Uno sguardo al passato. Il debito pubblico in età moderna
Un concetto “fluido”, che muta come l’idea stessa di Stato
Non è facile definire il concetto di debito pubblico in età moderna. Al giorno d’oggi in questa categoria rientrano tutti i prestiti effettuati dallo Stato e dalle amministrazioni periferiche per finanziare periodicamente il deficit di bilancio, cioè la differenza tra spese ed entrate. Tra il XIV e XVIII e secolo, l’idea di debito pubblico presentava una maggiore fluidità, mutando nel tempo esattamente come mutava l’idea di Stato. Inoltre, nella eterogeneità degli assetti politici ed economici, il sistema della finanza pubblica mostrava analogie e differenze che rendono molto difficile l’identificazione di un modello uniforme.
Molto probabilmente, la categoria del debito pubblico così come la intendiamo oggi iniziò a delinearsi soprattutto nell’Ottocento, con l’affermazione dello “stato amministrativo-burocratico”, e quando la politica fiscale si distacca dalla politica monetaria, con l’istituzione delle banche centrali.
Fino a quel momento, il debito pubblico aveva assunto connotazioni teoriche ed empiriche estremamente differenziate, sia in termini geografici, sia diacronici. Ciò nonostante, nella consapevolezza delle diversità che persistono nei primi secoli dell’età moderna, è possibile individuare un termine a quo per lo sviluppo del debito pubblico, che coincide con la nascita delle monarchie assolute nel corso del XVI secolo. Un processo che, come noto, ruotava intorno a due assi fondamentali: la riduzione del potere feudale e la politica di potenza. Entrambe queste azioni richiedevano un’ampia disponibilità di risorse finanziarie.
La politica espansiva condotta da Spagna, Francia, Inghilterra e Sacro Romano Impero nell’Europa del Cinquecento ben ci fa comprendere le enormi esigenze finanziarie legate alla guerra. D’altronde, neanche i più piccoli Stati regionali erano da meno, impegnati anch’essi in politiche di stabilizzazione e di difesa. Appare quindi evidente che la maggiore – e a volte unica – voce di spesa dei bilanci pubblici (in realtà, per essere precisi, bilanci delle Corone o dell’erario) di età moderna fosse costituita dalle spese militari e per la difesa. A fronte di tali spese, gli introiti erano garantiti da imposte e tasse riscosse sia a livello centrale sia a livello periferico.
Tendenzialmente l’imposizione fiscale poteva essere ordinaria o straordinaria.
Nel primo caso, la Corona basava i suoi prelievi su una forma indiretta, ossia si tassavano i consumi, i commerci interni e l’importazione o esportazione di beni. A livello locale, invece, la tassazione era generalmente diretta e quindi commisurata alla consistenza di beni reali o immobili o sulla persona (fuoco o imposte similari). Alla tassazione straordinaria, invece, si ricorreva in occasione di eventi particolari, generalmente bellici, ma anche legati alla celebrazione di ritualità di potere. Questo genere di imposizione era, spesso, indirizzato ai corpi locali (le città, le corporazioni, i feudatari, etc.), suddiviso in quote, che provvedevano a riscuotere quanto pattuito.
Il problema dell’indebitamento pubblico, in generale, si presentava nel momento in cui i flussi di entrata generati dalle imposte non coincidevano con i flussi di uscita generati dalle spese, mentre un’ulteriore ragione per ricorrere all’indebitamento era il raggiungimento del limite della capacità contributiva della popolazione, superato il quale la raccolta fiscale sarebbe inesorabilmente diminuita.
Molto spesso, la fiscalità ordinaria non era neanche sufficiente a coprire le esigenze di bilancio. Nel 1574, ad esempio, le entrate correnti della Corona di Castiglia coprivano solo il 50% del fabbisogno finanziario. La restante parte era supportata da prestiti pubblici di varia natura. Proprio la natura di tali prestiti è la prima e più importante discriminante per provare a sistematizzare il concetto di debito pubblico in età moderna.
