Appunti per una storia delle epidemie a Castelbuono
Persone, decessi, presunti untori e provvedimenti nei periodo del contagio
Anche la peste nera ricordata da Giovanni Boccaccio nel suo Decameron nacque in Cina nel 1346 e attraverso la Siria si diffuse a Costantinopoli, in Grecia, in Egitto e nei Balcani, giungendo nel 1347 in Sicilia. Da dove raggiunse Genova per diffondersi nell’intera penisola italiana e in tutta l’Europa, Inghilterra e Moscovia comprese. È presumibile che l’epidemia abbia determinato lo spopolamento dei casali di Fisauli, Vinzeria, Sant’Elia, Lanzeria, Tudino, Zurrica, Sant’Anastasia a favore di Castrum bonum, Castelbuono, che, già nei decenni precedenti l’avvio dei lavori di costruzione del castello e il perdurante stato di insicurezza, aveva richiamato numerosi lavoratori dagli stessi casali.
La storiografia municipale fa risalire proprio alla metà degli anni Quaranta del Trecento la costruzione della chiesa di Santa Maria dell’Aiuto o del Soccorso – al di là del torrente San Calogero o Mulinello, ad ovest del castello e a circa un chilometro dall’antico Ypsigro, nella contrada Fribaulo – per impetrare l’aiuto della Madonna di fronte alla terribile epidemia di peste che imperversava in tutta l’area mediterranea. La chiesa, di cui oggi si intravede appena qualche rudere, è sicuramente fra le più antiche del borgo. Fu molto cara ai Ventimiglia, che nel Quattrocento − in attesa che si ultimasse la cappella di Sant’Antonio di Padova, destinata ad accoglierne le spoglie − la scelsero come loro sepoltura. La sua costruzione mi fa pensare perciò che gli immigrati dai casali vicini, più che all’interno della cinta muraria di Ypsigro, si insediassero proprio nella contrada Fribaulo, dove trovavano sicuramente spazi più ampi e magari una maggiore disponibilità da parte dei Ventimiglia, che ancora nel Seicento e nel Settecento non rinunzieranno a rilanciare l’urbanizzazione della zona. Sembra come se un altro borgo, un nuovo minuscolo borgo, sorgesse nel Trecento sull’altra sponda del torrente, di fronte all’antico ancora chiuso fra le sue mura e piuttosto diffidente verso i nuovi venuti.
L’epidemia di peste che devastò la Sicilia nel 1575-77 toccò anche Castelbuono, ma, a giudicare dalla scarsa eco presso i notai non sembra abbia fatto molti danni, forse anche per le misure adottate dall’amministrazione civica, che sottopose a quarantena alcuni abitanti con spese di custodia, vitto e bevande a loro carico. Cosicché Antonia Filippone, il figlio Giuseppe e la nuora Margherita dovettero pagare onze 8, Andrea Guarneri, la moglie Antonia e i figli Giambattista, Francesco, Raimondetta, moglie del defunto Giovanni Filippone, e Antonina, moglie di Pietro Cusimano, onze 4. Appena l’epidemia si attenuò, nel febbraio 1577, la confraternita di San Rocco (il santo protettore e guaritore dei malati di peste) affidò a Sebastiano de Auxilia, originario di Castrogiovanni, l’incarico – scrive Termotto – di «lavorare imaginem del santo, secondo l’iconografia tradizionale, con un angelo e il cane, e ad eseguire lo scannello [= vara, fercolo]»: statua forse da identificare con quella già custodita nella chiesa del Crocifisso, oggi nella matrice di Castelbuono.
La pesante carestia del 1591 fu seguita da un’epidemia di febbre, che l’anno successivo provocò centinaia di morti, come documentano i registri parrocchiali. Nel solo 1592, infatti, i defunti furono ben 555 – tra cui ben sette sacerdoti – contro appena 131 battesimi, con un saldo negativo di 424 unità. La situazione migliorò negli anni 1594-97, quando si ebbero dei forti saldi positivi, che però la grave mortalità del 1598 (403 anime) in parte riassorbì.
Il 1615 fu caratterizzato da una forte mortalità, accentuatasi proprio nei mesi estivi, se su 350 defunti, ben 122, ossia più di un terzo, si contarono nel solo bimestre luglio-agosto, mentre nell’intero anno precedente 1614 i defunti erano stati invece appena 148 e 168 nel 1613. Ma l’epidemia – che richiese persino l’intervento a Castelbuono del protomedico di Palermo, accompagnato dal medico castelbuonese Francesco Guerrieri – era già presente anche nel giugno 1615. A distanza di una settimana, dal 17 al 25, morirono i coniugi Elisabetta e Giulio Gherardi e il 2 agosto successivo li seguì nella tomba la figlia Diana, quasi certamente per una malattia contagiosa, che ebbe per la famiglia un costo notevole, e il rivelo dell’anno successivo registrò ancora un debito di ben onze 16 nei confronti dall’aromatario Bartolo Muxa.
L’estate del 1618 trascorse tranquilla: i decessi furono nella norma, passando dai 7 di luglio ai 13 di agosto e ai 18 di settembre. Ma già a fine settembre il numero dei decessi cominciò a crescere; in ottobre balzò a 34 e, già prima della fine dell’anno, la morte colpì anche Giovanni, figlio del giudice Romanzolo, e i fratelli Aloisio e Girolamo Parexia, a distanza di un mese l’uno dall’altro. Da allora la mortalità non ebbe tregua e nel solo 1619 si contarono 379 decessi, contro i 129 del 1617 e i 197 del 1618, quando pure il male era comparso. Soltanto il 1592 e il 1598 erano stati peggiori del 1619. Il corpo ecclesiastico ne uscì decimato per la scomparsa di altri sette sacerdoti e le monache di Santa Venera subirono la perdita di tre consorelle. Intere case si svuotarono: Aurelia Lupo, vedova in seconde nozze del notaio Alfonso Matta, perdette nell’ordine la figlia Margherita Matta e i tre figli di primo letto notaio Andrea, notaio Francesco e Bartolomeo (Bartolo) Muxa; Giuseppe Piraino le figlie Maria e Francesca; donna Eleonora Flodiola il marito Andrea e la figlia donna Tiberia; Bernardino Lisuzzo la figlia Domenica e la moglie Isabella; Ortensio Di Vittorio il fratello Giuseppe e il figlio Paolo. In settembre, a distanza di una settimana morirono Francesco Fesi e la moglie Angela. Tra gli altri, scomparvero anche il giudice Paolino Romanzolo, mastro Giuseppe Vittimara, il ricco commerciante Morgante Peroxino, mastro Antonino Maimone, mastro Benedetto Gambaro.
L’epidemia continuò anche nel 1620, quando si contarono altri 291 decessi. La casa di mastro Benedetto Gambaro si svuotò completamente: dopo la sua morte a fine novembre 1619, a metà gennaio 1620 lo seguirono la figlia Giuseppa, la seconda moglie Agata Bonomo e la figlia Giovanna, sepolte tutte nella chiesa madre il 13 e il 14 gennaio. Si salvò il figlio diciannovenne mastro Francesco, da cui discenderanno i numerosi notai Gambaro.
Nessun cronista siciliano registra per il 1618-20 la presenza di epidemie nell’isola. La peste sembra fosse presente nell’Europa mediterranea, ma la forte mortalità di Castelbuono non era dovuta tanto ad essa, quanto piuttosto a una recrudescenza delle febbri malariche (febbre terzana) che colpirono anche il marchese Giovanni III e nel giugno 1619 lo condussero alla morte.
