Guerra al virus? Qualche alternativa linguistica per pensare e agire
Non bisogna attrezzarsi per affrontare adeguatamente la prossima pandemia, ma perché non avvenga. Appunti per il dopo emergenza
C’è un’emergenza sanitaria che impone un regime di limitazioni al normale svolgimento della vita: bisogna vigilare non diventino permanenti anche dopo l’emergenza. Indipendentemente dal passato e dalle responsabilità politiche nei ritardi e nel modo confuso di affrontare la questione, nelle restrizioni dei decreti governativi non c’è traccia di biopolitica, vessazione e, in generale, nulla da lamentare (se non il disagio). Salvo il caso in cui sia possibile pensare a misure alternative, le restrizioni sanitarie non vanne confuse “partiticamente” con quelle delle politiche di sicurezza. Penso che ci sia da stare attenti in vista del futuro. Questo sì.
Ciò precisato, un luogo in cui individuare la biopolitica pervasiva della nostra vita odierna mi pare che ci sia. È quello della lingua, il che vuol dire quello del pensare, il che vuol dire quello dell’agire.
La lingua è il mezzo supremo di ciò che può definire al meglio la biopolitica, cioè il mezzo supremo dell’“oppressione senza oppressore”, della “prevaricazione senza prevaricatore”. Perché essa rappresenta la pratica quotidiana più immediata, “normale”, della vita stessa: la lingua è il mezzo dell’oppressione senza oppressore ed è al contempo, avrebbe detto Louis Althusser, la posta in gioco. Plasma la nostra mente e la nostra azione e in essa, nella consapevolezza di essa, si dà anche la via che porta al processo di liberazione.
Sì, la liberazione passa per il non farsi parlare dalle parole ma parlarle. Così – poiché l’azione sanitaria di questi giorni naturalmente è anch’essa oggetto di parola – è qui, nella pratica linguistica che la concerne, che possiamo individuare gli elementi di biopolitica. E trovare la materia per una critica che non si esaurisca nel chiedere per il “dopo emergenza” – oltre all’abolizione delle odierne restrizioni di circolazione – più investimenti per la sanità pubblica e, per il resto, un ritorno alla vecchia normalità. Ma, finalmente, arriviamo al punto.
Non c’è giornale, telegiornale, trasmissione, post su un social, né uomo politico o scienziato, virologo o biologo che non si riferisca quotidianamente al rapporto tra gli umani e il coronavirus in termini di guerra. Da qualcuno ciò è stato già osservato ma i media ufficiali sembrano non tenerne il minimo conto. Forse perché è stata presentata, per quel che so, più la pars destruens che quella construens(1). Già Daniele Cassandro, nell’affrontare la questione, concludeva: “Abbiamo urgente bisogno di nuove metafore e di nuove parole per raccontarci i giorni che stiamo vivendo; quelle vecchie rischiano di trasformare in un incubo non solo il presente ma anche, e soprattutto, il futuro che ci aspetta”(2). Che è ciò che qui vorrei tentare, anche perché a me sembra che il problema biopolitico esista, come dicevo, indipendentemente dalla valutazione che si dà degli attuali divieti governativi. E mi sembra pure che concentrarsi su questi ultimi, almeno fino a che non si abbiano elementi per sospettare che siamo davanti a decisioni di carattere autoritario, significhi arenarsi su questioni come “runner sì-runner no” ma anche “fabbriche aperte sì-fabbriche aperte no”. E intanto lasciare inalterato il problema biopolitico di fondo, inerente al linguaggio e, come si diceva, dunque al pensiero e dunque all’azione (compresa quella di carattere medico generale).
E quindi passiamo all’analisi del linguaggio corrente e alle sue possibili alternative. Se c’è un virus cui “fare la guerra”, da “combattere”, “debellare”, “uccidere”, “sterminare”, se c’è questo “nemico invisibile”, il “maledetto virus che si porta via i nostri cari”, la soluzione in ultima istanza non può che essere di carattere farmacologico: il famoso vaccino che ci permetterà di mettere fine all’emergenza e di riprendere la “vita normale”. Certo, con più ospedali, più respiratori, più medici e laboratori di ricerca scientifica e studiosi più pronti ad affrontare la prossima epidemia con nuovi vaccini, e politici più solleciti nell’attuare le pratiche necessarie. Ma pur sempre la nostra “vita normale”. In fin dei conti – è questo che implica la metafora della guerra – noi vogliamo che questo virus (e ogni altro che verrà) possa essere eliminato dal nostro corpo. Dunque, che i biologi forniscano ai medici la possibilità di intervenire sul processo patologico in maniera tale da bloccarne biochimicamente lo sviluppo.