Una prima classificazione possibile è tra debito redimibile e irredimibile. Il primo rappresentava sostanzialmente un prestito concesso alla Corona che la stessa si impegnava a restituire comprensivo degli interessi pattuiti; il secondo, invece, era un prestito il cui capitale non sarebbe stato rimborsato e, a fronte di ciò, la Corona si impegnava a risarcire il creditore con una rendita vitalizia o perpetua (e quindi trasmissibile agli eredi).
Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra debito a breve e debito a lungo termine. La prima tipologia aveva origine nelle operazioni di finanza pubblica effettuate dalle città dell’Europa altomedievale. Il più delle volte, si trattava di farsi anticipare da un prestatore o da un gruppo di prestatori una somma a fronte della quale si appaltava il diritto di riscossione di una determinata imposta. Normalmente, tale operazione era la conseguenza di un’asta nella quale l’istituzione appaltante (Corona o città) provava a ricavare le condizioni migliori dall’appaltatore. Un diverso modo di ricorrere al mercato finanziario era costituito dall’assegnazione dell’imposta. In questo caso si agiva ex post, nel senso che la Corona, debitrice nei confronti di un finanziatore gli attribuiva (assegnava) il diritto a riscuotere una determinata imposta fino a concorrenza del debito.
Il quadro delle possibilità di accesso al mercato dei capitali per le Corone e le altre istituzioni di età moderna poteva contemplare anche la vendita degli uffici pubblici. Con tale operazione si vendeva per mezzo di un’asta – per un periodo predefinito o a vita – l’esercizio di una determinata carica pubblica. In questo modo, l’acquirente della carica anticipava una somma all’istituzione appaltante mentre avrebbe ottenuto il ristoro del capitale prestato (comprensivo di interessi) attraverso l’esercizio della carica che normalmente prevedeva la riscossione di diritti o balzelli.
La cronica mancanza di capitali fece sì che molto spesso, durante l’età moderna, le monarchie ricorressero all’ipoteca del gettito fiscale futuro. Per esempio, Filippo II di Spagna, appena salito al trono nel 1556, fu informato che le entrate fiscali della Corona erano ipotecate fino al 1561. Questa pratica, molto diffusa a causa delle difficoltà di finanziamento da parte delle monarchie europee, prevedeva l’attualizzazione del credito da parte del finanziatore con l’applicazione del tasso di interesse alla somma anticipata. In cambio, veniva concessa in garanzia la possibilità di esigere imposte future. È evidente che tale operazione traslava sugli anni a venire l’onere di garantire il finanziamento delle attività della Corona ma, per comprenderne la ragione, bisogna utilizzare le categorie e gli strumenti dei sovrani e dei loro consiglieri tra sedicesimo e diciassettesimo secolo.
La razionalità di questa scelta risiedeva nel fatto che il finanziamento era, molto spesso, funzionale alla politica di potenza e che, quindi, costituiva una forma di futuro accrescimento delle risorse della monarchia. In questa fase, la finanza europea vide l’affermarsi di intermediari specializzati nella gestione del debito pubblico. In un primo momento, tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, furono soprattutto i mercanti-banchieri toscani ad affermarsi sui mercati internazionali, sostituiti nel corso del Cinquecento dai genovesi. Questi ultimi riuscirono a sancire una salda e duratura alleanza politica ed economica con la Monarchia spagnola, dando vita – a partire dal primo asiento (prestito) elargito dai banchieri Doria a Carlo V – al cosiddetto “secolo dei genovesi”.