La peste del 1624-25 non toccò Castelbuono, mentre infierì duramente a Palermo. Il castelbuonese Francesco Guerrieri, ormai protomedico della città, fece parte della commissione di medici e teologi nominata nel 1624 dal cardinale Giannettino Doria, arcivescovo di Palermo e presidente del Regno, per il riconoscimento delle ossa di Santa Rosalia: confermò che le ossa appartenevano a una donna di media statura, emanavano «un grato e soave odore» e, pietrificate com’erano, formavano una «massa di dura, ma lucida pietra, e quasi di amatisti, berilli e cristalli con testa, cosa mirabile e che procede da virtù superiore all’ordine della natura». E, in occasione della guarigione dalla peste della quattordicenne Agata Morso dopo aver bevuto l’acqua di Santa Rosalia, testimoniò «essere stata per via naturale e miracolosa opera di Dio nostro signore, facta per honorare li sacri ossi della gloriosa serva sua, santa Rosolea».
All’interno della Deputazione di Sanità, della quale era membro autorevole, Francesco Guerrieri sostenne la validità delle prescrizioni del grande medico Gian Filippo Ingrassia nel 1575. Si batté per la quarantena obbligatoria e la concentrazione degli ammalati nei lazzaretti, opponendosi al collega Marco Antonio Alaymo, per il quale invece i lazzaretti dovevano essere riservati a coloro che non possedevano un’abitazione con due vani. Di lui ci resta infatti una relazione al pretore di Palermo del gennaio 1625, che – per Corrado Dollo che l’ha pubblicata nel 1991 – esprime «lo stato di insoddisfazione e sdegno dei medici legati alla precettistica del rigore instaurata da Ingrassia, che vedevano fallire gli sforzi per un efficace governo della peste»; e «costituisce una requisitoria contro il modo in cui era stata condotta la lotta al morbo». Dollo – correttamente, a mio parere – attribuisce allo stesso Guerrieri un’altra relazione anonima, Avvertimenti per la terra di Ganci, indirizzata, al primo apparire della peste, al marchese Francesco III, al quale – dichiarava all’inizio – egli molto doveva («per il molto ch’a Vostra Eccellenza devo»).
Negli stessi 1624-25 a Castelbuono i decessi furono limitati: si ebbe addirittura un saldo attivo di 170 unità. Le autorità non rimasero però inoperose e ripararono le mura cittadine (pareti), «pro custodia contagii» e per impedire l’ingresso incontrollato di forestieri in un periodo in cui in Sicilia infieriva l’epidemia, che falcidiava la popolazione di Palermo e di altri centri abitati della Sicilia. E che, nell’agosto 1624, costava la vita anche al viceré Emanuele Filiberto di Savoia. «Per li mura di la terra», nel gennaio 1625 il marchese Francesco III contribuì con 40 onze, mentre l’Università costituì una deputazione, «deputati fabrice parietium circondantium hanc civitatem», ossia «deputati murorum fabrice huius preditte civitatis per causa contagii».
Quando sembrò che il contagio non toccasse più Castelbuono, le mura confinanti con la chiesa di San Domenico e con una stalla furono vendute a mastro Giacomo Nicastro per il prezzo di onze 17, secondo la stima di mastro Antonino Gambaro; e mastro Diego Levante si accaparrò all’asta tutto il legname di castagna (travi e tavole) che i deputati avevano acquisito per la costruzione dei muri e delle porte «ex causa ditti contagii».
La peste era invece alle porte, dopo avere infierito duramente a Gangi per tutto il 1625 e toccato forse la vicina Geraci, alla cui popolazione il nuovo priore di Santa Maria della Cava don Vincenzo Termini donava una reliquia (un frammento di osso) di Santa Rosalia autenticata dal cardinale Giannettino Doria: perché fosse conservata in luogo decente, del quale dovessero tenere le chiavi l’arciprete e i giurati, e perché la santa vergine venerata da tutti i fedeli del luogo li proteggesse da peste, fame, guerra e li liberasse da tutti i mali e pericoli.
A Gangi la gravità del caso spingeva i suoi giurati ad ingaggiare, il 25 novembre 1625, il giovane chirurgo castelbuonese Francesco Caruso fu Gian Guglielmo, cittadino di Palermo. Il quale – per un compenso elevatissimo di onze 200, oltre onze 12 per le medicine necessarie da lui fornite e ancora vitto decente, abitazione dotata di tutto il necessario, una guardia del corpo e un domestico – avrebbe dovuto recarsi, assistere, dimorare e abitare a Gangi, dove il morbo contagioso si era diffuso e ivi medicare e curare con le sue medicine preservative e curative tutti gli abitanti e i forestieri presenti bisognosi di cure, per mesi quattro. Se nei quattro mesi, grazie a Dio e ai santi Rocco, Sebastiano e Rosalia, l’abitato fosse riuscito a liberarsi del morbo e nei quattro mesi successivi non si fosse ripresentato, i giurati avrebbero liquidato il compenso di Caruso, che intanto avrebbe percepito soltanto acconti.
Ma il chirurgo forse non giunse mai a Gangi, perché il 4 dicembre era a San Mauro, assunto dai giurati per occuparsi dei malati di peste nel lazzaretto. Nel maggio 1626 essi gli erano ancora debitori di onze 55 e tarì 10 a completamento del compenso di onze 117 e tarì 10, di cui onze 105 e tarì 10 per «medicamento fatto in laczaretto ditte terre tempore contagii» in mesi 5 e giorni 8, dal 4 dicembre 1625 all’11 maggio 1626, in ragione di onze 20 al mese, e onze 12 come loro regalo per i servizi da lui personalmente prestati agli ammalati del lazzaretto anche come barbiere. Caruso aveva avuto dai giurati anche vitto per sé e il servitore e, per ordine del marchese, «unum vestitum integrum di vintiquatrino fino di la città, con gippone di terzanello, calzetti di saya di reo, cappello, attaccaglie, dui mutandi, casacca, calzi et ferriolo», per un valore complessivo di onze 16 e tarì 20, in sostituzione di analoghi indumenti che durante il suo servizio nel lazzaretto si erano bruciati. I giurati si impegnavano a versargli il saldo di onze 55 e tarì 10 entro luglio e il medico lasciava loro onze 10 come elemosina per i poveri di San Mauro.
A Castelbuono l’epidemia giunse parecchi mesi dopo. Il 1625 trascorse tranquillo e in dicembre si contarono appena 10 decessi. Ancora per tutto il primo semestre del 1626 la mortalità fu molto contenuta: da un massimo di 21 decessi in marzo a un minimo di 11 in giugno. La scarsa mortalità dovette convincere don Giovanni Fimia che non era il caso di affrettarsi a donare alla popolazione castelbuonese la reliquia di Santa Rosalia ottenuta a Palermo dal cardinale Doria il 20 novembre 1625. La consegna ufficiale ai giurati, presenti il marchese Francesco III e l’arciprete Nicolò Bandò, avvenne perciò il 2 febbraio 1626. Si trattava di un pezzetto di osso in due parti («frustulum ossi in duobus peciis») della beata Rosalia, che veniva accolta come signora, patrona, avvocata e intercessora presso sua divina maestà e la santissima madre Maria a favore della città di Castelbuono. La reliquia era consegnata dai giurati all’arciprete Bandò perché la conservasse nel reliquario della matrice chiuso con due diverse chiavi, una tenuta dall’arciprete e l’altra dai giurati in carica.
