nel contesto dei “regni mediterranei”.
I viceré, nell’affrontare il difficile compito di “militarizzare” la Sicilia, utilizzano e sviluppano, adattandoli alla realtà locale, modelli di modernizzazione militare che già da tempo circolano in Italia. Non inventano nulla di nuovo ma, servendosi anche di tecnici che hanno vissuto l’esperienza delle guerre d’Italia, sperimentano moduli operativi, come quelli dei bastioni o della milizia teorizzata anche dal Machiavelli.
I momenti strutturali che caratterizzano l’impegno politico, amministrativo, organizzativo e finanziario dei viceré per realizzare il processo di modernizzazione dell’apparato militare della Sicilia possono essere così sintetizzati:
- progettazione e realizzazione di un sistema di architettura bastionata, in sostituzione delle ormai fatiscenti mura medievali, in cui sono coinvolte tutte le città che hanno un ruolo nella difesa del Regno come Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Noto;
- fondazione di una nuova città (Carlentini) alla quale affidare un ruolo strategico per la difesa del Val di Noto;
- costruzione lungo le coste di una cintura di torri di avvistamento, in grado di comunicare tra di loro con segnali di fumo durante il giorno e fuochi nel buio della notte;
- arruolamento, con riferimento alla realtà territoriale, di un corpo di esploratori a cavallo, denominati “cavallari”, che dovrebbero interagire con i “torrari” per il controllo dei luoghi nei quali potrebbero avvenire degli sbarchi e per tenere sotto controllo tutte le vele sospette;
- realizzazione di un efficiente sistema di comunicazioni terrestri mediante la costruzione di ponti e il miglioramento delle “scale” (passi che permettono il superamento di sistemi montuosi) in modo da dare la possibilità alle truppe di spostarsi rapidamente per linee interne;
- reclutamento di una “milizia” e di una cavalleria leggera di regnicoli da addestrare all’uso delle nuove armi da fuoco, in grado di mobilitarsi in tempi rapidissimi per far fronte ad eventuali attacchi ottomani;
- creazione di una struttura di “sergenti” in grado sia di addestrare alla disciplina militare la “milizia” territoriale, sia di gestire la mobilitazione in caso di bisogno;
- affidamento all’Ordine gerosolimitano dell’isola di Malta contestualmente alla costruzione nella stessa di poderosi forti bastionati.
I capitani d’arme “ad guerram” e il figlio del viceré
Il Vega è un uomo d’azione, dotato di una notevole capacità organizzativa, determinato a rendere operativo il progetto della ristrutturazione del sistema difensivo siciliano già delineato dai suoi predecessori, ma che ha, nello stesso tempo, la capacità progettuale di pensare una nuova strategia operativa e, soprattutto, di creare meccanismi giuridici e amministrativi innovativi attraverso i quali riesce a proiettarsi sul territorio e a rendere operative le decisioni prese. Grazie alla nuova struttura amministrativa del vicario che opera in regime di decentramento nei tre Valli, riesce a concretizzare, durante il suo primo mandato, i progetti relativi sia ai lavori per la realizzazione delle fortificazioni, sia all’organizzazione della “nuova milizia”.
L’esame degli atti contenuti nei registri del Protonotaro del Regno, conservati presso l’archivio di Stato di Palermo, mi hanno dato una possibile chiave di lettura per comprendere il funzionamento dei predetti meccanismi. Il viceré opera sul territorio tramite la nomina di capitani d’arme “a guerra” cui affida determinate responsabilità quali la difesa delle coste, la realizzazione di specifiche opere di difesa militare oppure qualsiasi altro compito nell’interesse della Regia Corte.
I poteri di questi capitani sono connessi, principalmente, al comando delle truppe o ad esigenze del controllo dell’ordine pubblico, e possono essere estesi anche all’azione di governo della “res pubblica”, ricorrendo all’istituto del vicariato con il quale si conferiscono al capitano poteri molto più ampi che possono essere rafforzati con l’esercizio del “mero e misto imperio”. Le nomine sono accompagnate da istruzioni più o meno particolareggiate che servono, anche, a specificare i compiti affidati al capitano e, soprattutto, ad evitare conflitti con le autorità locali che potrebbero sentirsi lese nella loro autonomia di governo.
