Dati, miti, Stati
Il difficile percorso dell’interpretazione di un fatto scientifico e le sue ripercussioni sulla realtà
Numeri, numeri, numeri. Dall’inizio della pandemia, i mezzi d’informazione hanno organizzato la loro narrazione degli eventi attorno a un costante riportare numeri: numeri di morti, di ricoveri, di nuovi contagi, di test, di fattori R, PIL perduti e ritrovati, miliardi in fondi di ricostruzione. L’attenzione al dato scientifico nell’informazione pubblica e nei processi decisionali della politica è inequivocabilmente un bene.
Servono dati per conoscere, serve conoscere per formarsi una libera opinione, servono libere opinioni per garantire la salute di una democrazia. Servono dati anche per prendere decisioni che garantiscano ai cittadini i propri diritti fondamentali, quale quello ad essere curati. Ma a quali condizioni può il dato empirico servire efficacemente da ausilio alla formazione di un’opinione o di una decisione, piuttosto che rivelarsi inutile o fuorviante? Se la domanda è eminentemente politica, la risposta richiama i fondamenti stessi del modo moderno di far scienza e il dibattito sulla natura del dato.
Nel senso comune, il dato empirico viene spesso rivestito dell’aura di neutralità di un’istantanea.
Tuttavia, il modo in cui i dati empirici permettono di gestire e monitorare fenomeni complessi (il diffondersi di un’epidemia, o grandi dinamiche macroeconomiche, o persino il cambiamento climatico) è ben lontano dalla semplicità diretta di un’istantanea. Nella gran maggioranza della prassi scientifica, la raccolta di un dato equivale, piuttosto, al lanciare un’esca su una realtà opaca per capire cosa si cela al di sotto della sua superficie.
Uno splendido esempio viene da un campo di studi e un tempo apparentemente remoto: le origini dell’astronomia moderna. Agli albori del processo che sta alla base della rivoluzione scientifica risiede, infatti, il problema di stabilire quale tra due sistemi astronomici alternativi, il geocentrico e l’eliocentrico, sia vero. Si tratta, tuttavia, di un problema difficilissimo da risolvere empiricamente: il sistema solare trascende ciò che si dà per via diretta ai sensi. Rispondere a questa domanda richiede, dunque, di trovare nella realtà che si dà ai sensi un indice indiretto di un fenomeno che trascende la sfera del direttamente osservabile. Le osservazioni del Sidereus Nuncius che valsero a Galileo la condanna sono un caso esemplare: il problema dei massimi sistemi viene risolto congegnando osservazioni indirette (ad esempio, sulle fasi e le caratteristiche delle ombre terrestri sulla luna) che forniscono elementi per decidere in favore dell’eliocentrismo.
Nella stessa misura dei fenomeni astronomici o, nell’ambito di scienze meno “dure”, di costrutti quali la “memoria” o l’’attenzione”, lo stadio di diffusione e la pericolosità di un’epidemia sono fenomeni di portata e dinamismo tale da funzionare come “scatole nere”, da monitorare tramite indici “indiretti” quali il tasso di mortalità, il tasso di contagi, il fattore di diffusione. Ma il significato di questi dati dipende dalla conoscenza del contesto di decisioni che i dati informano, che a loro volta interagiscono con altre decisioni prese a monte su come e cosa misurare. Si prenda il tasso di mortalità, un dato che gioca un ruolo cruciale sia nella percezione della pandemia sia nei processi decisionali volti ad affrontarla, e che misura il rapporto tra individui deceduti e contagiati. Entrambe queste quantità sono tutt’altro che dati neutri.
La stima del numero di contagi stato dipende da quanti test vengono somministrati e su quale base. Se uno Stato sottopone a test soltanto individui per cui c’è ragione di aspettarsi un contagio (come era il caso in molti Stati tra febbraio e marzo), il tasso di mortalità non può essere interpretato come un indice affidabile di quanto letale sia il virus, cosa che richiederebbe che il numero di contagi si stimasse a campione. Al più, ne può essere una buona approssimazione. Un margine di arbitrarietà si insinua anche nelle stime sui deceduti: basta la presenza del virus in un paziente deceduto per includere il caso nel numero dei decessi per Covid-19? La mancanza uniformità di criteri che hanno guidato il testing tra Stato e Stato ha fornito a lungo un quadro confuso dell’effettivo stato di cose. Una maggiore ricerca di uniformità avrebbe forse garantito la possibilità di coordinare più efficacemente l’azione politica.
La parabola della scienza moderna offre un’altra lezione, nella persona del povero Tycho Brahe, che fu mentore di Keplero a Praga. Dai suoi osservatori sull’isola di Hven, donatagli dal re Federico II di Danimarca nel 1572, Tycho Brahe si dedicò alla raccolta di una mole impressionante di osservazioni astronomiche che costituirà il presupposto delle leggi di Keplero, decisive nell’affermazione dell’eliocentrismo. Tuttavia, in un clima in cui la centralità della Terra era l’epifenomeno astronomico della verità del sistema di credenze cristiano, Tycho Brahe fece quadrare il cerchio delle proprie osservazioni con l’ideazione di un contortissimo sistema misto in cui pianeti orbitano, sì, attorno al Sole, ma il Sole ruota a sua volta, con il suo stuolo di pianeti a carico, attorno alla Terra. In ultima istanza, sono esseri umani inseriti in un dato contesto storico e politico a trarre l’inferenza decisiva. Rimane sempre un gap tra dato e azione che va colmato con una decisione pratica. Non tutto il politico è epistemologico.
Ma l’epistemologico è (anche) politico: una parte dell’arbitrarietà che si frappone tra dati ed interpretazioni, quella, significativa, che dipende dalle decisioni a monte del processo scientifico, si può contenere. Il piano, ambiziosissimo e fondamentale, è il dar priorità politica a tali questioni. Creare istituzioni che riconoscano (criticamente) il ruolo fondante della scienza, permettano di creare banche dati aperte e condivise a livello transnazionale, e definire criteri uniformi per monitorare fenomeni sociali di tale devastante portata è una grande sfida democratica non si può più rimandare.