La presenza della reliquia non valse però a salvare dalla peste i castelbuonesi: a metà maggio 1626 il morbo già covava, come dimostrerebbe il decesso contemporaneo di due fratellini, Antonino e Barbara Bonomo di Girolamo. Dopo gli 11 decessi di giugno, in luglio se ne ebbero 33. L’accentuarsi della mortalità già nelle prime settimane del mese avrebbe dovuto convincere il marchese e le autorità cittadine a rinunziare agli spettacoli musicali, che comportavano assembramenti di persone e quindi una maggiore diffusione del contagio. L’entità del compenso pagato «a Francesco Dolci e compagni musici» e «a don Gian Battista Lustrasanti e compagni musici» fa ritenere che siano stati molto seguiti. Solo qualche giorno dopo si prendeva consapevolezza della presenza del morbo e il marchese si affrettava a inviare don Giacomo Bandò a Palermo «per andare per il medico Francesco Guerrieri», con un costo di onze 12.
In agosto i decessi furono 41, in settembre addirittura 65 – con la punta massima di 10 tumulazioni il giorno 20 –, in ottobre 35, in novembre 22, in dicembre 28. Nel 1626 si contarono così ben 323 decessi – tra cui il notaio Guarneri, il figlio sacerdote Francesco e il giudice Cesare Ventimiglia – con un saldo negativo tra battesimi e sepolture di 48 unità. La situazione sembrò normalizzarsi con il nuovo anno 1627, ma in maggio si verificò una ripresa che continuò nei mesi estivi e portò a 221 i decessi dell’anno, tra cui la marchesa Maria, il giudice Paolo Raso, i notai Schimbenti e Rohasi, don Michele Trentacoste, Perafando Conora e la sorella Margherita, moglie del notaio La Prena. In pochi mesi, tra 1626 e 1627, una fetta consistente del ceto dirigente del primo quarto di secolo era così spazzata via. E quando, nel 1633, anche il notaio Mazza uscì di scena il corpo dei notai si rinnovò completamente con la presenza dei notai Vittorio Ortolano, Bartolomeo Bonafede, Luciano Russo, Vincenzo Sestri, Francesco Prestigiovanni.
A soffrirne maggiormente furono però i ceti subalterni: la morte improvvisa del capofamiglia molto spesso causava l’impoverimento del nucleo familiare, anche perché l’intervento dei medici era alquanto costoso. La lunga malattia del defunto Francesco Venturella nel 1628 costò agli eredi ben onze 5 e tarì 22 per l’assistenza del medico Francesco Rohasi: «pro cura per eum ditto quondam Francisci Vintorella facta per multos menses». Anche il costo delle medicine era pesante: per la malattia della madre Lucrezia (deceduta nell’aprile 1618) e del padre mastro Antonino l’anno successivo, nel giugno 1622 mastro Giovanni Maimone, a nome anche dei suoi fratelli, si dichiarava ancora debitore dell’aromatario Giuseppe Muxa per onze 3, resto di onze 6 e tarì 24, prezzo delle medicine fornitegli, secondo la stima del medico Pietro Paolo Peroxino. All’indebitamento seguiva l’impoverimento e talvolta anche la fuga da Castelbuono: nel consegnare ai suoi esattori la lunga lista dei debitori, Venturella escludeva coloro che erano fuggiti e godevano di dilazioni.
Anche se nel biennio 1629-30 si ebbe ancora una forte recrudescenza della mortalità con 637 decessi, nel complesso, nel decennio 1621-30, la popolazione crebbe di 428 unità. Come sempre, la mortalità si accentuava nei mesi estivi e svuotava le case, disintegrando le famiglie e portandone parecchie all’estinzione: nel luglio 1630, Giuseppe Sottile perse i figli Vincenza, Paolo e Antonino; Biagio Bazano la figlia Paola e la moglie Anna; in agosto Gerardo Schicchi i figli Pietro, Giuseppa e Margherita; Matteo Gentile i figli Anna, Grazia, Giuseppa e, in settembre, Leonardo; in settembre Bernardino Lisuzzo i figli Giovanna e Rosalia; in ottobre Erasmo Spina i figli Giovanna, Francesca e Giuseppe; Filippo Palisi tra ottobre e novembre i figli Nicolò, Giovanna e Paolo.
Nel decennio successivo 1631-40 la dinamica demografica ebbe una forte stasi, perché l’incremento naturale fu assorbito quasi interamente dalla forte mortalità degli anni 1631-32 e 1637-38, con una crescita complessiva di appena 7 unità. Nel 1631 il morbo colpì soprattutto i bambini. Ciò causava un invecchiamento della popolazione complessiva e l’estinzione di non poche famiglie senza più eredi diretti: nella Sicilia dell’età moderna la scomparsa di molti lignaggi non era affatto dovuta alla sterilità dei matrimoni, bensì alla forte mortalità infantile che ne bloccava la prosecuzione nel tempo. Eccezionalmente, per il periodo dal 23 febbraio al 25 marzo 1631, i registri parrocchiali indicano l’età alla morte.
Dei 30 decessi verificatisi nel mese, gli adulti furono appena cinque: 2 sessantenni, 1 cinquantacinquenne, 1 cinquantenne e 1 quarantenne; i giovani tre: 1 ventenne, 1 diciottenne e 1 di cui non è indicata l’età, ma la paternità e la comunione ricevuta; quattro i bambini di 6-10 anni; nove di 1-5 anni; nove da giorni 3 a mesi 4 (tra cui due trovatelli di 3 giorni ciascuno). I bambini sino a 10 anni erano ben 22 su 30. Tra gli adulti deceduti nella seconda metà del 1631, ci furono anche tre vetrai piemontesi che lavoravano nella vetreria del marchese, mentre un quarto vetraio, anch’egli piemontese, perse la moglie e due figli. Nelle seconda metà del 1637 scomparve l’intera famiglia di Sebastiano Culotta: padre, madre e tre figlie.
La crescita demografica riprese lentamente alla fine degli anni Trenta sino al 1647 (anno della morte del marchese), per bloccarsi pesantemente nel 1648 quando la mortalità passò dai 214 decessi del 1647 a 677, pari a oltre un decimo della popolazione, una punta mai toccata sino ad allora.
Poiché ho dovuto sospendere lo spoglio sistematico degli atti notarili al quale mi sono dedicato negli anni scorsi, non sono più in grado di registrare la reazione delle autorità municipali e della stessa popolazione di fronte al contagio. Mi limiterò perciò all’utilizzazione dei soli registri parrocchiali che annotavano i decessi giorno per giorno, o meglio la data della sepoltura, che solitamente avveniva il giorno successivo alla morte.
Nel settembre 1647, la mortalità si manteneva ancora nella normalità con 12 decessi e così pure in ottobre con 17: i decessi di Battista Paruta di Agostino il 13 settembre, della sorella Elisabetta il 12 ottobre, della loro madre Martina il 18 novembre e ancora delle sorelle Natalina il 29 novembre e Angela il 3 dicembre costituiscono già il primo effetto della presenza del contagio, il cui luogo di trasmissione si rivelerebbe così Geraci, da cui essi erano originari. Sopravvivevano il padre Agostino e il figlio Francesco, ma con l’accentuarsi della mortalità, anche per loro fu la fine, il 20 febbraio 1648 per il primo, il 3 marzo per il secondo: con la loro morte si estingueva una famiglia di ben sette persone. Un caso comunque unico, perché nelle altre famiglie non sembra che la mortalità superasse le tre unità.
