Beirut, 5-14 agosto 2018
Il Libano è da mesi senza Governo. Sa’d al-Hariri incaricato di formare il nuovo governo dopo le ultime elezioni parlamentari del 6 maggio scorso, che hanno visto la vittoria dei movimenti politici legati alla Resistenza libanese ed ai gruppi musulmani shi’iti, nonché dei partiti cristiani alleati degli Hizb Allah,non riesce ancora a mettere insieme una compagine governativa, nonostante le sollecitazioni del presidente della Repubblica libanese, il generale cristiano maronita Michel ‘Awn, alleato degli Hizb Allah ed amico del Governo siriano. Sa’d al-Hariri, musulmano sunnita di Sidone, è debole politicamente, ma è l’unico candidato possibile in questo momento. Appartiene ad una grande famiglia musulmana sunnita, il padre è stato per lunghi anni alla fine della guerra civile, primo ministro. La Costituzione libanese, costruita dai Francesi prima che il Libano ottenesse l’indipendenza, prevede che il presidente della Repubblica sia cristiano maronita, il presidente del Parlamento musulmano shi’ita, il capo del governo sia musulmano sunnita. La Francia, come è noto, durante il Mandato tra le due guerre mondiale in Siria e Libano aveva fondato la sua politica regionale sulle divisioni confessionali (al-ta’ifiyyah) e pertanto la Costituzione del Libano indipendente tenne conto dei desiderata francesi (cfr. Geoges Corm, Il Libano contemporaneo. Storia e società, trad. italiana Jaca Book 2006).
Oggi 2018, la maggioranza della popolazione libanese è musulmano shi’ita, tanto che lo stesso leader di Hizb Allah, Sayyid Hasan Nasr Allah va ripetendo, e a ragione: We are modestly the largest party in Lebanon, but we have the least representation in the political power. Se si tiene conto di ciò, si comprende il motivo per cui le tradizionali famiglie politiche libanesi respingono le proposte di legge elettorale proporzionale, anche se corretta sulla base delle comunità confessionali presenti nel territorio. Sa’d al-Hariri prende tempo. Attende la dichiarazione formale di vittoria del presidente siriano Bashar al-Asad, mentre l’esercito siriano e i suoi alleati (Russia, Iran, Hizb Allah libanese) si preparano alla battaglia finale per la liberazione di Idlib e della sua provincia (a Nord ovest della Siria), ultima enclave siriana ancora in mano ai gruppi armati jihadisti e takfiriyya. Qui naturalmente l’accordo tra Russia e Turchia deciderà le modalità dello scontro finale e della liberazione della provincia di Idlib. Ma l’attesa non favorisce il Libano. I tempi dell’attesa di Sa’d al-Hariri si allungano e aprono maglie sempre più inquietanti per pressioni esterne: americano-francesi, israeliane, saudiane (i Saudiani sono tradizionali amici della famiglia al-Hariri), iraniane e siriane. Bisogna tenere conto 1) esiste il problema dell’organizzazione del ritorno di centinaia di migliaia di profughi siriani in Libano (pare che siano più di un milione). La Russia si è impegnata con il governo libanese in carica di garantire il ritorno ordinato e programmato entro i prossimi mesi con l’accordo del Governo siriano. 2) L’inizio della ricostruzione materiale delle città e delle zone della Siria interessate dalle distruzioni causate da 7 anni di guerra, enormi per esempio, a Aleppo dove la città antica e i mercati storici sono completamente rovinati. Il Libano non può lasciarsi sfuggire l’occasione di partecipare alla ricostruzione. Se a tutto ciò si aggiunge la politica aggressiva di Israele nei confronti del Libano e della sua Resistenza Hizb Allah, l’ostilità mostrata dall’amministrazione americana con le nuove sanzioni finanziarie contro lo stesso Hizb Allah, il maggiore movimento politico libanese, come si è ricordato, e partito di governo, si può capire che la situazione sociale ed economica dei libanesi, naturalmente la parte più debole della popolazione, sia quest’anno difficile e pesante soprattutto nella capitale e la regione circostante. Qui il costo della vita è salito