Appunti per una storia della Sicilia in età moderna – scheda X
Supporto di intelligence e creazione della nuova milizia
L’altro pilastro sul quale si costruisce il progetto della modernizzazione del sistema militare siciliano, è costituito dalla realizzazione di un efficace sistema di raccolta delle informazioni che danno la possibilità di essere informati sull’andamento dell’armamento della flotta ottomana, sugli spostamenti della stessa nel Mediterraneo e sugli avvistamenti delle “vele” lungo il litorale siciliano, in modo da prevedere tempi e luoghi dei possibili sbarchi.
La possibilità di disporre di notizie tempestive sui progressi dell’armata “turchesca” costituisce un punto chiave della strategia di difesa, in quanto bisogna avere il tempo necessario per radunare le milizie e spostarle sul luogo del prevedibile sbarco. Anche in questo caso si procede a mettere a punto un sistema nel quale avviene un continuo scambio di informazioni tra centro e periferia. Il flusso informativo è organizzato su quattro livelli diversi: il primo elabora le notizie che provengono dal levante, principalmente, tramite Venezia; il secondo tiene conto degli avvisi di informatori pagati direttamente dalla Regia Corte siciliana; il terzo utilizza i rapporti che provengono da esploratori ─ soldati spagnoli ─ imbarcati su imbarcazioni veloci che battono i mari intorno alla Sicilia e che hanno contatti anche con informatori che vivono sulle coste africane; il quarto si serve di posti di avvistamento collocati lungo le coste siciliane e costituiti sia da torri, sia da pattuglie di esploratori a cavallo.
Questi quattro livelli non costituiscono delle monadi, bensì si integrano tra loro fornendo al viceré un flusso di informazioni che giungono sul suo tavolo, dandogli il quadro complessivo degli spostamenti della flotta turca e permettendogli di decidere lo spostamento delle truppe siciliane per linee interne.
Mentre i primi tre livelli sono gestiti direttamente dal viceré che smista gli allarmi verso la periferia, la gestione della vigilanza delle coste è demandata ai vicari, in quanto i tempi di reattività tra l’avvistamento e la diffusione dell’allarme di un possibile sbarco devono essere rapidissimi, per dare la possibilità, non solo di armare gli uomini ma anche di mettere al sicuro la popolazione più esposta e, soprattutto, di salvare il bestiame.
La ricostruzione del funzionamento del sistema di vigilanza
La ricostruzione del funzionamento di questo sistema di vigilanza può essere fatta scorrendo le diverse istruzioni, spedite da Hernando ai giurati delle diverse città poste sotto la sua giurisdizione, dalle quali si rileva che esiste un quadro complessivo dei punti strategici da vigilare e un piano per la diffusione su tutto il territorio, nel modo più rapido possibile, delle notizie.
Il 29 febbraio del 1552 Hernando invia Diego Peres a controllare la situazione del sistema di avvistamento che serve la costa da Siracusa a Spaccaforno. Questa lettera fornisce alcuni dati che chiariscono il funzionamento del sistema il cui punto di forza è costituito dai “cavallari” ─ esploratori a cavallo ─ che hanno il compito di segnalare l’avvistamento di “veli”: «di jorno fazano tanti signali con lo fumo, di nocti con lo foco quanto serrà lo numero de li veli». È determinato anche, l’itinerario che i corrieri devono percorrere per diffondere la notizia. Se l’avvistamento è avvenuto a Spaccaforno il corriere deve andare a Noto, da qui ad Avola e, successivamente a Siracusa; nell’eventualità in cui le vele siano segnalate nella marina di Noto, devono partire due corrieri uno per Spaccaforno e uno per Avola; per un avvistamento nella marina di Avola un corriere deve recarsi a Siracusa e un altro a Noto e da qui a Spaccaforno. Luoghi di avvistamento e tempi di percorrenza dei corrieri sono stati studiati in modo da permettere la diffusione delle notizie in poche ore.