Nel novembre 1647 i defunti salirono da 17 a 25 e a 33 in dicembre. Il 29 dicembre morì Rosalia, moglie di Filippo Carollo alias Lo Signuri e l’8 gennaio 1648 la figlia Margherita; il 16 fu la volta di Vincenzo Vazzano di Biagio e il 19 della sorella Anna. Il medico Francesco Rohasi, che il 13 ottobre 1647 aveva perso il figlio Antonino, il 15 febbraio perse anche il figlio Giovanni, la cui morte segnò la fine naturale del lignaggio. La mortalità si mantenne pressoché stabile sino a febbraio 1648 con 38 decessi, che in marzo balzarono a 64, tra i quali il medico Ottavio Agliuzzo, originario di Palermo, sulla cui competenza professionale ho forti dubbi, anche perché egli si trasformò presto in grande allevatore di equini, bovini e ovini, ma anche in coltivatore su terreni in affitto e in commerciante di numerose partite di grano, orzo, vino e animali che, a nome della moglie, acquistava anche a Ciminna, e poi rivendeva. Inoltre non disdegnava la concessione di prestiti a interesse. Il 10 marzo la fine toccò a mastro Giorgio Carabillò, fonditore originario di Tortorici e progenitore dei Carabillò di Castelbuono: era stato chiamato nel 1626 dal marchese Francesco III per impiantare insieme con altri conterranei il martinetto di Gonato. Contemporaneamente, insieme con il conterraneo mastro Domenico Cara, assunse dai giurati l’incarico di fabbricare ex novo pesi e misure ufficiali: un cafiso per l’olio, un rotolo, un mezzo rotolo, tre oncie, due oncie, un’oncia, una mezza oncia, due lancelle (quartare), una per mosto e una per vino, un mezzo tumolo, un quarto di tumolo, una cannata e una mezza cannata, «tutti di ramo, aggiustati e bollati, bene et fideliter ut decet», con consegna a Natale, per il prezzo di tarì 12 per ogni rotolo di rame impiegato.
La curva della mortalità segnò una lieve flessione nei tre mesi aprile-giugno 1648 per innalzarsi in luglio a 74 decessi e toccare il picco, come spesso capitava a Castelbuono, in agosto con 89 morti, per una media di 3 funerali al giorno, tra cui quello di donna Antonia Ventimiglia (n. 1621), figlia primogenita del defunto marchese Francesco III e della sua prima moglie Maria Spatafora, che fu sepolta nella chiesa del convento dei domenicani. A settembre cominciò la fase discendente con 83 decessi e poi 63 in ottobre, sino ai 44 di dicembre, che si ridussero a 29 già nel gennaio 1649. Il contagio si stava arrestando e nel 1649 i decessi si ridussero a 250.
Dei 677 morti del 1648, ben 63, ossia quasi il dieci per cento, erano forestieri: 25 originari di Geraci, 9 di San Mauro, 8 di Petralia Sottana, 5 di Pollina, 4 di Isnello, 3 di Termini, 2 di Petralia e di Castel di Lucio, 1 di Gangi, di Cefalù, di Palermo e di Prizzi, oltre una zingara (Caterina la zingara) di provenienza ignota. Si trattava di alcune famiglie di Geraci (Paruta, Cancilleri, Richiusa, Arata) particolarmente colpite dal morbo, qualcuna sino all’estinzione, e per il resto di singoli, donne soprattutto.
Persone di recentissima immigrazione con le famiglie, ma soprattutto di presenza temporanea per ragioni di lavoro. I forestieri presenti da decenni, che si erano ormai naturalizzati, non erano più considerati tali dalle autorità ecclesiastiche, che nell’atto di morte non accennano alla lor provenienza geografica: era il caso, ad esempio, di mastro Giorgio Carabillò, da decenni in paese (diciamo città, perché tale si considerava Castelbuono) dove aveva messo famiglia e ormai considerato castelbuonese a tutti gli effetti. Oppure di Mariano La Cerda, deceduto in dicembre e a Castelbuono da mezzo secolo, da quando giunse da Sortino con la madre al seguito dello zio materno don Cosimo Marchese, abate dell’abbazia di Sant’Anastasia nel 1588-1605. Né palermitano era più considerato alla morte nel marzo 1848 il medico Ottavio Agliuzzo, che nel 1608 aveva sposato Rutilia Di Vittorio. E così parecchi altri.
È vero, a Castelbuono si era ormai creato un artigianato locale che riduceva il ricorso a competenze forestiere. Ma è indubbio che il fatto che tra i forestieri defunti non ci fossero originari non solo dalla penisola, come nel Cinquecento e ancora nel primo Seicento, ma neppure (a parte qualche eccezione) da paesi siciliani (che non fossero quelli del marchesato di Geraci e di qualche altro centro non molto distante) è molto significativo della crisi economica attraversata dalla città nel corso del Seicento. Una crisi economica che comunque sembra meno pesante di quella presente negli altri centri delle Madonie. La tregua dell’epidemia non durò a lungo, perché nel 1650 si contarono altri 351 decessi, concentrati soprattutto in giugno e nel trimestre agosto-settembre.
Il censimento del 1652 assegnò a Castelbuono una popolazione di 5.625 abitanti, ossia 436 in più rispetto al 1607, mentre i registri parrocchiali per lo stesso periodo danno invece un saldo attivo naturale di 617 unità. È indubbio quindi che tra il 1607 e il 1652 un incremento demografico si sia verificato, valutabile complessivamente attorno alle 500 unità. E ciò mentre contemporaneamente, quasi dappertutto negli altri centri abitati delle Madonie, si verificava un decremento della popolazione, talvolta anche pesante come nei centri demaniali di Mistretta e Polizzi.
Ma già nel 1636 Castelbuono, superando Petralia Sottana, era diventato il centro abitato più popoloso delle Madonie. E diversamente dai centri vicini, che nel corso della seconda metà del Seicento – con l’eccezione di Tusa, Gangi e soprattutto Petralia Sottana, dove nel 1681 la popolazione toccava quasi il suo massimo storico (7.176 anime) – cadevano in preda alla crisi demografica e vedevano ridursi considerevolmente il numero dei loro abitanti, a Castelbuono invece il trend ascendente continuò con maggiore intensità (nel trentennio 1651-80 si ebbe un saldo naturale positivo di 989 unità). Nel 1681 si poteva registrare una popolazione di ben 6.549 anime, la punta massima sino ad allora. Di fronte alla crisi del settore serico, i castelbuonesi avevano fortemente orientato la produzione agricola verso la coltivazione del frassino (o meglio dell’amolleo) e si erano avvantaggiati del notevole incremento della richiesta di manna sul mercato estero.
Nel 1714 il censimento annotò 4.247 abitanti, registrando così un vero e proprio crollo della popolazione. Un crollo di 2.302 abitanti, che però i dati parrocchiali non riconoscono: considerato che, nel 1682-1714, il saldo tra battesimi e sepolture registra sì negativo, ma soltanto di 207 unità. I dati del censimento del 1714 sono quindi da rifiutare, a meno che non si voglia pensare a una fuga in massa da Castelbuono di 2.095 abitanti. Impossibile! Non c’è dubbio tuttavia che siamo di fronte a una fase di forte stagnazione demografica.
Il periodo più disastroso fu il ventennio 1691-1710, a cavallo quindi dei due secoli, quando il saldo negativo fu di ben 475 unità, causato dalla forte mortalità dei bienni 1693-1694, 1699-1700, 1709-1710, quando i decessi furono annualmente sempre superiori a 300 unità, con le punte massime di 459 nel 1709 e di 320 nel 1693.
