I cento anni del Pci
La Sicilia, i fatti e gli uomini: guida alla lettura dei Cassetti di Clio
Lo storico Giuseppe Carlo Marino, citando Gramsci, afferma che il Pci siciliano è stato un “principe” capace di trasformare completamente l’isola strappandola alla sua condizione periferica, sebbene in essa mancasse un movimento operaio di una certa consistenza ad eccezione della Fiom e dei lavoratori sindacalizzati del cantiere navale di Palermo. Ed è proprio sulla peculiarità della Sicilia, i cui mali atavici erano radicati nella questione mai risolta della terra ai contadini, che si innesta il processo di costruzione di un partito che, avendo recepito la strategia leninista, inizia a depurarsi dagli elementi di riformismo socialista.
L’Identità di Clio, in occasione del centesimo anniversario della nascita del Pci, ha scelto di raccontare una parte importante di questa esperienza articolando il percorso in tre sezioni: la prima di carattere generale, scritta dallo storico Giuseppe Carlo Marino, rappresenta una sorta guida per il lettore. In essa l’autore ripercorre, in modo breve ma molto esaustivo, la storia del Pci dalle sue origini fino alla svolta della Bolognina, con un occhio rivolto alla realtà siciliana.
Una seconda parte, dedicata alle politiche che il Pci mise in campo per il Mezzogiorno, include anche una testimonianza inedita del professor Francesco Renda sulla questione dell’autonomia dell’isola. Un resoconto storico lucido, onesto e appassionato.
Infine, una terza parte è dedicata ad alcuni personaggi importanti della storia della sinistra italiana: Andrea Raia, prima vittima comunista della mafia, Amedeo Bordiga nell’unica intervista da lui concessa e destinata alla pubblicazione, Pietro Nenni, “socialista antidogmatico e giacobino”, ed Emanuele Macaluso, ricordato da Antonello Cracolici ed Elio Sanfilippo.
Da questi contributi emerge come non solo il movimento antifascista formatosi in Sicilia – si pensi alla città di Caltanissetta, solo per fare un esempio, popolata negli anni del secondo dopoguerra da figure di intellettuali come Pompeo Colajanni – ma anche le lotte contadine abbiano avuto un ruolo determinante e incisivo nelle vicende politiche nazionali: dalla riflessione meridionalista alla riforma agraria; dalle occupazioni delle terre, e quindi dalla lotta contro la mafia, alla battaglia per l’autonomia.
Una Sicilia, quella del dopoguerra, lacerata dall’ingiustizia e dalla sopraffazione. La drammatica condizione di vita degli zolfatari bambini, costretti a un lavoro massacrante e, spesso, vittime anche di abusi e violenze fisiche; la miseria dei minatori, degli artigiani e dei muratori. Gli anni della diffusione del Movimento separatista, concentrato soprattutto nelle città di Palermo, Catania e Messina; i poteri reali dell’isola: aristocrazia, borghesia agraria, notabili, mafiosi.
È in questo contesto che va collocata la storia di un partito che saprà fondere le sue lotte con quelle degli operai del Nord e che si mostrerà in grado di incidere profondamente nella politica nazionale, come emerge dall’esperienza del milazzismo, ricordata sia da Giuseppe Carlo Marino che da Elio Sanfilippo nella sua intervista in memoria di Emanuele Macaluso che di quell’operazione fu il principale artefice.
Un partito, quello comunista siciliano, che contribuì al processo di “nazionalizzazione delle masse”, per citare Sebastiano Finocchiaro (S. M. Finocchiaro, Momenti e problemi di storia politica in Sicilia 1944-1953, Palermo, Istituto Poligrafico Europeo, 2011). Lo stesso Pio La Torre – nella sua relazione alla riunione della Commissione meridionale del 13 luglio 1976 – afferma che senza dubbio l’avanzata del Pci nel Mezzogiorno, tra il 1947 e il 1953, era stata determinata dalla crisi del blocco agrario e dall’irrompere sulla scena del movimento contadino nella seconda metà degli anni ’40 e dei primi anni ’50. E se, da una parte, quel grande moto contadino di rinascita aveva contribuito in modo decisivo ad aprire la strada allo sviluppo democratico del Paese, tuttavia, secondo lo stesso La Torre, mancavano allora le condizioni per dare uno sbocco istituzionale alle conquiste realizzate nel Mezzogiorno.
L’istituzione delle Regioni e la nascita di nuovi rapporti di forza politica negli anni Settanta avrebbero reso possibile un piano di lotta per la programmazione democratica delle risorse, capace di infliggere un colpo decisivo al sistema di potere clientelare e di avviare una rinascita economica e sociale nel meridione. A partire dal processo di unità sindacale, passando per la lotta contro il clientelismo e la disoccupazione, fino alla questione di genere, ovvero al ruolo politico delle donne.
La centralità del Mezzogiorno è il cardine della politica e dei programmi del Partito comunista e il grande tema della valorizzazione delle risorse delle regioni meridionali, in primo luogo dell’agricoltura, andava posto alla base del processo di unificazione europeo di cui già si discuteva alla fine degli anni Settanta. Dunque, da Gramsci a Berlinguer, una cosa è sempre stata chiara ai comunisti: risolvere la crisi italiana significa mettere in atto una politica di risanamento e di sviluppo che passi dalla valorizzazione delle risorse del Mezzogiorno.
E questo, sembra a chi scrive, uno dei lasciti più importanti del Partito comunista italiano dal quale sarebbe necessario ripartire ancora oggi, a distanza di cento anni.