Breve storia dell’inchiostro – Parte Terza
L’inchiostro al di fuori del mondo europeo: l’esperienza degli egiziani e dei cinesi
Inchiostro egiziano
In Egitto, nelle antiche scritture parietali erano usati inchiostri colorati (rosso, blu, verde ecc.), ottenuti sciogliendo delle terre colorate nell’acqua: gli Egiziani furono uno dei pochi popoli che scrivevano lunghi testi sulle pareti con colori sempre diversi. A volte si limitavano a dipingere sulla nuda pietra, altre preparavano la superficie con una stuccatura che rendeva la parete liscia e regolare, pronta a accogliere la scrittura geroglifica. Gli Egiziani ricavavano l’inchiostro nero dalla fuliggine delle lampade, mentre quello rosso era ottenuto con della terra rossa sciolta nell’acqua ed era usato per scrivere i titoli dei capitoli ed i nomi dei faraoni e degli dei; era inoltre utilizzato per mettere in evidenza certi passaggi del testo, la quantità delle droghe nei papiri medici (Papiro Ebers, Papiro Smith, ecc.), per scrivere i colophon, ed infine nella punteggiatura, che altrimenti si sarebbe confusa con gli altri segni geroglifici (Allen 2014, 657; Posener 1951). In sintesi, come ha osservato G. Posener, in tutte le epoche, l’inchiostro rosso è stato sempre utilizzato con gli stessi scopi:
1) mettere in evidenza;
2) dividere (titoli rubricati);
3) isolare;
4) differenziare
Inchiostro cinese
I più antichi esempi di inchiostro cinese risalgono alle tracce di scrittura e ai disegni in nero o a colori su ossa, pietra, argilla, bambù, legno, seta e carta, datati tra il XIV secolo a.C. e il IV secolo d.C. L’invenzione dell’inchiostro è tradizionalmente attribuita a Wei Dan, citato nella letteratura cinese come uno dei suoi primi utilizzatori. Narrano le cronache che rifiutò l’inchiostro datogli dall’imperatore preferendone usare uno che aveva prodotto lui stesso, per ottenere una scrittura migliore. Xiao Ziliang, principe del sud, durante la dinastia Qi (479-502), scrive che l’inchiostro fatto da Wei Dan era come la lacca. Prima di questo, le cronache letterarie narrano che nel II secolo a.C. l’inchiostro era offerto alla corte degli Han (206 a.C. – 220 d.C.) come tributo da varie città. Prima della dinastia degli Han, l’uso dell’inchiostro non era comunque molto raro. Poiché non esistono riferimenti relativamente all’uso dell’inchiostro nero al tempo degli Zhou anteriori (I secolo-771 a.C.), le ricerche archeologiche hanno evidenziato l’uso di una sorta di liquido, nero e rosso, utilizzato nel periodo neolitico e durante la dinastia Shang (1520-1030 a.C.). Le analisi chimiche su alcune iscrizioni oracolari su ossa, indicano che il nero era una mistura di carbone mentre il rosso era composto con il cinabro. Nel passato erano comunque utilizzati anche altri pigmenti per la pittura e la scrittura. Generalmente il rosso era realizzato con il cinabro e il vermiglio. Il cinabro è un prodotto naturale conosciuto nell’antica letteratura cinese come dansha o zhusha, e utilizzato dagli antichi alchimisti come medicina per la longevità. Il vermiglio invece era prodotto dalla pietra di vermiglio, polverizzata e immersa in acqua. Il rosso era anche preparato mescolando mercurio e solfuro.
L’inchiostro di nerofumo
Alcuni autori moderni (Tsien 1987, 2004) ritengono che fin dai tempi più antichi i Cinesi conoscessero e utilizzassero il nerofumo per fare l’inchiostro. Analisi condotte su alcuni reperti della dinastia Shang (1520-1030 a.C.) dimostrerebbero che le iscrizioni in nero erano realizzate con un inchiostro a base di carbone. Scritti posteriori narrano che l’inchiostro di nerofumo era ottenuto bruciando la resina e alcune parti del legno di pino. Per ottenere un colore nero più forte, erano poi aggiunti alla preparazione altri ingredienti. Per proteggere lo scritto e rendere l’inchiostro permanente, erano aggiunti corteccia di cen (Fraxinus pubinervis, bl.), pelle di melograno, bianco d’uovo e vetriolo blu. Infine, per nascondere l’odore della colla, l’inchiostro era profumato con muschio, canfora o patchouli. Durante la dinastia degli Han (206 a.C. – 220 d.C. ) e dei Jin (265-280), l’inchiostro era chiamato wan e mei. Una fonte del periodo degli Han registra che «una porzione piccola e una porzione grande di mei di inchiostro Yumei [fatto con legno di pino dalle montagne di Yumei], era data ogni mese agli alti ufficiali della corte». L’inchiostro era utilizzato anche come medicina.