Il biennio 1709-1710 fu il più terribile, con ben 779 morti. Nel primo semestre del 1708 l’andamento della mortalità si era mantenuto su livelli piuttosto bassi: in maggio si ebbero appena 11 decessi e addirittura 9 in giugno, ma già in luglio passavano a 27 e in settembre toccavano il massimo di 42, per mantenersi nei mesi successivi poco al di sotto delle 30 unità mensili, con il risultato che già nel 1708 si ebbero complessivamente 289 defunti. A Palermo moriva il marchese Francesco V, la cui salma il 25 agosto era tumulata a Castelbuono nel mausoleo di Sant’Antonio di Padova, e a Castelbuono il barone Francesco Culotta, la cui salma, il 16 ottobre, proprio lo stesso giorno del testamento, era tumulata nella chiesa di Santa Maria dell’Assunta, l’ex matrice, non ancora indicata come matrice vecchia, ma come semplice chiesa. Nei primi due mesi del 1709, la mortalità fu di 25 e 26 unità, ma già in marzo balzò a 39 e in aprile si ebbe il picco di 51. Nei mesi successivi i decessi superarono quasi sempre le 40 unità, ma non si raggiunsero come nel 1648 picchi di oltre 80 decessi mensili: il morbo fu meno aggressivo, ma durò più a lungo, colpendo soprattutto bambini e donne. Forse, più che da un morbo, la mortalità era causata dagli effetti delle carestie dovute agli scarsi raccolti del primo decennio del Settecento (1701, 1704, 1707, 1708, 1709) e dello stato di guerra che toccava la Sicilia (guerra di successione spagnola).
Nel 1710 la mortalità si ridusse a 320 unità, più elevata comunque di quella media del decennio 1701-10 pari a 275 decessi l’anno. Nel secondo decennio del Settecento cominciano a notarsi i segni di una ripresa, che continuò anche negli anni successivi. Il censimento del 1737 assegnò a Castelbuono una popolazione di 6.029 anime – 2.804 maschi, 3.048 femmine, 24 monache, 48 monaci, 105 sacerdoti – e nel 1747 di 6.044 abitanti (religiosi compresi). Per i registri parrocchiali, l’incremento sarebbe stato ancora più rilevante. Vi contribuivano anche le immigrazioni di ebrei, richiamati dai provvedimenti emanati dei vari governi nel 1695, nel 1702 e, soprattutto da re Carlo di Borbone, nel 1740 per favorire un loro ritorno in Sicilia, ritenuto molto utile per il commercio estero.
Castelbuono, con Cefalù e Caccamo, era dichiarata “città asilo”, come dimostrano due libretti individuati da Mogavero Fina nella sacrestia della matrice di Caccamo. I registri di contabilità delle chiese di Castelbuono documentano numerose elemosine a favore di ebrei e di qualche protestante convertitosi al cattolicesimo. Ma è probabile che parecchi non si convertirono e trovarono sistemazione in quel cortile alle spalle di via San Nicolò, in fondo alla via Vittimara, che la toponomastica ottocentesca ha voluto indicare con il nome di un profeta ebreo, cortile Giona appunto, che ci fa pensare tanto al ghetto.
La mortalità si era mantenuta quasi sempre al di sotto delle 250 unità e raramente superò i 300 decessi, nel 1733 con 322 e nell’anno successivo con 337. All’inizio degli anni Quaranta, per ben due volte, nel 1741 e 1742, fu addirittura inferiore alle 150 unità l’anno, con la punta minima di 119 nel 1742. Castelbuono non fu sfiorata dalla peste che nel 1743 infierì su Messina con esiti disastrosissimi, non soltanto a causa dei contagi ma anche per l’impossibilità di reperire alimenti sufficienti. Si sarebbe rivelata l’ultima comparsa del morbo in Europa, ma intanto provocava una pesante caduta della popolazione della zona, se nella sola città di Messina i 63.848 abitanti del 1737 si erano ridotti dieci anni dopo a 40.293. E tuttavia la mortalità sarebbe stata più elevata senza gli opportuni provvedimenti adottatati dal governo (in particolare, il cordone sanitario attorno al territorio) per bloccarne la diffusione, elogiati da Ludovico Antonio Muratori nei suoi «Annali d’Italia». A Castelbuono forse si manifestò qualche contagio, perché nell’anno successivo 1744 la mortalità fu di 302 decessi, mentre l’anno precedente si era fermata a 214.
Al censimento del 1747 la popolazione non registrò ufficialmente nessuna variazione: i riveli documentarono la presenza di 6.044 abitanti, ma contemporaneamente il saldo naturale tra battesimi e sepolture del registro parrocchiale indica rispetto al 1737 un aumento di circa 250 abitanti, che è da considerarsi apprezzabile ed è determinato dal fatto che per tre volte la mortalità si è mantenuta addirittura al di sotto delle 200 unità l’anno, fenomeno raramente verificatosi nei quasi due secoli precedenti. Improvvisamente nel 1750 si verificò un picco di 367 decessi: la mortalità che nel periodo gennaio luglio, tranne in gennaio, non raggiunse mai le 20 unità; in agosto passò dai 10 di luglio a 32, rimase stazionaria a settembre con altri 32, per passare a 57 in ottobre e balzare a 100 in novembre, punta mensile mai toccata in precedenza. In dicembre si ridimensionò a 45, che diventarono 29 nel gennaio 1751, 28 in febbraio e 20 in marzo, con il ritorno alla normalità. Proprio in marzo morì il visitatore di giustizia della città di Castelbuono e anche governatore del marchesato di Geraci Gioacchino Baldi, laureato in teologia e professore di diritto.
Nel mezzo secolo 1760-1810 si verificarono parecchie carestie e il prezzo del grano a salma raggiunse vette mai toccate nei secoli precedenti. La meta di Palermo (il prezzo imposto annualmente in agosto dalle autorità municipali di ogni comune, sul quale produttori e mercanti regolavano le contrattazioni precedenti) raggiunse un primo picco nel 1760 con tarì 76 e grani 14, superato nel 1763 con tarì 78 e grani 5, che diventarono 93.10 nel 1766, 94.13 nel 1780, 102.12 nel 1784, 112.16 nel 1790, 125.5 nel 1792, 128.3 nel 1797, 137.9 nel 1799, 219 nel 1802, 287.11 nel 1811. Lo stesso trend si registra per le mete di Petralia Sottana. Non dispongo al momento della serie dei dati della mortalità a Castelbuono nella seconda metà del Settecento. La storiografia non accenna a grosse epidemie nello stesso periodo e alcuni miei sondaggi negli anni più critici non mostrano un aumento della mortalità, che sembra alquanto più contenuta rispetto ai secoli precedenti.
L’epidemia di febbri maligne («gravissima epidemia», la chiama Pitrè) che colpì Palermo nella primavera del 1764, conseguenza per Domenico Scinà della carestia dell’anno precedente, non giunse a Castelbuono, dove, nel corso dell’anno, i decessi furono 219 e 60 nei tre mesi primaverili aprile-giugno.
La rivolta nel settembre-ottobre 1773 della plebe palermitana contro il viceré Fogliani e la sua cacciata dalla città furono determinate dalla crisi annonaria causata da una carestia. Ma l’aristocrazia palermitana, insieme col clero e con una parte della burocrazia, non sembra affatto estranea alla preparazione e poi alla gestione della strana rivolta. Che anzi le consentì – strumentalizzando il malcontento popolare per la crisi annonaria – di liberarsi di un viceré non più controllabile e di continuare a ricattare con la paura del peggio il governo Tanucci, reo di privilegiare i contadini nella alienazione dei beni gesuitici incamerati dallo Stato. Le mete del grano di Palermo e di Petralia Sottana dimostrano che il cattivo raccolto del 1773 faceva seguito a quello altrettanto insoddisfacente dell’anno precedente.
La carestia di solito provocava la morte per inedia dei più poveri e favoriva l’insorgere di una qualche epidemia. Non c’è dubbio che essa abbia toccato anche Castelbuono, che non è mai stata autosufficiente in fatto di produzione granaria. E tuttavia la mortalità nel 1773 si mantenne nella norma: si contarono infatti 206 decessi, 8 dei quali (avvenimento rarissimo) in dicembre.
