Leviatano
Il coronavirus e l’imprevedibile attualità del celebre saggio di Hobbes
Una pandemia così devastante come quella del Covid-19 non si vedeva dalla comparsa della Spagnola del primo dopoguerra (fece oltre 20 milioni di morti): un evento drammatico di cui sembrava persa memoria, almeno nel dibattito pubblico. Si parla spesso delle tragedie politiche che seguirono la prima guerra mondiale, dimenticando che ai morti di quella guerra bisognerebbe aggiungere quelli dell’epidemia.
Rimane sempre misterioso identificare cosa fa sì che un evento rimanga impresso nella memoria collettiva ed un altro invece risieda nella memoria di (relativamente) pochi. In questo caso possiamo azzardare che la Spagnola sembrava un episodio proveniente dal mondo antico, avvenuto all’inizio della modernità novecentesca. Oggi sappiamo che non è cosi.
La risposta sociale all’epidemia Covid-19 è stata quasi ovunque in linea con le risposte che tradizionalmente le società europee hanno dato a questi fenomeni pestilenziali: cure individuali – che adesso sono diventate efficacissime – e risposte sociali, quali quarantena, lockdown, mascherine. In continuità con quanto sperimentato in passato e con lo stesso carico di conseguenze. Se questa è la strategia di contenimento dell’epidemia, adottata da diversi Paesi, essa è stata realizzata in modi differenti: dalla militarizzazione di ampie provincie in Cina all’invito alla moral suasion in Svezia. Fortunatamente in molti Paesi, tra cui il nostro, non si è assistito ad una militarizzazione del territorio, ma alcuni fenomeni di controllo sociale, come la criminalizzazione dei passeggiatori, sono stati fenomeni preoccupanti.
La popolazione ha accettato la privazione delle proprie libertà civili a fronte della promessa della salvaguardia della propria salute. Nel giro di un paio di giorni gli italiani si sono ritrovati di buon grado – almeno nelle prime settimane – rinchiusi nelle proprie case. La televisione trasmetteva a reti unificate un bollettino quotidiano sul numero dei morti e dei contagi. Numeri certamente altissimi e inquietanti ma abbastanza aleatori, perché il numero di contagiati veniva riportato senza alcuna indicazione relativa al numero dei tamponi effettuati né del campione scelto per effettuare questi test. Campione che variava comunque di regione in regione, di nazione in nazione. Ne risultava un numero del tutto inaffidabile e probabilmente sottostimato di almeno un ordine di grandezza, ma sufficiente a gettare nel panico gran parte della popolazione. Inquietanti scene di bare trasportate dall’esercito venivano continuamente trasmesse. La pandemia era l’unico argomento che facesse notizia.
La paura della malattia, più forte di qualunque altro sentimento, plasmava di sé tutta la nostra socialità. La paura è un sentimento forte, fortissimo. Forse quello con manifestazioni più simili a quelle che vediamo negli altri mammiferi. Se si ha paura si scappa o ci si rifugia, appunto, nelle tane. La paura umana è però differente e spesso si manifesta sotto forma di stress, timore dell’ignoto, come possibilità, difficilmente valutabile, di un dramma che ci colpisce direttamente. Un sentimento che non pare essere conosciuta nel mondo animale (con l’eccezione dei soliti cani, che forse dovremmo derubricare a ibridi interspecifici). È in nome di questa paura che siamo stati disposti a rinunciare a tutto ciò che ritenevamo irrinunciabile. Il fenomeno è stato discusso nei termini dello “stato di eccezione” di Carl Schmitt e alcuni filosofi come Giorgio Agamben si sono avventurati a negare l’effettiva consistenza della pandemia per giustificare le loro tesi sulla natura del potere.
Pochi hanno fatto riferimento ad un classico del pensiero politico moderno che questi fenomeni descrive benissimo e che con la situazione attuale sembra tornare di attualità: Il “Leviatano” di Hobbes (1651/1658). Come è ben noto, il saggio descrive la situazione in cui gli individui impauriti cedono libertà e diritti in cambio della preservazione dell’esistenza e della possibilità di vivere una “vita piacevole”. L’autore conosce bene l’animo umano: “Le passioni che inducono alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di ottenerle con la propria operosità”. La pace è il risultato dello scambio, che ci consente una vita piacevole dove la nostra vita non è in pericolo e in cui possiamo godere di alcune libertà. E per “libertà”, Hobbes intende “assenza di opposizione (per opposizione voglio dire impedimenti esterni al movimento)”. Un’idea apparente semplice e banale di libertà ma che coglie un punto essenziale. Chi è libero si sposta dove vuole. Ed è questa libertà che abbiamo dovuto cedere per lenire la nostra (fondata) paura di rimanere vittime del Covid-19. I cittadini spaventati cedono le loro libertà al Leviatano, definito come “colui che non ha paura”. Ci si potrebbe chiedere perché non ha paura, forse perché nessuno gli è uguale, forse perché non parla la lingua degli uomini. Anzi non parla affatto. Il sovrano parla la lingua, non il Leviatano, che è un soggetto artificiale. Chi parla la lingua conosce la paura di ciò che può succedere, gli esseri artificiali no. Il Leviatano conosce le nostre paure, nasce da esse ma non le vive.
Il Leviatano sembrava destinato ad essere sorpassato come modello teorico, almeno nelle nostre società, sconfitto dalla globalizzazione dal nostro spostarci liberamente nel mondo, dalla assoluta supremazia delle ragioni economiche su quelle politiche. I nostri Stati e i loro rappresentanti sembravano impersonare attori, simulacri vuoti impegnati a recitare il rito del governo. Il coronavirus ha risvegliato, nel Leviatano, un’insospettata capacità di risorgere. La politica ha preso il sopravvento sull’economia almeno per un po’ e presto bisognerà trovare un nuovo equilibrio tra politica ed economia, e continuiamo a sperare in una maggiore integrazione europea. Cosa succederà non possiamo saperlo. Ogni situazione di crisi lascia aperta diverse possibilità, una sola è però esclusa: il ritorno alla situazione precedente.