Gradualmente, la resina di pino fu sostituita dall’olio, come dichiara il Mo-fa tsi yao, scritto nel 1398 da Chen Ki-souen. Per ottenere il nerofumo a partire dall’olio, era necessaria una strumentazione complicata e sofisticata, come dimostra l’opera citata di Chen Ki-souen. In particolare erano necessari:
– un evaporatore: un vaso di terracotta molto solido a forma rotonda con i bordi esterni e a fondo piatto;
– delle lampade: piccole coppe fatte di pietra;
– degli stoppini: fatti di canna tagliata a strisce, che in realtà erano una sorta di treccia, che serviva per l’accensione e per fare bruciare l’olio;
– i coni: fatti di una pasta abbastanza dura, posati sulle lampade per raccogliere il nerofumo; il tubo flessibile posto sopra era lungo tre pollici; l’interno tondo era in forma di cupola ed era perfettamente liscio.
Lampade, stoppini e coni erano posti negli evaporatori, i quali erano dieci o più, in una camera ben illuminata e chiusa, dove le mura erano coperte da tendaggi destinati a impedire la fuga di polvere. Una volta che le lampade erano state accese, bisognava evitare nella camera tutte le correnti d’aria. Ogni ora, dovevano essere cambiati i coni: si procedeva quindi a ritirare il nerofumo che contenevano con l’ausilio delle barbe di una piuma d’oca. Poi questo doveva essere setacciato e conservato in scatole di carta di bambù e posto in una stanza priva di umidità. Il nerofumo doveva essere estremamente fine e leggero per essere considerato di buona qualità
L’antico inchiostro di nerofumo, con alcune modifiche, è anche il più comune e contemporaneo inchiostro di china. Questo non è altro che la forma portoghese di China (pronuncia: šìnḁ), letto alla maniera italiana, quindi propriamente «(inchiostro di) Cina». È ottenuto sospendendo il nerofumo in una soluzione acquosa di gomma lacca, borace e gelatina (Zerdoun Bat-Yehouda 1983, 55-56).
Il legante
Dal legante dipendeva la gran parte della qualità dell’inchiostro. La miglior fuliggine mescolata a un cattivo legante non poteva che produrre un inchiostro inutilizzabile. Il legante era una colla ottenuta da corna di cervo, utilizzo appreso dai Coreani, considerato il migliore, di daino e dello stesso rinoceronte, quindi pelle di bue, asino o di pesce, o dagli scarti della lavorazione della pelle (Zerdoun Bat-Yehouda 1983, 57-58). Questi elementi erano immersi in acqua e quindi bolliti. Il prodotto ottenuto era poi filtrato con una garza di seta o di cotone per ottenere un liquido chiaro. La colla di corna di bue necessitava di una diluizione in acqua di almeno un mese; la colla di pesce si preparava allo stesso modo, utilizzando le scaglie delle carpe, messe in acqua, ma solo per un giorno. La proporzione tra la colla e il nerofumo era una segreto custodito dagli artigiani. In un testo tardo si dice che il nerofumo e la colla erano mescolati in parti uguali, ma le proporzioni variavano da artigiano ad artigiano.
Gli additivi
Oltre ai due ingredienti di base, il nerofumo e il legante, i Cinesi aggiungevano numerosi additivi al solo fine di migliorare l’inchiostro. Questi raggiungevano una cifra impressionante: oltre 1.100, e già nelle ricette del V secolo si trovano menzionati il bianco d’uovo, il cinabro, l’infuso di corteccia e muschio. I prodotti più frequentemente citati nella letteratura cinese sono (Zerdoun Bat-Yehouda 1983, 58-59):
corteccia di tch’en (sorta di cenere), la sua infusione colora di blu-verde e possiede la proprietà di sciogliere la colla e di rinforzare il colore. Il rattan e il bianco d’uovo sono considerati dei rafforzativi;
vetriolo di ferro verde, che intensifica la colorazione nera, ma corrompe la colla;
laspislazzulo blu, il quale decompone la colla e toglie la forza.