A Palermo nel 1793, scrive Pitrè: «le condizioni della città erano lagrimevoli, desolanti. A cagione della precedente siccità e di una serie di errori economici del Governo e del Senato, il paese, privo di frumenti, era in piena carestia. Gl’indigenti, uomini e donne, brulicavano come vermi. Furon viste in alcune contrade di Palermo persone cibarsi di erbe selvatiche, altre raccogliere fichi immaturi e cuocerli in aceto, altre strappare il pane che i padroni avean gettato ai cani, altre morire […] La salute pubblica per conseguenza ne soffrì tanto che le febbri putride furon cagione di grande moria». La meta del grano di Palermo, che nel 1790 era balzata da tarì 97.18 a tarì 112.6, nel 1792 toccò la punta massima sino ad allora di tarì 125.5 e sino al 1822 (ultimo dato disponibile) non scese più al di sotto di tarì 109.1. Anche a Petralia nel 1792 fu toccata la punta massima di tari 104. Gli effetti negativi di una cattiva annata si facevano sentire l’anno successivo; nel nostro caso nel 1793.
La carestia colpi inevitabilmente anche Castelbuono e così pure il morbo (per Palermo si parla di “febbri infettive”) che ne seguì e che nel 1793 contribuì ad elevare il numero dei decessi sino a 359, un dato tra i più elevati del Settecento. Giù nei primi cinque mesi dell’anno la mortalità si rivela al di sopra della norma, si riduce nel biennio giugno-luglio (17 decessi al mese), periodi in cui solitamente si accentua, raddoppia in agosto ed esplode a settembre con 50 morti, che decrescono nei mesi successivi sino ai 33 di dicembre. In agosto (33 decessi) il contagio risultava evidente: il 3 ci furono sei funerali, due dei quali riguardarono Paolo Bonomo e Vincenzo Bonomo, quasi certamente fratelli perché sepolti nella stessa chiesa del Monte Calvario; l’8 agosto fu sepolto don Mariano Iraci e il 10 la moglie donna Nicoletta, entrambi nella chiesa di Santa Maria dell’Itria; il 26-27 i bambini Anna, Rosaria e Santo Napoli, forse cugini, figli rispettivamente di Pietro, Rosario e Nicolò. Il 15 settembre morirono le due figliolette gemelle di mastro Nicasio Barreca; Marco e Maria Anna Ficarra il 10 settembre perdono la figlia Maria Anna e il 19 successivo il figlio Tommaso. Nessun dubbio quindi sulla presenza del contagio.
Gli anni iniziali dell’Ottocento furono terribili per Castelbuono. Due anni prima, il censimento della popolazione del 1798 gli aveva assegnato 7.080 abitanti, il massimo sino ad allora, con un incremento di 1.036 unità rispetto al 1747, che nei sei anni dal 1800 al 1805 furono però interamente cancellati. Come in un atroce gioco dell’oca, si ritornava al punto di partenza: i registri parrocchiali dei battesimi e dei morti per gli stessi anni documentano infatti un saldo passivo di ben 1.031 unità, che è anche confermato da un censimento a cura dello stesso arciprete nell’aprile 1806, secondo il quale la popolazione era crollata a 6.234 abitanti. Nel solo 1801 si ebbero ben 693 morti, la punta più elevata di tutta la storia castelbuonese, mai toccata in precedenza e, per fortuna, neppure successivamente. Altri 440 decessi si ebbero l’anno successivo, 339 nel 1803 e altrettanti ancora nel 1804. La morte colpiva soprattutto i bambini, ma anche numerosi adulti, inizialmente a causa di una malattia contagiosa di origine virale che nel 1801 provocò 8.000 morti nella sola Palermo, prima città europea a ricorrere alla vaccinazione di massa dei bambini. Altra causa della mortalità è da individuare nella ruggine che negli anni 1802, 1803 e 1804 si abbatté sulle messi, provocando una serie di carestie. Interi quartieri si spopolarono e l’Università in fortissima crisi finanziaria, a cominciare dal 1803, non poté più pagare la sua quota di donativi al governo, ai quali nel 1802 se n’era aggiunto uno straordinario per le spese della corte napoletana rifugiatasi in Sicilia.
Nel decennio 1806-15 la situazione demografica registrò un miglioramento ‒ il saldo tra battesimi e sepolture ebbe infatti un attivo di 338 unità, grazie anche al fatto che ormai dal 1807 le nascite quasi sempre superavano annualmente le 300 unità ‒ che però non riuscì a colmare i vuoti del periodo precedente, anche perché fu quasi interamente riassorbito dai 913 decessi del biennio successivo. Nel 1817 ci furono infatti 560 decessi, che crearono un saldo passivo di 241 abitanti, conseguenza della fame provocata dalle carestie del 1816 e del 1817, come pure della disoccupazione e miseria per la depressione economica che colpì l’Europa dopo il congresso di Vienna del 1815. Sembra che la causa dei cattivi raccolti sia stata la violenta eruzione nell’aprile 1815 del vulcano indonesiano di Tambora, che produsse un fortissimo oscuramento del cielo che nel 1816 provocò in Europa e nelle Americhe gelate estive (l’anno senza estate), con conseguenze pesantissime sui raccolti. La denutrizione e le carenze igieniche provocarono epidemie di tifo petecchiale, malattia infettiva trasmessa dai pidocchi, che evidentemente colpì duramente anche gli adolescenti e i maschi anziani di Castelbuono, tanto nel 1816 con 353 decessi quanto nel 1817, per un totale di 913 morti in un biennio. E quando già la normalità era ritornata da pochi mesi, ecco le violente scosse di terremoto dell’8 settembre 1818 e del 25 febbraio 1819 con epicentro proprio nelle Madonie, che, se non provocarono morti, fecero danni per ben 46109 onze e privarono dell’abitazione 84 famiglie, costrette a trovare rifugio in baracche appositamente costruite con fondi statali.
Al censimento del 1831 la popolazione castelbuonese era ferma a 6.090 abitanti, cioè a quella del 1748 quando si contavano 6.044 anime, come se ottant’anni non fossero trascorsi. È molto probabile però che il dato fosse sottostimato. Il colera – una malattia endemica dell’India, causata da un bacillo che si introduceva nell’apparato digerente e provocava diarrea, vomito, blocco urinario e disidratazione – nel 1837 non toccò Castelbuono, mentre invece a Palermo fece numerose vittime illustri, tra cui il castelbuonese Vincenzo Mogavero (1803-1837), «medico di belle speranze» presso l’Ospedale Civico della città.
Né lo sfiorò nel 1848. Il 14 febbraio erano sepolti nella chiesa madre di Castelbuono Annetta Turrisi, sorella del barone Nicolò, deceduta di polmonite, e nella chiesa del Rosario il giudice dottor Croce Piraino, morto suicida con un colpo di pistola. La tradizione familiare collega il suicidio con la lapidazione del sindaco Calascibetta, causato dal timore di fare la stessa fine, ma i due avvenimenti non sono collegati perché il sindaco era ancora in vita il giorno del suicidio del giudice e quasi certamente partecipò ai funerali. L’atmosfera probabilmente era però già pesante e il giudice Piraino potrebbe essere stato oggetto di pesanti intimidazioni. Lo stesso giorno ci furono altre 2 sepolture e 3 il giorno 15, 1 il 18, 4 il 20, 5 il 21.
