Covid-19, tra scienza ed etica pubblica
Per un nuovo rapporto tra società, informazione medica e politica
Assumere una pillola ogni giorno per contrastare il contagio sarebbe un’agile via d’uscita, in linea con ciò che abbiamo sempre fatto di fronte a ogni accadimento che ci ha esposti a notevoli trasformazioni.
Le nostre pillole sono di difficile digestione e con un esito estremamente incerto. La rinuncia a parte della libertà di movimento porta a chiedersi fino a che punto possiamo spingersi e in vista di cosa? Ci siamo ritrovati a riflettere sull’erosione della nostra democrazia: ma quali sono gli elementi caratterizzanti questa minaccia antidemocratica? L’isolamento o distanziamento sociale ribadisce a mio avviso una nozione etica fondamentale: quella che Judith Butler ha chiamato “alleanza dei corpi”.
Un’alleanza che si delinea a partire dalla comune vulnerabilità. Abbiamo toccato con mano la necessità di superare ogni logica egoistica e la necessaria interrelazione tra individui, e tra individui e Stati. Ogni ottica astrattamente sovranista, o meramente liberista-individualistica, emerge in tutta la sua parzialità.
Mi sembra illuminante quanto scrive la Butler ragionando delle forme di apparizione del corpo nel campo politico collettivo: «nella nostra vulnerabilità individuale alla precarietà socialmente indotta, […] ciascun io può scorgere quanto il proprio senso di ansia e fallimento, percepito come unico, sia in realtà implicato in un più ampio mondo sociale». Ben prima della diffusione della pandemia, il polimorfismo della mondializzazione ci richiedeva un coordinamento: oggi gli strumenti per reagire alla minaccia sanitaria necessitano di una visione planetaria, nuove forme di collaborazione e di responsabilità di valore politico.
La risposta alla crisi attuale ci richiama perciò alla dimensione etico/politica. Tuttavia questa risposta non ci basta. E non può bastarci perché ci sembra giustamente astratta.
Tra le derive antidemocratiche paventate da più parti c’è quella scientista, una forma di tecnocratica soggezione ai medici/scienziati. È fuor di dubbio che la funzione dello scienziato e del medico oggi sia essenziale alla comprensione e alla previsione dell’andamento dell’epidemia. Tuttavia, chiunque abbia esperienza di una forma di sapere scientifico conosce i suoi limiti, in termini di ambivalenza, complessità e incertezza. Cercare spiegazioni e strumenti innovativi offre nuove prospettive e costringe a tematizzare il ruolo fiducia verso la scienza.
In tal senso mi sembra interessante – ai fini dell’analisi del rapporto tra ruolo della scienza e il processo democratico – il caso della selezione delle risorse sanitarie. Se siamo in uno stato di eccezione e c’è carenza di risorse sanitarie, quali scelte devono essere compiute? È il problema noto come triage, o della giustizia sanitaria: come distribuire risorse spesso insufficienti? Quali destinatari privilegiare, e sulla base di quali criteri? Se tutte le vite, per lo meno umane, sono degne di ricevere cure adeguate, poi nei fatti, molti sono i casi i cui il miglior trattamento sanitario è riservato a pochi. Due sono i criteri che prima facie possono guidare questa difficile scelta riguardo all’accesso alle cure intensive: First come, first served o quello della maggiore speranza di vita.
È quanto emerge dal documento di autoregolamentazione dei medici anestesisti, SIAARTI (Raccomandazioni per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione), e su ciò si è sviluppato un intenso dibattito pubblico. Emerge il bisogno dei medici di rendere trasparenti e il più possibile condivisi i processi decisionali che conducono a destinare e valutare i pazienti ammissibili alle cure intensive. I suoi criteri orientativi sono incentrati sulla possibilità di sfuggire ad un approccio emotivo e rapsodico ai trattamenti di terapia intensiva e alla volontà che tali decisioni siano il più possibile condivise con il paziente e con familiari, sulla base dell’esplicitazione delle prospettive del paziente.
Bisogna riconoscere perciò, come fa notare Maurizio Mori, che non si tratta di fattori clinici e scientifici a guidare tali scelte, ma extra clinici. Sono le disposizioni anticipate – le valutazioni della famiglia riguardo alla prognosi e la condivisione mediante consenso informato delle cure possibili, a guidare l’assenso e la scelta dei sanitari – in accordo e in dialogo con i familiari , o con il paziente stesso.
Comprendiamo dunque di dover mettere in conto che la rilevanza della dimensione pubblico-partecipativa non è riducibile a semplice emotivismo e che agisce già dentro lo stesso processo scientifico.
Nell’elaborazione di documenti di autoregolamentazione le stesse categorie professionali, medico-sanitarie, a cui vengono chieste risposte definitive, ricorrono a criteri extrascientifici e tengono conto della strutturale incertezza che la scienza e le sue applicazioni medico terapeutico portano con sé.
Questo caso studio induce a chiarire la mia posizione, certo non isolata. Forme limitate di partecipazione pubblico-politica al discorso scientifico richiedono due condizioni fondamentali. La prima è l’esplicitazione da parte degli scienziati del legame tra conoscenza tecnico scientifica e incertezza, concetto che ben dovrebbe essere chiarito dalle istituzioni e da chi si rivolge ad un pubblico in forme anche paraistituzionali. In secondo luogo, il continuo e indomito esercizio del controllo pubblico e dei soggetti coinvolti sulle decisioni intraprese, che, se collettivamente ci chiedono risposte, collettivamente devono essere discutibili. Questo obiettivo richiede però una fondamentale precondizione: la capacità delle istituzioni di una comunicazione chiara e adeguata ad una popolazione eterogenea.
Una forma di informazione e comunicazione che faccia uso di un lessico non tecnicistico né burocratico, condizione assente spesso nei discorsi e nei provvedimenti farraginosi recentemente svolti. La politica agisce a partire dalle stato delle conoscenze maturate: se l’incertezza scientifica è comunicata sarà possibile allargare i processi decisionali, e in primo luogo la posta in gioco.