La lacca
Molti studiosi cinesi e Occidentali ritengono che la nascita della lacca segua quella dell’inchiostro, ma in tempi recenti altri hanno affermato che l’utilizzo della lacca preceda quello dell’inchiostro. In realtà l’origine della lacca per scrivere è ancora oggi dubbia e non esistono prove archeologiche di un suo uso antico per scrivere (Tsien 2004, 187-190). Nell’antica letteratura cinese riferimenti all’utilizzo della lacca si trovano in scritti posteriori al V secolo d.C. Scrive Fan Ye: «Du Lin (m. 47 d.C.) ha trovato a Xizhou un rotolo con un’antica versione del Libro dei documenti scritto con la lacca». Un altro riferimento alla scrittura con la lacca si trova nell’opera di Fang Xuanling (576-648) che descrive delle tavolette di bambù del III secolo a.C., scoperte nel 280 d.C. «scritte con la lacca». La lacca utilizzata per fare l’inchiostro si ricava dalla resina del sommacco cinese (Rhus vernicifera L.), albero che porta da allora lo stesso nome della lacca. La resina del sommacco trasuda naturalmente dall’albero o è ottenuta incidendo il tronco; quando estratta è di un colore biancastro, che diventa rapidamente brunastro una volta esposto all’aria.
L’inchiostro di pietra
Parallelamente al presunto utilizzo della lacca, o in un secondo tempo, gli scribi cinesi utilizzarono un inchiostro ottenuto diluendo una specie di pietra nera chiamata che-mo, letteralmente inchiostro di pietra. Questo fu utilizzato per lungo tempo, probabilmente dal periodo della dinastia Zhou (XI secolo-221 a.C.) fino alla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), ma alcune testimonianze ne parlano anche nel V secolo d.C. e lo cita anche uno scriba del XIV secolo d.C. Alcuni autori ritengono che questa pietra fosse in realtà grafite o solfuro d’ammonio, tanto che nella lingua cinese moderna che-mo significa grafite (Tsien 2004, 189-190; Zerdoun Bat-Yehouda 1983, 47-48).
La tavoletta d’inchiostro
Probabilmente l’inchiostro sotto forma di tavoletta da diluire al momento di scrivere era utilizzato fin dai tempi più antichi. Per preparare il liquido che serve, era impiegato un mortaio di marmo, o anche di altri materiali, in cui si versava qualche goccia d’acqua pura nella quale era bagnato con delicatezza il bastoncino d’inchiostro che si sfregava dolcemente e lungamente sulle pareti del mortaio. La forma dell’inchiostro prima della dinastia Qin (221-206 a.C. ) non è chiara, ma probabilmente si presentava sotto forma solida fin dai tempi più antichi, come riportato da Zhuang zi il quale scrive che l’inchiostro era mescolato prima di usarlo e come testimoniano alcuni ritrovamenti archeologici di piccoli cilindri porta-inchiostro (Tsien 2004, 186-187). Le più antiche tavolette per sciogliere l’inchiostro sono state rinvenute in una tomba risalente alla dinastia Qin (221-206 a.C.) a Shuihudi, Hubei, nel 1975. Sono costituite da un ciottolo, di forma oblunga ma irregolare, lungo 6,8-7 cm, largo 5,3-6 cm e spesso 2 cm. Occasionalmente erano utilizzati anche altri materiali, come la giada, il cristallo, l’argento, il ferro, il bronzo, conchiglie, e occasionalmente anche il bambù e il legno. Lo Xijing zaji narra che l’imperatore usava una tavoletta di giada perché l’acqua versata su di essa non congelava (Tsien, 2004, 193). La tavoletta a forma di tripode era probabilmente utilizzata durante la dinastia degli Han (206 a.C. – 220 d.C. ) come mostra una pittura murale di Wangdu.
Opere citate
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* Leggi anche la parte prima e la parte seconda della “Breve storia dell’inchiostro” a cura di Carlo Pastena