L’accentuarsi improvviso della mortalità (in gennaio si erano verificati soltanto 15 decessi e 11 nei primi tredici giorni di febbraio) convinse la popolazione che si stesse diffondendo il colera e che responsabili ne fossero gli amministratori comunali, contro i quali il 22 e il 23 scatenò una spietata caccia all’uomo conclusasi con alcuni feroci assassinii. Sindaco dal 1840 era Luigi Calascibetta, già impiegato della tesoreria distrettuale di Cefalù nel 1826-30 e notaio dei baroni Turrisi e dell’élite locale. Proprio ai baroni Vincenzo e Mauro Turrisi e all’allora baronello Nicolò egli nel 1837 aveva raccomandato i suoi familiari nel caso di un suo decesso. Come sindaco era già finito sotto inchiesta e condannato a pagare ducati 1.229 per la gestione comunale del 1847. L’amministrazione da lui presieduta era inoltre stata più volte accusata di immobilismo dalle autorità superiori, perché il decurionato non riusciva spessissimo a riunirsi a causa dei molti assenti, nei confronti dei quali egli non procedeva alla sostituzione con i supplenti, con il risultato che l’attività amministrativa rimaneva paralizzata. Ben diversamente si era comportato nel 1828 il sindaco Francesco Marguglio, che aveva fatto condannare gli assenti a una multa di un’onza ciascuno.
Anche il sindaco Calascibetta nel febbraio 1848 temeva il colera e si era preoccupato di far giungere in paese due damigiane di alcol denaturato da usare come disinfettante. Ma quando il mulattiere le scaricò in un magazzino del Comune, la popolazione si convinse di avere la prova che al sindaco era pervenuto il veleno da spargere per la diffusione del morbo. Di epidemia colerica credo non sia proprio il caso di parlare, perché i 38 morti di febbraio diventarono 25 in marzo, 20 in aprile, 17 in maggio. Ma per la popolazione l’insolita mortalità dei giorni precedenti costituiva la conferma che il colera era ormai arrivato a Castelbuono e insorse.
«Il di 22 andante mese [=febbraio] alle ore 22 circa ‒ riferì il giorno successivo il barone Nicolò Turrisi al Ministro di Giustizia e Sicurezza Interna ‒ un imponente numero di popolo si raduna ad un batter d’occhio nel largo della Madre Chiesa e dopo aver gridato al sindaco allo spargitore di veleni, all’untore del torcicollo [negli anni precedenti, il morbo detto del torcicollo aveva colpito la popolazione castelbuonese, che, come per il colera, ne attribuiva la diffusione al governo borbonico], alla causa di ogni male, si muoveva risoluto a dare l’assalto alla sua casa con ostinata volontà di trucidarlo. Invano taluni gentiluomini colà trovatosi a caso alzarono la voce per impedire l’atto; invano pregarono, esortarono, piangevano. Una grandine di pietre si lancia da prima a tutta furia contro l’abitazione del sindaco don Luigi Calascibetta; si viene poscia alla canea di pochi fucili e mentre alcuni arrampicandosi con indicibile gagliardia si aggrapparono ai ferri dei balconi e rompevano, rovesciavano le invetriate, altri armati di taglienti scuri fanno a pezzi la porta d’ingresso: entrano inferociti e ripetendo morte, si mettono in minuziosa ricerca dell’individuo nel loro furore; lo rinvengono alla fine e dando mano ad accette e coltelli e pistole sfogano sull’infelice con i più barbari modi la loro rabbia; lo strascinano per le scale, lo presentano fuori al pubblico sopracaricandolo in un mucchio di sassi».
Questa del barone Turrisi è l’unica testimonianza su un episodio di feroce violenza su cui le fonti locali tacciono del tutto.
Il colera giunse nel 1854 e, anche se la sua durata fu piuttosto breve (poco più di un mese), la mortalità fu elevatissima ‒ con una punta di 139 decessi in un solo mese, mai toccata neppure nel 1648, per la cui sepoltura fu utilizzata soprattutto la chiesetta suburbana di San Paolo ‒ e colpì esclusivamente i ceti subalterni, perché i “don” e le “donne” deceduti furono appena 7-8 e nessuno di essi faceva parte del ceto dirigente. La morte nel dicembre 1853 del bravo pittore don Rosario Drago (1824-1853) non può attribuirsi all’epidemia colerica, perché sino a luglio 1854 la mortalità si mantenne nella norma con 14 decessi che raddoppiarono in agosto (34) e balzarono a 139 in settembre, si ridussero a 62 in ottobre e crollarono a 26 in novembre, per rientrare nuovamente nella norma nel gennaio 1855. Un periodo breve quindi, ma durissimo, con una punta di 12 sepolture il 16 settembre. Complessivamente nel 1854 si contarono 431 decessi, ma grazie all’elevato numero di nascite (320 battesimi) il saldo negativo si ridimensionava a 111 unità.
Sulla base dei censimenti della popolazione, nel 1861 Castelbuono contava 7.965 abitanti, con un incremento di 1.875 unità, ma è molto probabile che, come ho già detto, il dato del 1831 (6.090 abitanti) fosse sottostimato, perché contemporaneamente l’incremento naturale era di 1.596 unità ed è difficile pensare che nel trentennio vi fossero immigrate quasi 300 persone. In ogni caso, un aumento della popolazione di oltre 1.500 unità nel trentennio è da considerarsi molto positivo.
Il colera del 1867 causò 444 morti e si trascinò anche l’anno successivo, quando si ebbero altri 378 decessi, che determinarono nel biennio un saldo negativo di 226 anime, modesto complessivamente perché la popolazione era intanto notevolmente aumentata e dal 1836 la natalità raramente scese al di sotto delle 300 unità, con un picco 426 nascite nel 1852. La grande abnegazione a servizio dell’intera comunità dimostrata nell’occasione da Mario Levante (1839-1895) – sicuramente uno dei sindaci più amati dalla popolazione e molto stimato anche dal prefetto – e dal medico condotto Filippo Redanò (1823-1885) valse «a strappare dalla falce micidiale del cholera il 70 per cento degli attaccati» e spinse il Consiglio comunale, interprete della volontà popolare, a proporli per il conferimento di medaglie d’oro, dedicando loro anche una targa di marmo nella sala consiliare con la seguente iscrizione: «Al sindaco Mario Levante nobile patriota, a Filippo Redanò valoroso medico, che nel colera del 1867, con virtù, abnegazione, previdenza eroicamente sublime, centinaia di vittime alla morte strapparono, ad esempio dei posteri questo marmo posero i riconoscenti cittadini». E alla metà del secolo successivo Castelbuono volle ancora dedicare all’amato sindaco il tratto della via Roma su cui si affacciava palazzo Levante, che da allora ha preso il nome di via Mario Levante.
Dal 1872 al 1900, le nascite raramente scesero sotto le 400 unità e nel 1884 si toccò la punta di 544, un picco forse rimasto insuperato sino a noi. Nell’ultimo triennio del secolo i nati si collocarono annualmente al di sotto delle 400 unità, sicuramente a causa della fuga da Castelbuono degli elementi più giovani verso le Americhe. E infatti anche i matrimoni caddero ai livelli più bassi del secolo. Di contro, dal 1871 – se si eccettuano il 1875 e il biennio 1893-94 – la mortalità si mantenne sempre al di sotto delle 300 unità. Inoltre, dal 1869 il numero dei nati superò ogni anno il numero dei decessi, creando un saldo attivò che al censimento del 1901 portò la popolazione castelbuonese a 10.761 abitanti (7.965 nel 1861, 8.222 nel 1871, 8.502 nel 1881), che rappresentano quasi il massimo storico, senza considerare i tanti emigrati castelbuonesi di fine secolo. Una crescita nel quarantennio post unificazione di oltre un terzo (35 per cento), concentrata soprattutto nel decennio 1881-1890, quando si ebbe, sulla base dei registri parrocchiali, un saldo naturale attivo tra nascite e decessi di ben 2.355 unità, che balzavano a 3.651 a fine 1900. Un boom demografico elevatissimo, in linea con quello siciliano, dovuto ai progressi della medicina e a una migliore organizzazione annonaria che riduceva le conseguenze negative delle carestie. Il risultato era una notevole riduzione della mortalità, soprattutto quella infantile, in un’età in cui l’indice di natalità si manteneva ancora elevatissimo, anzi toccò punte mai più raggiunte nel periodo successivo. I vecchi quindi cominciavano a vivere più a lungo e i bambini a superare più facilmente i primi delicatissimi anni di vita, con il risultato di un notevole incremento della popolazione vivente.