Ecco, quella appena descritta è una visione medico-chimica del problema, che inquadra la soluzione in una cornice tecnica, con le sue implicite definizioni di corpo, salute, malattia. Qui:
1) il corpo è un meccanismo fisico-materiale, un “aggregato-macchina”;
2) la salute è lo stato di efficienza di tale corpo, è il suo normale funzionamento assicurato dall’assenza del virus;
3) la malattia, appunto il male da combattere, è il virus, un ben preciso e identificabile elemento estraneo al corpo aggregato-macchina: esso si è introdotto in questo e deve essere eliminato o inibito nella sua azione guastatrice affinché il corpo possa tornare a funzionare come prima.
È qui la biopolitica, che vorrebbe tutto ciò come puramente tecnico ed è invece il frutto di una scelta, o meglio di un’abitudine, innanzitutto linguistica. Infatti, al posto di quella descrizione, è possibile darne almeno un’altra, che interviene a monte, nell’impostazione del problema in senso non biochimico ma fisiologico, con le corrispondenti definizioni di malattia, salute e corpo.
Eccola:
1a) il corpo è un sistema olistico, psico-fisico-ecologico, cioè fatto del rapporto tra mente, materia e ambiente (ambiente in senso strettamente fisico o in senso sociale): in realtà, ognuno dei tre elementi andrebbe considerato a sua volta come un sistema esso stesso;
2a) la salute è la condizione di armonia fra i tre livelli appena detti (sia pure in un’armonia dinamica in cui l’equilibrio può essere descritto in termini di rapporto tra forze o tra gli elementi che costituiscono il regime di vita all’interno di un determinato ambiente, come nell’antica medicina greca, o tra flussi energetici, come nella medicina tradizionale cinese);
3a) la malattia è una turbolenza non sopportata da questo sistema, è una cattiva relazione tra le parti del sistema.
A scanso di equivoci, si noti che la nozione di salute cui ho fatto riferimento in 2a) è pienamente compatibile, forse anche identificabile, con quella della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Salute è lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente di assenza di malattia o infermità”(3). La medicina scientifica, se volesse, potrebbe benissimo sviluppare in piena coerenza con i principi dell’OMS un programma di ricerca fisiologico, naturalmente senza rinunciare ai suoi mezzi tecnicamente sofisticati, non molto differente da quello ippocratico o della tradizione cinese(4).
A danni fatti, in situazione emergenziale, forse la soluzione è davvero quella farmacologica: quella delle medicine utilizzate in questo momento e quella del vaccino che si sta ricercando. Forse. Perché, a rigore, già il provvedimento cosiddetto di “distanziamento sociale” è proprio di tipo ecologico, nel senso più banale del termine cioè in quanto interviene sul rapporto ambientale che favorisce il diffondersi della malattia. In effetti, anche in generale, il virus non è la causa (aitìa, direbbero i greci antichi) della malattia, ma solo l’inizio (arché) che si verifica in presenza di un determinato contesto. Sappiamo bene che non tutti coloro che entrano in contatto con il virus – quello di cui parliamo oggi come anche di una qualsiasi influenza – si ammalano, e sappiamo altrettanto bene che l’abbassamento delle cosiddette difese immunitarie contribuisce allo squilibrio tra noi e il virus. Dunque, l’ambiente: non solo nel senso che noi entriamo in contatto col virus andando a “disturbarlo a casa sua” quando pratichiamo la deforestazione incontrollata(5). Ma anche nel senso che l’ammorbamento ambientale può essere almeno un co-fattore dell’esplosione del contagio(6):il consumo alimentare di animali selvatici ospiti del virus e gli allevamenti intensivi che contribuiscono al “salto di specie” del virus; le condizioni della persona, compresi il grado di stress fisico e/o mentale di quest’ultima, il suo stile di vita (è un caso che il coronavirus abbia molta presa su chi soffre di ipertensione?). Insomma tutto ciò che, non solo l’OMS ma anche l’approccio ippocratico teneva in debito conto, non sembra di poca importanza per pensare soluzioni diverse, all’interno di un diverso programma di ricerca, rispetto a quanto si fa solitamente nel mondo odierno.