Le istruzioni a Giovanni Peres de Sandoval per un’ispezione «in lo poneri di li guardii et cavallari per li turri et marina de val di Notho» ci forniscono ulteriori informazioni sul funzionamento del sistema. Le istruzioni fanno riferimento all’obbligo della terra di Avola di individuare, con l’apporto di Sandoval, i “cavallari” necessari per la vigilanza della marina, requisendo, nel caso in cui sia necessario, i cavalli da impiegare, specificando che tutte le spese saranno a carico della terra, che potrà utilizzare il patrimonio comunale oppure imporre una tassa. La trasmissione delle notizie deve avvenire utilizzando segnali di fumo, durante il giorno, e di fuoco durante la notte, con l’obbligo di «respundiri a quelli fochi et fumi che appariranno per li altri lochi et turri». L’ispezione deve interessare anche Noto (marina), Spaccaforno, Scicli, Biscari, Terranova e le torri di Stanpachi, Vindicari, Capo Passaro, isola delle correnti, per stabilire dove rinforzare la vigilanza e ribadire gli obblighi che incombono sulle guardie.
Ancora una volta sulla periferia grava l’onere di gestire uno dei momenti più delicati del piano di difesa militare: l’avvistamento del nemico e, soprattutto, la circolazione delle notizie. Tutte le spese sono a carico dei comuni che devono assicurare, sotto la loro responsabilità, la qualità del servizio perchè una smagliatura nel sistema di avvistamento e di segnalazione, ovvero un ritardo nel trasmettere per corriere le notizie, avrebbero potuto avere delle conseguenze disastrose.
Un altro dato che emerge dalla corrispondenza di Hernando è l’importanza che si attribuisce alla costruzione di un sistema efficiente di comunicazioni, senza il quale l’intero meccanismo di prevenzione e di difesa, messo a punto dal Vega, non funzionerebbe. Segnali di fumo e fuochi, accesi nella notte, trasmettono notizie essenziali sugli avvistamenti delle “vele” nemiche, mentre i corrieri, che tessono l’intero territorio, portano lettere, istruzioni, avvisi e, certamente, contribuiscono alla circolazione delle “nuove” sui più importanti avvenimenti dei quali diventano testimoni. Un sistema che deve funzionare senza ritardi anche quando Hernando si sposta nel Valle, come si deduce da una lettera ai giurati di Siracusa, nella quale si ordina che: «capitandovi litteri di la excellencia sua [il viceré Vega] di chi comendamo la diligencia vostra et vi incarricamo chi di qua innanti capitandovi litteri di la excellencia sua per mi ni li debeati di subito per correri apposta tramentiri». Il mondo dei corrieri siciliani è gestito da privati ai quali si rivolgono le istituzioni, i mercanti, gli ordini religiosi. La corrispondenza di Hernando aggiunge un nuovo tassello alle conoscenze del funzionamento del servizio nella prima metà del sec. XVI, ovverosia che le città hanno dei propri corrieri dei quali si serve anche la Regia Corte. Ricordo Giovanni Antonio di Sciacca “curreri di la cità di Mazara”, Pietro de Mixancza “curreri di la cità di Siracusa”, oltre a molti altri corrieri dei quali si trova labile traccia nei documenti, quasi un rumore di fondo al quale nessuno fa caso in quanto parte essenziale del quotidiano e che nel 1579, anno dell’istituzione dell’ufficio del “corriere maggiore”, passa sotto il controllo della Regia Corte. Un mestiere poco conosciuto ma essenziale per il funzionamento dell’economia e, soprattutto, per un’efficace azione del governo del territorio.
La nuova milizia
La costruzione del progetto di Vega si completa con l’istituzione di una milizia territoriale, dotata di un discreto livello di addestramento militare, che dovrebbe opporsi agli sbarchi e costituire un credibile deterrente per impedire che le scorrerie ottomane penetrassero in profondità sul territorio.