Diversamente dal saldo attivo di 3.651 unità indicato per l’ultimo ventennio del secolo dai registri parrocchiali, i censimenti ufficiali registrano tra il 1881 e il 1901 soltanto una crescita di 2.259 unità, con una differenza di 1.392 abitanti in meno rispetto al saldo naturale. Che fine avevano fatto questi 1.392 nati a Castelbuono se non vi risultavano deceduti e neppure presenti al censimento? Erano già emigrati nelle Americhe, abbandonando il paese che era ormai coinvolto nella grande crisi agraria che negli anni Settanta aveva investito l’Europa e, dalla fine degli anni Settanta, anche l’Italia, a causa del grano americano che lo sviluppo della marina a vapore riversava sui mercati europei a prezzi notevolmente ribassati, provocando un disastroso crollo anche dei prezzi degli altri prodotti dell’agricoltura italiana, tra cui molto presumibilmente anche quello della manna, la principale produzione dell’agricoltura locale.
Se l’epidemia di colera del 1884, che fece a Napoli circa 6.000 morti, non giunse a Castelbuono (i decessi furono 220, contro i 239 dell’anno precedente e i 255 dell’anno successivo), nel giugno 1911 vi comparve con i primi 36 decessi, mentre invece in aprile erano stati 14 e 18 in maggio. Anche allora, come nel 1848, si pensava che la sua diffusione avvenisse ad opera di untori forestieri e così, mi si raccontava quand’ero bambino, l’incontro casuale con qualche viso sconosciuto era motivo di grave turbamento. Forse agli untori credevano anche i membri dell’amministrazione comunale retta allora da Giovanni Failla Gambaro, tra i fondatori dell’appeno costituito “Circolo Operaio Unione di Castelbuono”, nonché cognato del consigliere provinciale notaio Giuseppe Gugliuzza. Di fronte all’avanzata dell’epidemia colerica, l’amministrazione comunale si diede letteralmente alla fuga, ma quella del sindaco era avvenuta già prima: le sue tracce si erano perse a fine aprile, quando l’epidemia non era ancora comparsa. In un successivo proclama alla cittadinanza, Failla Gambaro dichiarò che sarebbe rimasto in carica «sino all’abnegazione della mia stessa esistenza, abbeverata di amarezze e d’ingratitudine», ma i «soffi di vipere, le malsane insinuazioni, le menzogne delittuose, la mancanza di qualunque aiuto effettivo», la mancanza di mezzi, l’abbandono da parte dei superiori, la mancata approvazione del bilancio lo avevano convinto con cordoglio a lasciare l’incarico «per quel rispetto che ognuno deve a se stesso». Era stato accusato di essersi appropriato indebitamente di una certa quantità di acqua comunale a vantaggio suo e dei cognati Gugliuzza.
Il 25 giugno sindaco e assessori presentarono le dimissioni, tranne il socialista Pasquale Ubaldo Spoleti, che rimase in attesa della venuta del commissario prefettizio ragioniere Francesco Matranga: «in questi momenti anormali stimai opportuno rimanere nella breccia sino alla venuta della S.V. Ill.ma», nelle cui mani l’1 luglio si dimise da assessore, mettendo però a disposizione del commissario «quel po’ di cooperazione personale che io possa spiegare per il bene della mia Castelbuono». Non può quindi negarsi che l’amministrazione comunale, tranne forse il sindaco, si fosse data alla fuga proprio di fronte all’avanzata dell’epidemia colerica, che in luglio provocava 54 morti, che si ridussero a 19 in agosto, quando ritornò la normalità. Nel corso del 1911 i decessi furono complessivamente 227 contro i 186 del 1910 e i 199 del 1912. Una epidemia molto più blanda quindi delle precedenti.
Il ritorno alla normalità si dovette all’azione preventiva dei due commissari prefettizi – il ragioniere Matranga e il ragioniere Salvatore Lo Voi, che lo sostituì a metà luglio – e all’abnegazione dei sanitari locali, dei funzionari comunali, delle guardie e dei militi della Croce Rossa, i quali «hanno saputo operare miracoli e salvare con pronti rimedii il paese dalla diffusione di una epidemia colerica che si presentava con carattere di estrema virulenza». Nell’occasione, i due commissari si avvalsero anche dei sussidi del governo su sollecitazione dall’onorevole Nicolò Rienzi, «senza dei quali le disgraziatissime condizioni economiche di questa amministrazione (condizioni che insieme alla paura del morbo consigliarono i passati amministratori alla fuga) non avrebbero reso possibile alcuna opera».
Nella sua relazione al prefetto, Matranga fu durissimo nei confronti del sindaco e della giunta: «Qui non esiste più l’amministrazione comunale sin da quando il Sindaco, Sig. Giovanni Failla, lasciò il suo posto ed il paese mentre la gente moriva, mentre il popolo aveva bisogno di conforto, mentre la salute pubblica abbisognava di un’azione illuminata ed energica per evitare l’espandersi dell’epidemia. Il ritiro del Sindaco fu seguito, senza alcun criterio costituzionale, dalla giunta municipale, composta di persone non certo tali da poter avere la capacità ed autorità morale di dirigere ed amministrare il comune, specie poi nelle contingenze in cui si travaglia. Da qui le proteste di tutte le classi sociali, imprecando allo abbandono in cui fu lasciato Castelbuono dai suoi naturali amministratori, da qui il provvedimento, tanto accetto alla cittadinanza sollevata da un incubo, della S.V.Ill.ma con l’invio di un commissario. Non più la possibilità quindi, del ritorno al potere degli ex-amministratori, invisi al popolo e agli altri consiglieri, privi anch’essi di risorse intellettuali e morali, sia perché pochissimo colti, sia perché sono o calzolai, o fabbricieri o curatoli e simili».
L’ultima grande epidemia ‒ speriamo rimanga davvero l’ultima ‒ fu quella detta della spagnola. «In dies [30 settembre 1918] ‒ annota il registro parrocchiale dei defunti ‒ ingravenit morbus cui nomen influenza estiva o febbre spagnuola, olim grippe». Il morbo infierì e mietette vittime come non mai nella storia del paese. I decessi, il cui numero in settembre si manteneva ancora regolare, nell’ultima settimana ebbero una accelerazione (11 sui 28 del mese) che si fece fortissima in ottobre, quando si contarono ben 160 morti, ossia una media di oltre 5 funerali al giorno, con punte di 8 e un massimo di 9 il 24 e il 30 ottobre. Tanti morti in un mese non si erano mai contati a Castelbuono. Una così forte mortalità creò problemi nuovi che noi oggi non riusciamo neppure a concepire. Si racconta che i funerali andavano deserti e nessuno seguiva più il feretro, neppure i familiari, spesso ammalati e in punto di morte anch’essi. Un caso per tutti: Lorenzo Spallino fu Michele il 7 ottobre perse la figlia Concetta di 2 anni, il 9 la figlia Serafina di 4 anni e l’indomani la moglie Rosa Munfuletto di anni 34. In novembre l’epidemia si attenuò ma si contarono ancora 66 decessi, che si ridussero a 15 il mese successivo. Complessivamente, nel 1918 i morti furono 417.
Per fortuna, il 4 novembre giungeva alla fine vittoriosa quella che è passata alla storia come la Grande Guerra.