vertiginosamente rispetto allo scorso anno ed un caffè espresso da Costa si paga in questi giorni 4 dollari. Gli effetti negativi si notano visibilmente; ad essere penalizzati sono soprattutto i giovani, i lavoratori, gli impiegati pubblici, i ceti medi. Mentre la mancanza di Governo accresce le preoccupazioni e l’ansia per il futuro. Inoltre il taglio del contributo americano all’Unrwa (The United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East ) , organizzazione dell’ONU considerata dall’amministrazione Trump anti-israeliana, aggrava la realtà socio-economica delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi che vivono già in situazioni precarie nei campi in Libano, costretti ad abbandonare la Palestina nel 1948 e poi nel 1967. L’intreccio tra crisi libanese, questione siriana, problema palestinese è chiaro, basta stare seduti per accorgersene qualche ora in un bar di Hamra, lo storico quartiere musulmano di Beirut, dove la presenza di siriani e di iracheni è numerosa e dove si discute di Arabismo (al-‘uruba), e lo fanno i musulmani ed i cristiani. D’altra parte è a Hamra che è sito il principale Centro Studi sull’Unità Araba, ed è Beirut la capitale araba dove giovani di tutte le tendenze e confessioni si mobilitano, nonostante la crisi, a sostegno della Resistenza araba in generale, contro le politiche americano-israeliane e contro i movimenti takfiriyya, e della Resistenza palestinese in particolare.
Anche qui a Beirut, in questi giorni, si fa cenno alla crisi della lira turca ed agli effetti che tale crisi potrebbe avere sul piano socio-economico interno libanese e regionale, considerata la numerosa ed antica immigrazione turca in Europa e i profondi rapporti che la Turchia e le banche turche hanno stabilito non solo con l’Europa (l’Italia tra gli altri), ma con i paesi arabi e musulmani. Naturalmente i libanesi, che su temi come questi hanno sempre uno sguardo empirico, non gioiscono, nonostante che essi non nutrano simpatia per i Turchi e per Erdogan. Per motivi storici, legati alla presenza ottomana; per motivi attuali, legati alla posizione dei governanti turchi di fronte alla crisi siriana a partire dal 2011. Tutti riconoscono che la Turchia e Erdogan sono scesi in campo a sostegno dei gruppi armati jihadisti, insieme al nutrito gruppo di amici/nemici occidentali degli Arabi a sostegno della cosiddetta primavera (al-rabi’ al-‘arabi). Primavera che qui in genere viene considerata tale a sfottò, aggiungendo che il vero fruitore delle primavere è Israele. Non gioiscono, poiché, come pare di capire, questa crisi della lira turca sopraggiunge nel momento in cui, dopo 7 anni, Erdogan ed il suo entourage, uscito rafforzato dalle recenti elezioni politiche in Turchia, spingono per una politica estera più autonoma, per l’avvicinamento alla Russia ed all’Iran sul piano economico e su quello del riassetto regionale nel Vicino Oriente. Negli ultimi tempi Erdogan sembra avere accolto infatti l’idea russo-iraniana della salvaguardia dell’unità e della sovranità della Siria, seppur in un quadro dove non mancano contraddizioni ed ambiguità. Non entro nel merito della situazione economico-finanziaria della Turchia odierna. Non la conosco, e, a differenza di quanti pretendono averne cognizione, non ho gli strumenti per analisi del tipo economico-finanziario. Ma qualche considerazione politica mi piace fare. Non sono tra quelli che ha in simpatia Erdogan, prima e dopo il 2011, e non per il fatto che il presidente turco sia un dittatore ed un negatore del “laicismo” (grandi fesserie). Ho dato atto a Erdogan di avere favorito almeno nei primi anni del suo governo il nuovo sviluppo economico turco, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più emarginate della Turchia. Ma considero inaccettabile certa politica del suo partito “islamista” volta ad imporre attraverso l’islamizzazione delle istituzioni turche, comprese le Università, il proprio predominio all’interno e nella regione.