Sulla base di queste considerazioni, il problema del linguaggio – di come parlare del virus, soprattutto in rapporto al “dopo emergenza” – assume un carattere differente da quello a cui ci ha abituati la voce dei media e, contro la nozione di salute della stessa OMS, perfino dei virologi. Non si tratta più di “combattere” il virus di turno, di fargli “la guerra”, di “annientarlo” tecnicamente grazie all’aiuto farmacologico dei ricercatori che troveranno il vaccino (che, sia chiaro, è ben auspicabile che venga trovato). Bensì di “equilibrare” o “riequilibrare” il nostro rapporto con esso: ecco le metafore che, pur in punta di piedi, desidero proporre. E poiché questo rapporto si dà a livello ecologico, fisico e mentale, dunque a livello della vita nella sua interezza, e se condividiamo che questa a sua volta si dà (kantianamente?) nella dimensione dello spazio e del tempo, è qui che bisogna agire in futuro per “trovare l’equilibrio” con ogni virus.
La normalità a cui si dovrà chiedere di tornare, allora, dovrà prevedere non solo più medici, più ospedali pubblici e tutto ciò che si diceva all’inizio ma anche una diversa organizzazione, economica e sociale in primo luogo, della vita. Cioè che “lasci in pace” il virus nelle sue foreste, che non inquini le nostre città, che consenta di mantenere forte il nostro sistema immunitario, e in generale indirizzi ad uno stile di vita armonico e non competitivo adatto a favorire il nostro benessere. Anzi no: non adatto a favorire il nostro benessere, bensì costitutivo del ben-vivere, cioè, sulla scorta di Aristotele (il quale era figlio di un medico!), di quel “vivere bene” (éu zen) che si oppone proprio all’affannarsi “all’infinito” (Politica 1257b-1258a). Medicina preventiva? No: piuttosto, medicina concepita secondo un altro paradigma che andrà anch’esso sviluppato all’interno dell’orizzonte scientifico stesso.
Così, il medico potrà tornare a quella funzione – sempre specialistica ma fondata su un’altra definizione del suo oggetto – che nella lingua della Grecia antica era detta therapéia, ovvero “assistenza” cooperatrice del naturale processo di guarigione. Tale funzione non si esprimeva primariamente – come invece tendenzialmente avviene con la medicina odierna, nella forsennata prescrizione di farmaci, spesso responsabili dell’abbassamento delle difese immunitarie – all’interno di un’ideologia, fondata su una ben precisa organizzazione del lavoro, della guarigione “più rapida possibile”(7). Non a caso Platone, ai suoi tempi, attribuiva tale ideologia della guarigione al lavoratore angosciato, “stressato”, dal pensiero di dovere rinunciare, per la malattia, all’attività da cui ricavava i proventi per vivere: appunto per vivere, non per “vivere bene”. Tale lavoratore, dice Platone (Repubblica 406d), quando il medico gli prescrive una cura basata sul riposo a letto, gli chiede piuttosto un rimedio capace di agire rapidamente spiegando che “non ha il tempo libero per essere malato” e che “non gli è utile vivere badando alla malattia e trascurando il lavoro che gli sta davanti”. Il che coincide con la situazione odierna, con l’aggravante che adesso l’ideologia in questione è diventata senso comune e spesso sono gli stessi pazienti, imboniti dagli spot pubblicitari delle case farmaceutiche (che, piuttosto, andrebbero vietati), a richiedere consumisticamente quei farmaci per liberarsi “in un momento” dei loro mal di testa, raffreddori, influenze, e tornare a vivere “subito” la vita.
Allora, consapevoli della co-responsabilità che nella malattia ha il nostro, sociale-e-individuale, quotidiano modo di vivere inquinante, stressante, in una parola competitivo, che favorisce la malattia, e anzi è la malattia, tutti potremo cercare di modificare almeno parzialmente le nostre abitudini. Non è stato il “maledetto virus” ad averci inflitto sofferenza, non è stato esso a portarsi via i nostri cari, ma la nostra, sociale-e-individuale, organizzazione dello spazio e del tempo. Vorrei che fosse chiaro: non si tratta di colpevolizzarsi ma, piuttosto, di rendersi conto delle proprie risorse, dei cambiamenti che si possono mettere in atto per non creare squilibri con l’eventuale prossimo virus. Si tratta, in sostanza, di self-empowerment.
