Bufale sul web. Può la storia essere un buon antidoto?
Come docente del TFA le domande a cui ho dovuto rispondere di frequente è su cosa possa servire la storia e come si debbano motivare gli studenti a studiarla. Le risposte sono tante e alcune sono di gran lunga più rilevanti di quanto si dirà in poche righe. Tuttavia va ricordato che i social network hanno favorito la diffusione di notizie e informazioni, amplificando quanto già in atto con internet. È soprattutto all’interno di Facebook che la prolificazione di “bufale” e di notizie inventate o distorte ha trovato il suo terreno favorevole. In Italia si aggiunge l’attività semplificatrice dell’antipolitica a buon prezzo, che parla alla pancia più che indurre alla riflessione.
Prendiamo l’esempio degli ultimi giorni precedenti il referendum delle “trivelle”: mentre era in atto un’ondata polemica contro il Presidente del Consiglio per la sua posizione, illudendosi che il referendum potesse dare una spallata al governo, la bufala che è circolata è stata la mancata stretta di mano del re di Norvegia al primo ministro italiano. Addirittura si è diffusa la voce di una conferenza stampa tenuta da re Harald V nella quale avrebbe spiegato che il suo gesto sarebbe nato per contestare le politiche rovinose per l’Italia di Renzi. Naturalmente tutte sciocchezze: è vero che Renzi ha tentato di dare la mano al sovrano al termine del picchetto d’onore, incorrendo in un errore protocollare perché in quel caso è il re a dare la mano. Peggio ancora è la notizia che un re possa tenere una conferenza stampa nella quale attaccare la politica interna di un paese. Si è mai vista la regina Elisabetta rispondere a un fuoco di fila di domande di giornalisti? La conoscenza di cosa è un cerimoniale, della sua genesi tra Medioevo e Età moderna a partire dalla corte dei pontefici avrebbe forse potuto tenere a freno giudizi affrettati e insegnato a leggere correttamente quanto avviene in un incontro tra capi di stato.
L’episodio è solo l’ultimo in ordine di tempo. Veniamo ad altri esempi che utilizzo nei corsi di didattica della storia. Da alcuni anni circolano foto di David Cameron mentre viaggia in piedi in metropolitana. Le immagini sono utilizzate periodicamente come esempio della malapolitica italiana: mentre i nostri politici spendono in autoblu, ecco che altrove gli uomini di governo si recano ai loro posti di lavoro con mezzi pubblici. Ora, tutto ciò può essere vero (o lo è stato) per i tranquilli paesi delle democrazie nordiche, ma non certo per l’Inghilterra, un paese che ha conosciuto negli anni ’70 il feroce terrorismo dell’Ira (con la morte anche di esponenti della famiglia reale) e che successivamente ha subito violenti attacchi di terrorismo islamico. Figuriamoci quindi se a un premier inglese sia consentito di andare in giro in metropolitana! La verità è che quelle foto di Cameron facevano sia parte di una campagna a favore dell’uso dei mezzi pubblici in occasione delle Olimpiadi ( http://metro.co.uk/2012/07/30/david-cameron-and-jacques-rogge-use-public-transport-at-london-2012-515087/ ), sia dell’epoca precedente al premierato, quando il politico inglese scalava il partito conservatore.
Altra foto che ha avuto ampia circolazione è quella diffusa da un sito che per ironia della sorte inneggia alla informazione come forma di resistenza: è un manifesto contro gli americani con un’immagine di una ridente piazza di Kabul con il commento che quella era la condizione dell’Afghanistan precedentemente al loro intervento. A parte l’evidente qualità da anni ’70 della foto, in realtà è noto che, nonostante i danni arrecati dagli Stati Uniti, Kabul era una città ormai distrutta a seguito dell’intervento sovietico nel 1979, per la successiva durissima guerra civile, nonché per il regime dei Talebani, notoriamente non particolarmente tenero per i monumenti del proprio paese.
Ultimo esempio, forse anche più interessante, è la nascita di un vero e proprio mito che oltre ai social network ha avuto la sua amplificazione grazie anche a note trasmissioni televisive: la “ricetta islandese” al problema del debito sovrano. Si sarebbe trattato della via islandese alla crisi economica che sarebbe consistita soprattutto nel non sostenere banche fallite e nel rifiuto di pagare il debito pubblico, contrariamente a quanto stava accadendo negli altri paesi occidentali… Il silenzio degli ultimi tempi che è calato sulla “eroica scelta islandese” probabilmente è correlato alla circolazione di tutt’altre notizie: primo, non era affatto vero che l’Islanda aveva disconosciuto il proprio debito pubblico; secondo, soltanto alcune banche non erano state salvate e comunque i crediti ampiamente saldati; terzo, tutte le operazioni sono avvenute sotto l’occhio del FMI che ha finanziato i gravi problemi economici dell’isola dietro una attenta politica di austerità; quarto, una delle vie per rivitalizzare l’economia del paese è stata un’intensificazione della pesca con mezzi da far invidia ai giapponesi, già noti per essere poco rispettosi dell’ambiente marino.
Che ha che fare tutto ciò con la Storia? Può essa essere utile a smascherare le bufale e soprattutto a guidare in un mondo bombardato di informazioni? Per alcuni casi esposti più che le conoscenze storiche basterebbe un po’ di buon senso e un minor furore giustizialista. Però mi piace ricordare, e lo ricordo a chi è destinato a insegnare Storia ai più giovani, che il mestiere di storico e il suo metodo sono un buon esercizio per la valutazione e la verifica delle informazioni. Nelle Lezioni di metodo storico Chabod indicava come su ogni informazione e documento lo storico debba esercitare il “dubbio metodico”, soprattutto individuando da quale parte proviene il “documento” o, nel nostro caso, l’informazione. Certo, nella ricostruzione storica – lo ricordava sempre Chabod – c’è una dose di soggettività, ma anche in quella dimensione soggettiva a mio giudizio l’arbitro di ogni operazione storica dovrebbe restare l’onestà intellettuale, valore che negli ultimi anni ritengo stia diventando assai raro. Chabod indicava, come operazione, di vagliare se il documento contenesse contraddizioni tali da poter essere ritenuto nato o dall’ignoranza o dalla mala fede. A maggior ragione, quindi, insegnare a valutare un avvenimento non è poca cosa per i giovani di oggi. Da questa semplice constatazione mi è sorto un dubbio: l’invito dell’estate scorsa del vicedirettore di un giornale dallo spiccato gusto giustizialista, alle famiglie italiane di non iscrivere i figli alle facoltà umaniste ritenendole inutili, non favorisce proprio l’estinzione di ciò che deve essere il fondamento educativo dei giovani, cioè la capacità valutativa e di divenire quindi lettori critici?