Da Ataturk in poi, il ceto politico turco non ha mai brillato per scelte democratiche; ha brillato invece per liberalismo economico antipopolare. Lo sviluppo della Turchia repubblicana è stato costellato da scelte capitaliste senza freni, da una politica sociale a favore dei ceti ricchi e urbanizzati, da una emigrazione verso l’Europa (Germania in particolare) dei poveri contadini e degli oppressi d’ Anatolia. Tutto ciò, compresi i colpi di Stato militari, la feroce repressione delle minoranze (e non solo i Curdi), un sistema autoritario da tutti accettato, la profonda ineguaglianza sociale, accadeva (non c’era ancora Erdogan) nel contesto dell’occidentalizzazione senza limiti, favorita dai gruppi politici dirigenti, e del cosiddetto laicismo conclamato ai quattro venti. Ma non se ne parlava o se ne parlava assai poco: la Turchia infatti assolveva fedelmente ai suoi doveri di paese Nato, anticomunista prima ed anti russo dopo. Il laicismo poi…meglio lasciar perdere. Esso è servito da ombrello a tutte le porcherie, sociali e militari, compiute dai ceti dirigenti turchi, dentro e fuori la Turchia. Coloro che si riempiono la bocca di una Turchia laica ataturchiana, dovrebbero studiare meglio il laicismo nella storia moderna dell’Europa, dove nel passato si è affermata in genere la separazione tra Stato ed Istituzioni ecclesiastiche, ad opera delle borghesie europee in ascesa, ma dove assai più problematico è ancora oggi il problema della separazione tra politica e religione. L’Italia, ma non solo l’Italia (vedi anche gli States), rappresenta un esempio di tale incompiuta separazione. Spesso invece si difende un carattere “laico” della Turchia contemporanea seguendo il teorema dei ceti ricchi turchi, arroganti e corrotti, ma assai ben visti dall’Occidente poiché “laici” e soprattutto al servizio dell’impero americano. Non vorrei sbagliarmi, ma temo che la crisi finanziaria che oggi investe la Turchia sia in parte creata ad arte. Lo scopo sarebbe quello di destabilizzare sul piano sociale la Turchia e creare le premesse per un nuovo intervento delle alte gerarchie militari fedeli alla Nato. Esso, se riuscisse, verrebbe salutato dai Governi d’Occidente e dalla sinistra europea soft e pragmatica (leggi globalista) come il ripristino del “laicismo”. Se poi detto laicismo è al servizio della Nato e degli Americani, poco importa. Importa che venga abbattuto il neo-ottomanesimo e il nuovo principe dei credenti, altra fesseria costruita negli ultimi anni dagli analisti ed esperti occidentali.
A Beirut leggo un interessante saggio del pensatore algerino Malik Ibn Nabi (m. 1973) sulla necessità della riforma della società musulmana. Il saggio fu scritto nel 1949, all’indomani della Nakba palestinese del 1948, ma le idee di Malik Ibn Nabi si rivelano di grande attualità, soprattutto quelle riguardanti la crisi e la decadenza del mondo musulmano e la proposta per il superamento dello stato di entità colonizzabili, all’interno delle quali vivono le società musulmane ed arabe fin dalla caduta della dinastia degli Almohadi del Nord Africa (metà del sec. XIII).
La storiografia araba classica, di tutte le tendenze, tende in genere a considerare il lungo periodo storico che seguì al califfato ben ispirato dei primi 4 califfi (632-661), come quello del mulk. Questo è termine arabo che ha a che fare con la visione personale del potere, con l’affermazione del potere dinastico, e quindi è considerato sistema politico-istituzionale negativo dai musulmani. Una definizione del passaggio dal califfato ben ispirato al mulk la offre il su citato Malik Ibn Bani in “Vocazione dell’Islam”. Riporto il brano seguente, tratto dalla traduzione francese dell’opera qui citata (Vocation de l’Islam):
Cette inversion ne fut d’ailleurs pas instantanée: elle marque l’aboutissement lointain de la rupture de Siffin (anno 657), qui avait substitué le pouvoir dynastique au pouvoir démocratique khalifal et creusé ainsi un fossé entre l’Etat et la conscience populaire. Cette séparation contenait en puissance tous les séparatismes futurs, toutes les antithèses politiques au sein de l’Islam (p. 30)”… “Ce point marque l’inversion des valeurs musulmanes en non-valeurs. Cette inversion ne fut d’ailleurs pas instantanée: elle marque l’aboutissement lointain de la rupture de Siffin, qui avait substitué le pouvoir dynastique au pouvoir démocratique khalifal et creusé ainsi un fossé entre l’Etat et la conscience populaire. Cette séparation contenait en puissance tous les séparatismes futurs, toutes les antithèses politiques au sein de l’Islam.