Se poniamo da parte il livello macro dell’azione politica e scientifica e voliamo basso, bassissimo, cosa possiamo fare individualmente, qui e ora? Molto, nel nostro piccolo. Per esempio, possiamo fare attenzione al nostro consumo di medicine, compresi gli antibiotici e le vitamine che prendiamo perché ci rimettono in sesto “rapidamente”, o al nostro regime alimentare e fisico basato sulla “mancanza di tempo”, e possiamo fare attenzione anche a mangiare più lentamente.
Troppo difficile? Forse possiamo almeno, al livello ancora più generale di gestione del tempo, lavorare sul nostro ansioso, stressante, bisogno di velocizzazione in qualsiasi ambito. Qualche esempio, banalissimo: la nostra esigenza di dire o scrivere subito qualsiasi cosa ci passi per la testa (che poi ci sentiamo costretti a “difendere”), la nostra tendenza a interrompere chi ci sta parlando o a rispondere immediatamente a chi scrive sul nostro profilo Facebook, magari prima di aver letto tutto ciò che ha scritto, o prima di averci pensato sopra non dico un giorno ma almeno qualche minuto.
Lo so, sono passato proprio ad minima. Per questo mi sono allontanato troppo dal tema che mi ero proposto? Non credo: se biopoliticamente, cioè in ogni istante della vita, viene esercitato il potere, in ogni istante della vita – almeno nel momento in cui ci rendiamo conto di poterci riuscire – va esercitato il tentativo della liberazione da esso. Insieme e da soli.
Per chiudere, un’ultima riflessione sulla lingua che usiamo ogni giorno, di questi tempi, stavolta proprio in riferimento alla pars construens. Mi riferisco alla frase “andrà tutto bene”. Sia detto senza paternalismo: andrà bene se ci sforzeremo di incidere anche sul “dopo emergenza”, sul cambio di paradigma. Altrimenti, avremo fatto come quell’uomo che, mentre cadeva dal grattacielo, pensava che alla fine gli sarebbe andata bene perché ad ogni piano poteva dirsi “fino a qui va tutto bene”.
Note:
1 Il che vale anche per l’ottimo articolo di F. Faloppa, Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra, in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/cura_parole_2.html?fbclid=IwAR1pGCBpuxg8_-svFYTT6TUJVQJEP9lRkYGdxyYJApfPKkgVZp692hh6gKI
2 D. Cassandro, Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore, in https://www.internazionale.it/opinione/daniele-cassandro/2020/03/22/coronavirus-metafore-guerra
3 Cf. https://apps.who.int/gb/gov/assets/constitution-en.pdf: “Health is a state of complete physical, mental and social well-being andnot merely the absence of disease or infirmity”.
4 Si ricordi a questo proposito, per esempio, F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1992, capp. 5 e 10. Inutile sottolineare che con l’espressione “programma di ricerca fisiologico” mi riferisco non ai contenuti specifici ma al carattere olistico di queste forme di medicina: per il paradigma ippocratico cf. F. Lopez, Il pensiero olistico di Ippocrate, voll. 2, Cosenza 2004-2008.
5 Questo aspetto è ben trattato ad esempio, in uno scritto in realtà per me non sempre condivisibile, da M. Benasayag, B. Cany, A. Del Rey, T. Cohen, R. Padovano, M. Nicotra, in Piccolo Manifesto in tempi di pandemia, in http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/01/piccolo-manifesto-in-tempi-di-pandemia/ Ma il tema del rapporto tra salute e ambiente è naturalmente ben studiato: cf., solo per ricordare un grande studioso, A. Sacchetti, L’uomo antibiologico. Riconciliare società e natura, Milano, Feltrinelli, 1985.
6 Sui rapporti tra diffusione del coronavirus e inquinamento (almeno come co-fattore) cf. ad es. la ricerca di cui in https://projects.iq.harvard.edu/covid-pm
7 È necessario ricordare che già nel 1976 Ivan Illich, nel suo Nemesi medica (tr. it. Milano 2004), descriveva i rischi dell’espropriazione della salute da parte della medicina odierna e dal suo carattere iatrogeno? E ciò anche indipendentemente dai posteriori elementi autocritici formulati dallo stesso Illich (pubblicati in appendice allo stesso volume; su alcuni limiti del discorso di Illich cf. G. Vissio, «La vita preferisce l’asimmetria». Ripensare la salute tra medicina e anti-medicina, in ‘Lessico di etica pubblica’, 1, 2015, 96-108).