Virus e guerra: le insidie di una metafora
Immagini belliche in tempi di pandemia
Negli anni Ottanta del Novecento, con la pubblicazione di “Metaphor we live by”, George Lakoff e Mark Johnson mettono in luce che la metafora non è soltanto un escamotage retorico utile a colorare i nostri discorsi. È uno strumento del pensiero essenziale: non parliamo e scriviamo semplicemente con le metafore, ma pensiamo anche con esse. La metafora è essenziale per il nostro linguaggio, la nostra cognizione e la nostra cultura in quanto dà forma al modo in cui pensiamo e agiamo, individualmente e collettivamente.
A tal proposito, da quando si affronta l’emergenza coronavirus, il dibattito pubblico sul tema si è conformato all’uso della metafora bellica. Si parla del virus come se fosse una guerra: “bollettino di guerra”, “Paesi in guerra contro il virus”, Trump si definisce “un presidente in tempi di guerra”. Gli ospedali divengono “retrovia di questa guerra”, le mascherine e i ventilatori sono le “munizioni che ci servono per combattere questa guerra” e in fase di lockdown ci è stato continuamente ripetuto che “l’unica arma a disposizione dei cittadini è restare a casa e rispettare le regole”.
In accordo a Lakoff & Johnson, il parlare del virus nei termini bellici rispecchia una sua concettualizzazione più profonda: le azioni per frenare la diffusione divengono allora strategie di guerra, i medici sono i soldati, il sistema sanitario è l’alleato, i trattamenti medici e il rispetto delle regole divengono armi.
L’uso di questa metafora nel discorso politico, scientifico e medico non è nuovo: il linguaggio militaristico appare infatti in molti settori della vita pubblica e viene usato soprattutto quando si vuole esprimere, potremmo dire, una tonalità emotiva negativa e urgente che catturi la nostra attenzione e motivi le nostre azioni.
La pervasività della metafora bellica, cui lo psicologo Ray Gibbs ha dedicato un libro dal titolo War Metaphor (2017), sembra esser dovuta sostanzialmente a tre fattori: (a) si basa su una conoscenza schematica e universale che struttura in modo efficiente il nostro modo di pensare a diversi tipi di situazione; (b) esprime una tonalità emotiva particolare che cattura l’attenzione e motiva certi comportamenti; (c) è flessibile, dunque può adattarsi facilmente a diversi contesti, argomenti e interlocutori.
Dunque, usando questo tipo di metafora per parlare dell’emergenza virus, i governi cercano di comunicare la gravità di questa crisi, una gravità che richiede un tipo di intervento pubblico e un sacrificio personale che le Nazioni non hanno mai sperimentato in tempi di pace. Ma siamo sicuri che queste “immagini” siano adatte per parlare dell’emergenza che stiamo vivendo?
La questione sembra essere abbastanza problematica, soprattutto quando la metafora viene usata in dichiarazioni di esperti che dovrebbero essere massimamente cauti, come hanno ben messo in luce recentemente Federico Faloppa e Daniele Cassandro.
L’impatto di queste figure retoriche sul pensare, parlare e agire nel contesto delle malattie infettive è stato studiato sistematicamente a partire dai saggi di Susan Sontag dei primi anni Ottanta. La scrittrice suggerisce che le metafore di guerra che costituiscono certi tipi di malattie aumentano notevolmente la sofferenza dei pazienti, in quanto offrono una rappresentazione errata della malattia e inducono in essi un profondo senso di frustrazione, come è stato dimostrato anche da recenti studi sperimentali. Infatti, la guerra è intenzionale, si vince o si perde, e chi vince è il più forte, chi ha combattuto meglio. È davvero così anche per le malattie in generale e per il virus in particolare? Guarire dal virus non è una questione di valore militare, di forza, costanza, eroismo: è invece una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie, di misure pubbliche efficienti e non tardive e, anche, purtroppo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra e della sconfitta ad una patologia significa caricare il malato di sensi di colpa e ostacolarlo nel suo percorso di guarigione: abbiamo visto, ad esempio, le rappresentazioni che i giornali fanno dei malati come “untori”.
Ma le ripercussioni negative della metafora bellica non agiscono soltanto ad un livello individuale: coinvolgono pericolosamente l’intero tessuto sociale, causando panico e paura. In Italia abbiamo visto svuotare i supermercati da chi provava a prevenire l’insensato rischio di un “razionamento in tempo di guerra”; dalla Lombardia i lavoratori e gli studenti del Sud sono “fuggiti”, incuranti della possibilità di essere essi stessi portatori di contagio. Abbiamo assistito alle inquietanti immagini delle file di persone davanti ai negozi di armi negli Stati Uniti e i tentativi francesi di “puffare il virus” con il rischio di trasformare la zona blu di persone travestite da Puffi in zona rossa per il pullulare di contagi.
Ma ancora, la guerra è caos, morte e distruzione intenzionale senza limiti, comprende eventi incontrollabili che si verificano e lascia sprofondare leggi e convenzioni che vincolano le società in tempo di pace. In guerra le risorse vengono spese senza alcuna prudenza e nessun sacrificio è eccessivo. Questo immaginario attivato dalla metafora bellica rende salienti, pericolosamente, valori legati alla divisione e allo scontro, al posto di valori legati alla solidarietà di cui avremmo bisogno.
Abbiamo visto prima il sorgere della xenofobia contro le comunità asiatiche e le accuse di Trump alla Cina, la politica di “resa” di Boris Johnson che suggeriva ai concittadini di abituarsi all’idea di perdere i propri cari, le tesi di una “guerra commerciale” contro l’Italia e guardiamo ancora con stupore allo sviluppo del mercato nero delle mascherine. Ancora, la metafora bellica ci conduce direttamente alla “diplomazia aggressiva della generosità”, per usare un’espressione di Josep Borrell, rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea. In un’Europa – e in un Occidente più in generale – in cui la divisione è il riflesso bellicoso dell’emergenza virus, i Paesi che praticano solidarietà, come la Cina e la Russia, con i loro aiuti ambivalenti divengono “aggressivamente generosi”.
Dunque, parlare di guerra, invasione ed eroismo in riferimento al virus contribuisce ad allontanarci dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che potrebbe aiutarci ad uscire dallo stato di emergenza e a pianificare il futuro che ci aspetta. Affrontare l’emergenza del virus significa istituire solidarietà e “cura” come principi cardine delle nostre società. Ci porta immediatamente alla necessità di una chiarificazione concettuale, proprio in relazione alle conseguenze pratiche che implica cristallizzare un fenomeno in una determinata definizione, come suggeriscono i progetti di Elena Semino, “Reframing Covid19”, e di Maria Grazia Rossi, “Caring discourse”, finalizzati a riconcettualizzare e ridefinire l’esperienza della pandemia.
E allora ci servono nuove metafore, nuove parole per comprendere ciò che sta accadendo, poiché il modo di raccontare questa storia inevitabilmente influenzerà le sfide che stiamo affrontando e dovremo affrontare.
Bibliografia
Cassandro, D., “Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore” in L’Internazionale (22 Marzo 2020).
Faloppa, F., “Sul nemico invisibile e altre metafore di guerra. La cura delle parole” per Treccani (25 Marzo 2020).
Lakoff, G. & Turner, M., Metaphor we live by, Chicago, University of Chicago Press, 1980.
Gibbs, R. Metaphor Wars, Cambridge, Cambridge UP, 2017.
Sontag, S. Illness as Metaphor, Farrar, Straus & Giroux, 1978.