Il Bastionamento
La Dufour, studiando le fortificazioni realizzate in Sicilia durante il regno di Carlo V, sottolinea da un lato che si deve attribuire al Vega il merito di aver completato il lavoro iniziato dal Gonzaga, dall’altro che «se conoce bastante mal la obra de Juan Vega». Alcuni dati la Dufour le ricava da una relazione redatta nel 1565 dal successore, nella quale si sostiene che l’attività del Gonzaga si è limitata a porre le basi del progetto complessivo di ristrutturazione del sistema difensivo siciliano, mentre la sua pratica attuazione si deve al Vega.
Un giudizio ampiamente condiviso dai contemporanei che mi ha posto alcuni problemi interpretativi. Il Gonzaga non è certo uno sprovveduto e, fra l’altro, conosce bene “il mestiere delle armi” e le teorie architettoniche alle quali si rifanno gli ingegneri militari italiani; conseguentemente gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei suoi progetti, molto probabilmente, sono legati ad un difficile rapporto con il territorio e all’ostilità delle università che si preoccupano sia di tutelare le proprie autonomie, sia di evitare ulteriori aggravi fiscali. Il Vega, facendo tesoro delle difficoltà del suo predecessore, riesce a raggiungere i suoi obiettivi creando una struttura amministrativa decentrata sul territorio, dotata di ampia autonomia decisionale e finanziaria, in continuo contatto con la segreteria del viceré, e, soprattutto, gestita da persone di sua totale fiducia, quale il figlio Hernando, con la messa in disparte i baroni. Non si creano nuove figure giuridiche, ma si ricorre ad istituti ampiamente sperimentati, quali il “capitano d’arme ad guerram”, dei quali si amplia la sfera d’azione grazie alla sovrapposizione del “vicariato”, una sorta di “procura generale” attraverso la quale si delega una parte dei poteri che sono propri del viceré, e alla possibilità di esercitare il
mero e misto imperio.
Gli atti della segreteria di Hernando, vicario per il Val di Noto, consentono di entrare nel funzionamento di questa struttura decentrata e, soprattutto, di ricostruire i meccanismi operativi grazie ai quali il Vega riesce a portare a compimento in pochi anni un ambizioso programma di bastionamento. I compiti affidati al vicario per l’esecuzione delle opere di fortificazione sono i seguenti:
- assistenza agli architetti militari incaricati di redigere i progetti di bastionamento;
- appalto dei lavori e controllo dello stato di avanzamento delle opere;
- creazione di una struttura amministrativa, articolata su tre uffici, per la gestione della spesa e la tenuta della contabilità;
- effettuazione di ispezioni continue per controllare i conti degli appaltatori e la qualità delle opere;
- reclutamento della mano d’opera necessaria ricorrendo ad un macchinoso sistema di lavoro obbligatorio tramite quote da ripartire tra le diverse università (“angarie” di feudale memoria), liste di consegna e controllo degli “algoziri”;
- attivazione di flussi finanziari a carico delle università per integrare e incrementare i fondi girati dalla segreteria del viceré.
Conseguenze della morte del Ferramolino
La morte del Ferramolino ─ il quale affiancava alla sua frenetica attività di progettista e di direttore dei lavori delle fortificazioni siciliane e maltesi anche la gestione di alcuni appalti come quello relativo allo scavo dei fossati della città di Catania ─ spiana la strada all’ingegner Prado, che è inviato presso Hernando Vega per lavorare sulle fortificazioni del Val di Noto. L’incarico al Prado di progettare le fortificazione delle città di Siracusa, Augusta, Catania e di altre fortezze del regno è conferito dal viceré Vega nell’aprile del 1551. Hernando, a sua volta, si affretta a ordinare al Prado di iniziare il suo lavoro dedicandosi in un primo momento alla definizione della fortificazione di Noto. Il 20 maggio 1552 comunica al magnifico Briczio Sortino, «provisori frabicarum civitatis Nothi», che «multo presto si conferirà illoco lo magnifico ingigneri Prado a lo quali havimo scritto chi sindi vegna per fari lo designo et tracza di la fortificacioni di quista cità». Il 2 giugno la missione dell’architetto a Noto è resa operativa con la comunicazione che non solo il progetto sarà consegnato immediatamente ai responsabili dei lavori, ma che sarà anche inviato un maestro muratore con l’incarico di prendere in concessione i lavori che dovranno essere avviati immediatamente. Tutte le opere saranno appaltate dopo la determinazione della base d’asta e i ribassi di aggiudicazione, che saranno concordati con l’intervento dei giurati, del sergente maggiore e dei responsabili delle opere, sotto la supervisione dello stesso Hernando. Prado lavora anche al progetto di fondazione di Carlentini, realizzando i relativi piani esecutivi: si ricava dalle istruzioni date da Hernando a Giovanni Agnes, soprastante delle “fabriche” della nuova città, nelle quali si ribadisce che deve lavorare «secundo lo designo et tracza fatti per lo magnifico ingigneri Prado». Vega affida all'ingegnere Prado anche la progettazione dei lavori di fortificazione di Malta, come si rileva da una relazione dell’architetto nella quale fa il punto dello stato dei lavori per la costruzione del forte di Sant’Elmo e segnala al viceré tutti i punti deboli delle fortificazioni e, soprattutto, la necessità di rafforzare le mura poste a difesa del borgo.