Aprire la finestra sulla storia e su un passato lontano della storia dell’Islam è operazione di grande importanza. Il principe degli Orientalisti italiani, Leone Caetani (m. 1935), l’aveva capito benissimo, lavorando ai suoi voluminosi ed immortali Annali dell’Islam. Attraverso il ritorno alla storia dei primi tempi dell’Islam, considera Malik Ibn Nabi, è possibile comprendere gli sviluppi successivi e guardare ad un futuro in cui l’uomo musulmano torna ad essere agente quale membro di una società comunitaria, capace di liberarsi dal pesante fardello dell’individualismo in cui è stato costretto da troppo lungo tempo. Dove esiste oggi – sottolinea Ibn Nabi – un uomo di cultura che definisce se stesso indigeno (indigène) ? In ciò consiste lo stato di colonizzabilità in cui si trova l’uomo musulmano. Certo la storia dell’Islam ha visto dal XIII secolo ai tempi moderni l’affermazione di grandi dinastie, come quella Ottomana prima in Anatolia e nei Balcani e poi nel mondo arabo e mediterraneo a partire dagli inizi del XVI secolo. Ma la crisi e la decadenza, connotate secondo la definizione di Ibn Nabi, rimangono un fatto dato mentre l’Islam si trasformava sempre più in un fenomeno cristalizzato e rituale popolare, come dimostra, secondo l’autore algerino, la diffusione del marabuttismo e delle credenze ad esso collegate.
Leggendo Ibn Nabi, mi torna in mente allora l’opera del siciliano Tommaso Fazello (sec. XVI) ed alcuni brani della sua Storia di Sicilia riguardanti l’impresa di Carlo V in Nord Africa e contro Tunisi nel 1535. Quell’impresa offre un esempio di colonizzabilità (non era ancora l’epoca del colonialismo) in cui versava il mondo musulmano. Soprattutto Tommaso Fazello, storico cristiano, offre con dovizia di particolari una fedele rappresentazione di quella impresa imperiale contro il mondo musulmano.
Mi piace riportare in conclusione il brano in cui si descrive la presa di Tunisi:
i soldati, non appena entrati in città (Tunisi), infiammati dall’avidità di bottino, si gettarono all’improvviso su chiunque si facesse loro incontro e trucidarono miseramente tutti.. Ma poiché re Hasan cominciò a piangere e a pregare per i suoi, Carlo imperatore, rivolto ai suoi uomini disse: ..mettete fine al massacro, pena la morte!. Quando l’ordine venne eseguito, Hasan riscattò a prezzo d’oro dalla schiavitù molti saraceni a lui legati. In quel tumulto, una donna nobile per nascita, ma ancor di più per forza d’animo, di nome Asa (forse ‘A’isha), essendo stata catturata dagli spagnoli, s’imbattè in re Hasan e, volendo questi pagare per lei il riscatto, accesa d’ira, sputò in faccia al sovrano e proruppe in queste parole: maledetto sia tu, Hasan, che per riavere il regno abbandonasti nel modo più crudele la tua patria e i tuoi concittadini al saccheggio e al massacro ! Via di qua, tiranno: non voglio che sia tu a comprare la mia libertà. Che preferisco vivere e morire schiava per sempre con la mia patria! E di nuovo coprendolo di sputi e avendogli lanciato molti altri insulti nella lingua del luogo, gli voltò le spalle e si allontanò indignata ( vol. II, p. 748).
Nel 1537 di ritorno da Tunisi, Carlo V era a Palermo per un trionfo di cui restano a testimonianza le quattro figure di turchi incatenati nella Porta Nuova della città. La fierezza però sprigiona da quelle figure. L’ammiratore di oggi, ignaro, non penserebbe, fatto paradossale, all’immagine della loro umiliazione, considerata la bellezza dei volti e dello sguardo. Ma certo quella porta apre su un passato lontano in cui già il mondo musulmano si offrì colonizzabile.