Buccellato o cucciddatu? Qualche idea sull’origine del nome del dolce siciliano natalizio
Il cuccidatu è uno dei dolci siciliani tipici del periodo natalizio. Fatti di pasta frolla e di un delizioso ripieno di fichi secchi, mandorle e cioccolato, si prestano alla lunga conservazione. Non chiara rimane però l’origine del nome.
Il cucciddatu, protagonista delle festività natalizie
I cucciddati, o buccellati, sono un dolce tipico natalizio della tradizione siciliana. Nascono da uno squisito connubio di materie prime di origine contadina (i fichi, le mandorle, le arance), di golosità (il cioccolato), e di croccantezza (il biscotto che avvolge il ripieno).
Come ogni piatto della tradizione, è difficile stabilire con esattezza la ricetta, poiché essa si trova in versioni differenti nelle varie parti dell’isola e ognuno rivendica l’originarietà della propria. Non mancano, infatti, le varianti con il ripieno di fichi secchi, con o senza zuccata (la zucca candita), con le mandorle al posto dei fichi secchi, o la marmellata di cedro, l’uva passa, i pinoli, o ancora la conserva di mele cotogne; addirittura il melone giallo.
Non esiste neppure una versione “ufficiale” per quanto riguarda l’aspetto: presso le pasticcerie e le panetterie siciliane non mancano il buccellato a forma di grande ciambella, lucido e decorato con frutta candita e diavolini colorati, oppure i cucciddatieddi, ricoperti di glassa o di zucchero a velo. L’unica cosa sulla quale non si discute è il ruolo del dolce all’interno della tradizione natalizia siciliana: immancabile dopo i lauti pasti delle festività e tentazione irrefrenabile nei tempi morti o tra una tombola e un gioco di carte.
I rituali della preparazione del buccellato
Quasi rituale è, invece, l’usanza della preparazione dei cucciddati, che ancora resiste in alcune comunità dell’isola e in alcune famiglie.
La caratteristica della lunga conservazione del dolce metteva in moto e fermento, già dagli inizi di dicembre, le donne – spesso insieme nel vicinato – le quali si adoperavano per realizzarne il più possibile, sfruttando ciò che si era ottenuto dall’estate (fichi, mandorle, zucche) e la disponibilità dei panettieri. Che, dopo aver sfornato il pane, concedevano la possibilità di cuocere i biscotti e i buccellati nel forno ancora caldo. Poi i dolcetti venivano conservati in ceste coperte da panni. Immagini di qualche decennio fa certamente, ma che sono ancora vive nella memoria di molti siciliani.
L’origine del nome: il buccellatum e la controversa ipotesi latina
Interessante, sebbene meno golosa, è la storia del dolce, o meglio del nome.
In siciliano il dolce è chiamato cucciddatu e, in buona parte dei dizionari di lingua siciliana, l’etimologia è fatta risalire al termine latino buccellatum cioè un «pane da trasformare in buccelli», ossia bocconi. Il termine compare nell’Historia Augusta, tra gli alimenti del legionario romano, il quale si nutriva di lardo, buccellato e aceto.
Il buccellatum è citato anche nel Rerum Gestarum di Ammiano e persino nel Codex Theodosianus. [1]. È facile supporre che il cucciddatu sia un discendente diretto della pietanza d’età romana. Una prova di ciò sarebbe poi l’esistenza di un cugino del dolce siciliano, il buccellato lucchese, solitamente di forma tonda più simile a un pane con uva passa e semi di anice. Tuttavia, questa filiazione del cucciddatu dal buccellatum appare strana e sospetta, a volte un po’ forzata. Viene da chiedersi inizialmente, come sia possibile che nell’evoluzione della parola la “B” di buccellatum si sia trasformata nella “C” di cucciddatu.
Gli studiosi di linguistica rispondano, per favore: proprio per questo strano fenomeno linguistico viene da pensare che l’origine del nome cucciddatu sia da ricercarsi altrove.
L’origine del buccellato dallo spagnolo “cuchillo”
La parola è molto più simile al termine spagnolo cuchillo (coltello).
Infatti, il dolce viene tagliato: sia nella versione a forma di ciambella per essere mangiato, sia nella versione a tozzetti prima di essere infornato. Il nome cucciddatu potrebbe essere quindi riferito proprio alla pratica di tagliarlo, magari con un coltello (una cuchillada), quindi il dolce sarebbe un cuchillado, un cucciddatu appunto.
Al momento non è semplice dimostrare questa genesi del nome. Tuttavia è sicuro che un dolce dalle fattezze barocche – ingredienti poveri e teatralità nella presentazione – possa essere più corrispondente a un gusto spagnoleggiante siciliano che a un antico residuo romano. Non è detto, però, che una teoria debba necessariamente escluderne l’altra. Bisogna inoltre ricordare che tra Sette e Ottocento si verificarono fenomeni di “toscanizzazione” di alcuni termini siciliani, a partire dall’editto di Carlo III di utilizzare come lingua ufficiale del Regno l’italiano. [2] Ritroviamo traccia di questo processo anche nella Tariffa doganale del 1802, dove i termini erano riportati in «denominazione Toscana». [3]
Buccellato o cucciddatu resta il fatto che anche durante queste feste, nonostante le complicazioni di una pandemia in corso, non mancherà nelle tavole siciliane questo delizioso dolce.
Note in appendice: [1] «…et praeter laridum ac buccellatum atque acetum militem in expeditione portare prohibuit et si aliud quippiam repperit luxuriem non levi supplicio adfecit» (Historia Augusta: Avidio Cassio, V.3). «Sed ut est difficultatum paene omnium diligens ratio victrix, multa mente versans et varia id tandem repperit solum, ut anni maturitate non exspectata barbaris occurreret insperatus firmatoque consilio XX dierum frumentum ex eo, quod erat in sedibus consumendum, ad usus diuturnitatem excoctum bucellatum, ut vulgo appellant, umeris inposuit libentium militum, hocque subsidio fretus secundis, ut ante, auspiciis profectus est, intra mensem quintum vel sextum duas expeditiones consummari posse urgentes et necessarias arbitratus» (Ammiano, Rerum gestarum, XVII.8.2). «…repetita consuetudo monstravit expeditionis tempore buccellatum ac panem, vinum quoque atque acetum, sed et laridum, carnem verbecinam etiam, milites nostros ita solere percipere: biduo buccellatum, tertio die panem; uno die vinum, alio die acetum; uno die laridum, biduo carnem verbecinam» (Codex Theodosianus, VII.4.6). [2] Il testo del dispaccio si trova presso l’Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASPa) nel fondo della Real Segreteria, Incartamenti, busta 2568; ma è citato anche in V. Sciuti Russi, Il Supremo Magistrato di Commercio in Sicilia, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», 1968, pp. 361-362. Si veda anche F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale 1734-1816, in Storia della Sicilia, R. Romeo (a cura di), Napoli, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, 1978, v. 6, p. 203. [3] ASPa, Secrezia di Palermo, b. 2012, Tariffa Generale, p. 9.