Hernando non si limita a centralizzare la progettazione delle nuove fortificazioni con un ingegnere scelto dal viceré e a incidere sulle procedure degli appalti posti a carico delle singole comunità locali con ufficiali di sua fiducia, ma esercita un monitoraggio continuo sull’andamento dei lavori, creando presso ogni “fabrica” una struttura operativa articolata su tre diversi uffici, che risponde direttamente a lui e sulla quale esercita un ferreo controllo ispettivo. Il primo ufficio, costituito dai “deputati della fabrica”, ha il carico del coordinamento politico tra il vicario e i giurati dell’università, dell’affidamento degli appalti, della liquidazione dei mandati, della pubblicazione dei bandi necessari per l’esecuzione dei lavori; il secondo, incardinato sulla figura del “depositario”, ha il compito di gestire la tesoreria della “fabrica”, sia riscuotendo le somme assegnate per la realizzazione dell’opera sia effettuando i pagamenti tramite il credenziere, previa acquisizione del mandato emesso dai “deputati”; il terzo, infine, ha il controllo tecnico della realizzazione della “fabrica” grazie all’opera sia del “provisore”, al quale spetta ─ quale direttore dei lavori ─ l’organizzazione del lavoro e la trasposizione sul terreno del progetto, sia del “soprastante-capo mastro”, un vero e proprio direttore di cantiere. La conservazione degli atti, la registrazione della corrispondenza e le altre incombenze necessarie alla segreteria dei depositari, sono affidate ad un notaio.
Questi “officiali” hanno una forte dipendenza gerarchica dal vicario, il quale, non solo li nomina, ma anche gli impartisce continue e minuziose istruzioni esercitando, nel contempo, una verifica sul loro operato grazie all’invio di soprastanti di propria fiducia e al controllo dei conti. Le numerose “istruzioni” redatte da Hernando, contestualmente alla lettera patente di nomina dell’incaricato, permettono di percepire che si esercita un controllo il più ampio possibile sull’attività della “fabrica”, con richiesta di informazioni sull’andamento dei lavori, la corrispondenza tra il progetto e la realizzazione, la qualità dei materiali adoperati e la corretta tenuta dei conti.
Queste strutture hanno tutte le caratteristiche che permettono di attribuire alle stesse una natura pubblicistica, in quanto: i responsabili sono nominati dal vicario al quale sono subordinati gerarchicamente, ricevono un salario per lo svolgimento del loro lavoro, sono soggetti ad un controllo amministrativo mediante la verifica dei conti, devono sottoporsi a continue ispezioni per il controllo degli obiettivi assegnati.
Le istruzioni date al provisore Antonio Gargana e ad Aurelio de Gulfi e Pietro Falsone, deputati della “fabrica” di Siracusa, permettono di conoscere l’organizzazione dei cantieri e il controllo sulla loro attività.
In primo luogo si determina il bacino territoriale dal quale far venire i lavoratori che devono prestare servizio obbligatorio nei lavori della città, che in questo caso è costituito da Mililli, Sciortino, Francofonte, Militello, Mineo, Vizini, la Serra, Palazzolo, Buscemi, Avola, Modica, Scicli, Chiaramonte, Ragusa, Monterosso, Comiso, Palagonia, Caltagirone, Licodia, Spaccaforno, Giarratana, Castrogiovanni e Calascibetta. Questi operai (106 guastatori e 30 “pirriaturi”), dopo che saranno registrati negli appositi elenchi, saranno affidati per due mesi agli appaltatori del cantiere del “belguardo di Laurobella” sui quali graverà il pagamento dei salari.