Il consolidamento del ruolo dello stato nel corso dell’età moderna fece sì che il prestito a breve termine – legato alla mancanza di fiducia nel debitore, agli alti costi di transazione del mercato finanziario e alle persistenti asimmetrie informative – lasciasse spazio ai contratti a lungo termine. Ciò nonostante, capitò frequentemente che lo Stato dovesse dichiarare default. ossia l’impossibilità a pagare i propri debiti. Nella Spagna di Filippo II capitò nel 1557, 1575 e 1596. A ben vedere, non si trattava esattamente di un fallimento nel senso giuridico del termine. Piuttosto, la “bancarotta” era uno strumento di negoziazione che la Corona aveva nei confronti dei propri creditori. In questo modo si sarebbero potuti contrattare nuovamente i termini relativi ai tassi di interesse, durata e clausole accessorie del prestito.
L’allungamento della durata media dei prestiti concessi alle Corone, volendo fare una generalizzazione, portò a un deciso abbassamento dei tassi di interesse. I dati riportati da Herman Van der Wee circa i tassi di interesse applicati sui prestiti negoziati dalle città di Bruges e Anversa tra XV e XVI secolo dimostrano chiaramente tale tendenza. Nel 1420 il tasso di interesse annuo medio si aggirava intorno al 30%; nel 1460 tale tasso si era attestato intorno al 20%, percentuale che rimase grosso modo invariata fino agli anni Venti del Cinquecento. Nel 1550 il tasso di interesse era sceso al 10%. Un secolo dopo, alla borsa di Amsterdam, i titoli del debito pubblico olandese pagavano un tasso di interesse compreso tra il 4% ed il 6%. Tale risultato era il frutto del consolidamento dello stato moderno da una parte e delle innovazioni intervenute nel mercato finanziario soprattutto ad opera degli stessi olandesi, dall’altra.
Merita sicuramente una breve digressione la questione delle innovazioni occorse al mercato finanziario nel corso dell’età moderna, la più importante delle quali, è la creazione della banca di Amsterdam e di quella d’Inghilterra. I due istituti, fondati a poca distanza di anni l’uno dall’altro, avevano la loro origine proprio nella gestione del debito pubblico. A partire dal XVII secolo, gli Stati iniziarono ad emettere debito pubblico attraverso sottoscrizioni pubbliche e non affidandosi a singoli banchieri. La sottoscrizione pubblica si rese via via sempre più necessaria a causa dell’aumento dei fabbisogni finanziari degli stati di età moderna e dell’impossibilità di soddisfarli da parte di un solo soggetto.
La banca d’Inghilterra e quella di Amsterdam si specializzarono nell’intermediare tale genere di attività collocando sul mercato, tra i risparmiatori quote di debito pubblico emesso dalla Corona. La diffusione delle idee illuministe nell’Europa del XVIII secolo portò ad una riconsiderazione delle politiche fiscali e del debito pubblico in direzione di una razionalizzazione delle stesse nell’ambito di una nuova visione dello stato e delle sue funzioni. Il punto nodale di questa visione era la necessità di riportare in un unico alveo i mille rivoli che costituivano l’indebitamento dello stato al fine di assicurare una più efficiente gestione. Tuttavia, l’incerto procedere delle riforme sotto l’incalzante fabbisogno finanziario degli Stati europei e le turbolenze politico-sociali, che caratterizzarono la seconda metà del secolo, permisero solo una parziale realizzazione delle riforme in ambito finanziario.
Nondimeno, ebbe un ruolo la resistenza a qualsiasi cambiamento operata dai ceti che nel corso dei due secoli precedenti si erano ritagliati un ruolo nell’intermediazione e avevano consolidato le proprie posizioni grazie al debito pubblico. Sono esempi in tal senso i tentativi del governo rivoluzionario francese di centralizzare e ridurre il debito pubblico attraverso gli assegnati, così come i tentativi di consolidamento del debito pubblico nel Regno di Napoli operati da Carlo di Borbone e da Ferdinando IV.
Solo l’affermazione dello stato burocratico-amministrativo, il rafforzamento della borghesia e la diffusione di sistemi creditizi avanzati, nel corso del XIX secolo, permisero il completamento del processo di razionalizzazione del debito pubblico, il suo accentramento e la sua definizione come passività dello Stato.