I contemporanei del Vega percepiscono questa riforma come una novità ─ non per nulla si usa per identificarla l’aggettivo “nova” contrapponendola alla “vecchia” ─ che ha una positiva ricaduta sul bilancio del Regno in quanto limita il ricorso alle compagnie, costituite da militari professionisti spagnoli o italiane, il cui costo incide in modo rilevante sulla Tesoreria. Le parole di Giovanni Sollima, Maestro razionale del Regno la cui carriera copre un arco temporale di circa quarantacinque anni (1516─1563), costituiscono un importante indicatore del giudizio che si ha sull’operatività della “nova militia”:
Di la nova milicia introducta per lo condam illustrissimo Joan de Vega per lo servicio di la cesarea Maestà et tuicione del regno quel che servio Joan Sollima è notorio et più in obstari che se dovessi susteniri si ben per altri se havesse procurato lo contrario per chi como è stato dicto nirisulta grandissimo servicio ad sua Maestà et non meno beneficio al Regno per evitari chi non vegnano al Regno in caso di necessità fantaria italiana inutili como forzatamenti se fachia veniri per lo passato chi dava grandissima despesa a la corte di farili veniri et susteniri et cussì di remandarle chi la milicia del Regno fa multo più effetto et cum pochissima dispesa di la corte per chi si pagano solamenti per lo tempo che serviranno et passata la necessità si retorneranno alloro casi et non si pagano più genti di quilli che veramenti sonno et di minor dispendio chi l’exteri si pagavano.
Anche in questo caso il Vega si rifà a modelli operativi ampiamente sperimentati sia in Europa sia in Italia. Infatti, come ben chiarisce Del Negro:
l’alba dell’età moderna fu, in ogni caso, segnata dal tentativo di inventarsi un format militare di ‘massa’ di integrare cioè ─ e al limite sostituire ─ i professionisti della guerra all’italiana (ad esempio, come scriveva Philippe de Commynes, «la terribile banda di gente d’arme assoldata», che in Francia Carlo VII aveva raccolto «a imitazione dei signori d’Italia») con fanterie pesanti di tipo svizzero e di dotarsi anche di milizie urbane e, soprattutto rurali, che combattessero come i fanti della Confederazione o che in ogni caso utilizzassero le armi ‘di popolo’ affermatesi tatticamente tra Quattro e Cinquecento, vale a dire le picche, le alabarde, gli archibugi e le altri armi da fuoco portatili. Armi che, diversamente, ad esempio degli archi lunghi impiegati fagli inglesi, non esigevano un prolungato addestramento e l’acquisizione di una tecnica più o meno sofisticata, ma permettevano di militarizzare ─ e quindi di mobilitare ─ in tempi brevi il numero sempre più rilevante di uomini preteso dagli sviluppi della guerra moderna.
Gli stati italiani, tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, sperimentano la creazione di “milizie” nelle quali far confluire, soprattutto, gli uomini del contado, con incerti risultati. L’opera del Machiavelli l’Arte della guerra (1521), dà un ulteriore impulso al tentativo di integrare le “masse” in un esercito che deve superare la logica medievale della frammentazione e della differenziazione.
La milizia del Vega è definita dai contemporanei e da lui stesso con l’aggettivo “nuova” per distinguerla dalla realtà, precedentemente esistente, costruita dal Pignatelli e dal Gonzaga con il coinvolgimento del Parlamento. Confrontandosi con i modelli italiani e dovendo fare i conti con la difficoltà di reperire i finanziamenti necessari al pagamento delle compagnie italiane o spagnole, i viceré pensano di ridurre il numero dei militari professionisti presenti nell’isola e di integrare le difese territoriali con una leva di “massa” da effettuare in tutte le città e terre dei tre Valli, con esclusione delle grandi città.
La rilettura del lungo preambolo pronunziato dal viceré Ettore Pignatelli nel corso del Parlamento straordinario celebrato a Palermo nel marzo del 1532 evidenzia i motivi politici e strategici per i quali si deve ricorrere a questo “servizio” da porre a carico delle città e delle terre siciliane.