I deputati della fabbrica devono controllare che gli appaltatori del bastione lavorino ogni giorno con 20 muratori, mentre per la costruzione del muro del fossato si devono e impiegare quotidianamente almeno 12 muratori. Non si precisa il numero degli animali da soma da utilizzare per trasportare la terra che servirà a “terra plenari” il bastione, ma si raccomanda di adoperare a tal fine tutte le risorse finanziarie che perverranno nelle casse delle depositario. Nel caso in cui sarà necessario avere la disponibilità di un numero maggiore di operai, se ne dovrà fare richiesta alle sopraelencate città.
I pagamenti devono essere effettuati mediante “polizza” firmata sia dai deputati che dal provisore, in modo che tutti siano informati dei flussi di cassa. Si deve porre attenzione non solo al rispetto dei tempi previsti nel contratto per l’attuazione dei lavori da parte degli appaltatori, ma anche alla qualità del materiale usato e in modo particolare alla calce che deve essere impastata con sabbia di ottima qualità.
Le predette istruzioni fanno emergere in primo luogo che Hernando Vega deve affrontare e risolvere il problema organizzativo del reclutamento delle forze lavoro necessarie per realizzare in tempi sufficientemente rapidi le diverse “fabriche” aperte sul territorio. L’ingaggio di maestri muratori, di tagliatori di pietra, di centinaia di manovali, di bestie da soma con i loro conduttori, non è un’impresa facile da realizzare in un mercato del lavoro asfittico come quello siciliano, che ha la necessità di manodopera per produrre frumento non solo per l’alimentazione del Regno, ma, soprattutto, per l’esportazione. Il costo del lavoro, senza una regolamentazione da parte della Regia Corte, lieviterebbe senza alcun controllo e i salari da corrispondere agli operai sarebbero così elevati da rendere impossibili i lavori di bastionamento. Hernando risolve il problema introducendo il ricorso al lavoro obbligatorio, imponendo alle singole università l’onere di fornire una certa aliquota di lavoratori da destinare ai cantieri di una “fabrica”, disciplinando il funzionamento di queste vere e proprie “angarie” con un minuzioso regolamento supportato dal ricorso agli “algoziri” (ufficiali di polizia) e alle corte penali dei capitani.
Tra le tante lettere di Hernando, dove si affrontano queste tematiche ve n’è una del 28 febbraio 1552, che chiarisce meglio i termini strutturali ed organizzativi della “leva” della manodopera. Il vicario, sulla base delle relazioni dei suoi ingegneri, determina che sono necessari per la “fabrica” di Siracusa almeno 500 guastatori e, non trovandoli nella città, dispone «farili veniri da li infrascritti chita et terri da lu ditto Valli [Val di Noto] li quali jqua farremo pagari di li dinari di ditti frabici ad raxuni di tarì 1 grani 3 lu iorno per ogni uno». Il vicario non vuole lasciare nulla al caso, pertanto si preoccupa di fissare le aliquote di lavoratori che ciascuna città del Valle deve fornire per i lavori di Siracusa. La lettera è notificata non solo ai giurati delle singole università, ma anche all’algozirio Leotta di Librandi, «a lu quali havemo comiso et ordinato chi iunctamenti cum vui digia eligiri et pigliari li ditti guastaturi zoè da omni chità et terri lu numero subta scripto et a quilli farili fari di ordini nostro ni minori subta pena di quattro tratti di corda oi di unzi dechi applicandi a lo regio fisco». L’intervento di un ufficiale di polizia, qual è l’algozirio, e la minaccia di una sanzione, costituiscono la riprova che Hernando è convinto della riottosità delle comunità a aderire all’ordine di inviare un certo numero di operai nei cantieri aperti a Siracusa per la costruzione delle fortificazioni.
Ninni Giuffrida
Per le fonti e la bibliografia di questa scheda cfr. Antonino Giuffrida, La fortezza indifesa e il
progetto del Vega per una ristrutturazione del sistema difensivo siciliano, in Mediterraneo in armi
(secc. XV-XVIII), a cura di Rossella Cancila, Quaderni di Mediterranea 4, Tomo I, 2007.