Il bullo perde il pelo ma non il vizio: interviene la peer education
Uno studente su cinque dichiara di essere stato vittima di bullismo e le ragazze rappresentano la percentuale maggiore
Prepotente, sicuro di sé, usa la violenza verbale e fisica e non agisce quasi mai da solo: è il bullo. Crede di essere inattaccabile ma gli strumenti messi in campo per contrastare il fenomeno sono tanti e non passano tutti dalle punizioni.
I dati Istat oggetto dell’indagine conoscitiva alla commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza sono chiari: più del 50% degli intervistati tra gli 11 e i 17 anni (1.687) riferisce di essere rimasto vittima, nei 12 mesi precedenti l’intervista, di un qualche episodio offensivo, non rispettoso o violento. Una rilevazione significativa. Le ragazze presentano una percentuale di vittimizzazione superiore rispetto ai ragazzi, oltre al 55%.
Quello del bullismo è un fenomeno in continua evoluzione che non bada, per i metodi di sopraffazione messi in atto, alle differenze socio-culturali di provenienza delle famiglie: il bullo è tale anche con il rolex al polso.
«Non credo che sia differenza legata al contesto culturale di fondo perché gli effetti sono uguali per tutti i giovani. Il fenomeno è lo stesso, ma è il modo in cui reagiscono le famiglie al bullismo che è diverso».
A dire la sua, sulla base di una lunga esperienza sul campo, è Valeria Catalano, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Colozza-Bonfiglio di Palermo: «Laddove c’è un contesto in cui i ragazzi sono abituati a difendersi da soli o comunque a vivere senza la presenza dei genitori capaci di incidere, i ragazzi pensano che sia la legge del più forte a regnare tra di loro. Mentre in un contesto svantaggiato e degradato la famiglia si mette sulla difensiva, rifiutando il anche il confronto con le istituzioni, minimizzando l’accaduto – aggiunge Catalano – nelle situazioni di cosiddetto benessere sono subito pronti a chiamare avvocati e per far difendere i loro figli».
La scuola è tra i luoghi che maggiormente si prestano alla formazione di gruppi che possono interagire tra loro in modo violento e i campanelli d’allarme non sfuggono agli occhi di chi li osserva ogni giorno: gli insegnanti. «Alla vittima spariscono oggetti, si lanciano minacce velate e basta il suo sguardo di terrore per capirlo. Noi – spiega la dirigente – lo notiamo dal clima sociale che c’è nella classe. Anche l’utilizzo di espressioni prevaricatrici è un indicatore. Significa che la classe ha agito in quel modo per la presenza degli insegnanti, che fungono da mediatori In un contesto in cui non ci sono adulti, probabilmente, quelle stesse espressioni potrebbero sfociare anche in una violenza più accesa, magari fisica».
Anche le nuove tecnologie a disposizione dei ragazzi, internet o telefono cellulare, sono divenute ulteriori mezzi attraverso cui compiere e subire prepotenze o soprusi. Da qui la necessità, per disporre di un quadro preciso del fenomeno, di monitorare anche il cyberbullismo cioè l’invio di messaggi offensivi, insulti o foto umilianti tramite sms, e-mail, diffuse in chat o sui social network, allo scopo di molestare una persona per un periodo più o meno lungo.
Quella attuale è la prima generazione di adolescenti cresciuta in una società in cui l’essere connessi in rete rappresenta un dato di fatto, un’esperienza quotidiana indipendente dal contesto sociale di provenienza: nel 2019, l’87,3% dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni di età ha utilizzato quotidianamente il telefono cellulare.
Anche in questo casi i risultati per il mondo femminile sono allarmanti perché il 7,1% delle ragazze che si collegano ad Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni continue tramite Internet o telefono cellulare, contro il 4,6% dei ragazzi.
L’educazione al rispetto della donna è proprio uno dei pilastri su cui si fonda la direzione didattica di Valeria Catalano che mette in luce quanto esistano ancora contesti deprivati culturalmente in cui la figura femminile sin da piccola viene soggiogata al rispetto del dominio maschile. «Quando sono prese di mira le ragazze queste infatti tendono a non fare emergere il disagio, il fatto accaduto, passando per ordinaria la sensazione di umiliazione che una donna deve subire», conclude la dirigente. Quella a dover essere alimenta è quindi l’autostima delle persone sin da giovani.
Se le punizioni non bastano, a meno che non ci sia una collaborazione fattiva della famiglia che accompagni il bullo in un processo di redenzione, la prevenzione risulta essere necessaria ma non del tutto sufficiente.
«I ragazzi credono a quello che vedono» ad affermare ciò è Maria Lisma, psicologa dell’Asp di Trapani, tra le fautrici di un metodo educativo che usa il canale emotivo ed esperienziale dei coetanei: è la cosiddetta peer education “l’educazione tra pari”. Come un gioco di scambio di ruoli, gli studenti si pongono al centro del sistema educativo con le loro testimonianze dirette. Una sorta di laboratorio sociale, in cui condividere, sperimentare attività, migliorando l’autostima e le abilità relazionali e comunicative: “quello che sta succedendo a te è già successo a me”.
L’educazione fra pari ha luogo in piccoli gruppi o con un contatto individuale e in molteplici posti: in scuole e università, circoli, chiese, luoghi di lavoro, sulla strada o in un rifugio o dove i giovani si incontrano.
Il sistema scolastico italiano, più ancorato a tradizionali strategie educative, ha disposto dall’anno 2020-2021 il reinserimento dell’educazione civica tra le materie oggetto di valutazione, affidandone l’insegnamento in modo trasversale ai vari docenti competenti per materia.
Costituzione, sviluppo sostenibile e cittadinanza digitale sono gli assi portanti attorno a cui ruoterà il suo studio. Nonostante adesso sia previsto un quantitativo di ore ad hoc, il tema della legalità a scuola non è mai mancato.
«L’educazione civica non è fatta solo di nozioni da somministrare ma di comportamenti di cultura e di pensiero che devono essere cambiati e per farlo non si può passare solo dalle nozioni, servono gli esempi» ha affermato Valeria Catalano che della lotta ai diritti ne ha fatto baluardo di educazione per la sua scuola e i suoi allievi.