Il Pignatelli muove la sua argomentazione drammatizzando il pericolo di una probabile invasione da parte “dell’Armata marittima del Turco”, ed esponendo le difficoltà del Regno a far fronte al pericolo, in quanto il sovrano non dispone delle risorse finanziarie necessarie per reclutare le truppe per il presidio dell’isola. Ricorda, quindi, l’impegno di Carlo V nei confronti della difesa della Sicilia, per la quale «have fatto e fa continuamente grande dispesa … non solo erogandece tutti li introiti ordinari et extraordinari di questo Regno ma etiam con vendere continuamente delli proprij soi intrati regali». L’intervento termina con la proposta di realizzare una leva di dieci o dodici mila fanti siciliani da affiancare alle milizie feudali. Ogni città e terra contribuiranno alla leva per quota e la fanteria sarà richiamata in servizio solo nel caso in cui le coste siciliane saranno minacciate da una possibile invasione della flotta turca, in caso contrario «non sarrà necessaria ditta fantaria né per tale effetto conseguirse dispendio alcuno». Le argomentazioni del viceré sono condivise e recepite dai rappresentanti dei tre bracci, che all’unanimità deliberano:
divisi fari per la tuicione et guardia di quisto prefato Regno un numero di diecimila fanti oriundi siciliani, di li quali ni offerixi dui mila lo Bracchio spirituali, et che li capisquatra siano di li propri terri et li capitanij, alferi et sargenti siano del Regno oriundi ad elettioni di vostra illustrissima signoria … li quali havessero da servire per mesi doi di quando loro partiranno di li propri casi et manco di ditti dui misi si manco sarà bisogno a li quali si ci haggia di dari la paga di tarì vintiquattro lo misi che sarà scuti dui per fanti cum li avantaggi di li alferi zoè a li capitani scuti sei et ali altri officiali scudi quattro per ogn’uno etiam diggiano andari a serivi in caso di notabili invasioni in Regno di la Armata de Turcho. Et chi li fanti si fazzano sutta la descrittione di li casi di lo Regno fatta in tempo di don Giovanni di Lanuça pro ratha per la summa di dieci milia tantum.
Le spese della milizia
Le spese del funzionamento della milizia, previsto per la durata di due mesi, saranno sostenute dai “facultusi” di ogni centro abitato secondo la seguente ripartizione: 2.000 a carico del Braccio ecclesiastico e i rimanenti 8.000, divisi in due quote di 4.000, graveranno sui Bracci militare e demaniale.
Il Parlamento del 4 maggio del 1534 proroga per altri tre mesi il “servizio” (il prelievo fiscale autorizzato) da utilizzare per la leva di diecimila fanti necessaria per far fronte ad un eventuale attacco della flotta turca. Si precisa che devono essere rispettate tutte le disposizioni di cautela approvate nel precedente atto parlamentare.
Il Barbarossa passa con la sua flotta lontano dalle coste siciliane e «non fu bisogno essequirsi lo pagamento di ditti fanti, si non d’alcuni pochi»; tuttavia nel Parlamento del 1534 il viceré, pressato dalle necessità finanziarie legate alla difesa dell’isola, propone la proroga del “servizio” con la clausola che le somme raccolte potessero essere utilizzate per le altre esigenze della guerra d’Africa.
È evidente che la creazione di una “milizia territoriale” non sia ben vista né dalla feudalità, che vede insidiato il suo privilegio di rappresentare l’unica struttura militare che possa affiancare le compagnie estere, né dai “facultusi”, che sarebbero costretti ad un’ulteriore pressione fiscale per il pagamento del funzionamento di questa nuova realtà. Un progetto che non piace a nessuno e che i viceré fanno approvare dal Parlamento esclusivamente per ottenere risorse finanziarie da dirottare e per finanziare la guerra d’Africa.
Ninni Giuffrida
Fonti
Antonino Giuffrida, La fortezza indifesa e il progetto del Vega per una ristrutturazione del sistema difensivo siciliano, in Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), a cura di Rossella Cancila, Quaderni di Mediterranea 4, Tomo I, 2007.