I comunisti e quell’autonomia siciliana voluta dagli americani
Intervista allo storico Francesco Renda
Questa intervista allo storico Francesco Renda è stata realizzata nel luglio del 2011, in occasione del Convegno di Studi Vittorio Emanuele Orlando a 150 anni dalla sua nascita, organizzato dall’assessorato regionale dei Beni culturali e dell’Identità siciliana e dalla Società siciliana per la storia patria. L’analisi dello storico – ancora incredibilmente lucido, nonostante la grave malattia che lo aveva colpito – mette in luce il ruolo che i comunisti esercitarono all’interno del dibattito sull’autonomia siciliana, successivamente allo sbarco degli alleati.
Professore, l’istituzione della Corte costituzionale fece scoppiare un conflitto con l’Alta corte siciliana. I deputati regionali del tempo, però, difesero l’istituto locale – previsto peraltro dallo Statuto – affermando che toccare la Corte siciliana equivalesse a intaccare il principio stesso dell’autonomia siciliana.
Premetto che l’Alta corte era stata prevista dallo Statuto originario, poi era stata approvata dalla Costituente, ma non esisteva ancora la Corte costituzionale. Quando questa fu istituita, nel 1955, di propria iniziativa annullò l’Alta corte. Ci furono proteste. Da quel momento, si aprì un dibattito che io non saprei riportare fedelmente perché non rientrava nei miei interessi. Comunque ne ero a conoscenza anche se, va detto, uno memorizza solitamente ciò che gli interessa.
Da parte socialista, democristiana e anche comunista si cercò di trovare una soluzione di mezzo ovvero di istituire, presso la Corte costituzionale, una sezione che riguardasse la Sicilia. Questo provvedimento fu approvato dalle commissioni dopo un lungo dibattito. Quando la discussione del progetto di legge approdò in senato, giunse un messaggio del presidente della Regione nel quale si affermava che il capo dello Stato aveva dichiarato di non poter accettare una modifica di tal genere. Pertanto, l’ordine del giorno fu cancellato. A partire da questo momento, la questione è stata sempre discussa senza però arrivare mai a nulla di concreto.
Io non sono un giurista, sono uno storico ma mi sono occupato molto di politica. Io non ero d’accordo con quanti proponevano di modificare la Corte costituzionale, perché ero perfettamente consapevole che sarebbe stata un’operazione molto difficile. Si poteva però, in parte, rimediare in questa maniera: come sappiamo, la Regione siciliana (come previsto dallo Statuto) prevede la figura di un commissario dello Stato. Questo ha un potere di controllo sull’attività di governo e anche sull’attività legislativa. La Sicilia è l’unica regione in Italia che ha un controllo di questo genere. La proposta che io feci – però non ebbe successo – consisteva nell’ipotesi di abolire il commissario dello Stato, oppure di dare allo Statuto regionale la possibilità di legiferare senza controllo, istituendo l’elemento di garanzia dell’Alta corte. In parole povere: o il commissario dello Stato o l’Alta corte.
Questa proposta ebbe vita di un giorno, l’avrà letta una cinquantina di persone ma non se ne fece nulla. Comunque è un tema difficile da risolvere e che può essere affrontato solo nell’ambito di una riforma della legge costituzionale siciliana e noi non siamo in queste condizioni, perché di questo Statuto che era un tesoro – e non esagero – ne abbiamo fatto qualcosa di spregevole.
Verso la metà degli anni Cinquanta, partecipando al dibattito politico suscitato dal problema relativo all’Alta corte, i comunisti dissero apertamente che la Dc in realtà non voleva l’autonomia. Fatto dimostrato anche dall’appoggio che i deputati regionali democristiani davano alle politiche di Fanfani che erano un po’ freddine nei confronti dell’autonomia. La Dc avrebbe tenuto questo atteggiamento per fare un favore ai grandi monopoli che, in verità, non volevano nemmeno loro questa autonomia. Che ne pensa? È vero, come sostenevano allora i comunisti, che c’erano dei “poteri forti” che ostacolavano in Sicilia il percorso verso il conseguimento dell’autonomia regionale?
Questa era polemica politica. L’autonomia è stata applicata male e quindi non si sono trovati gli strumenti che avrebbero consentito di utilizzare le potenzialità nazionali. Ciò cui lei fa riferimento è il fatto che la Sicilia, a quel tempo, era molto ricca: avevamo il Piano Marshall, lo zolfo, il petrolio e l’articolo 38. Quindi, di denaro, qui ne avevamo una quantità enorme. La Confindustria nazionale fece un convegno in Sicilia per proporre di intervenire nell’isola con iniziative industriali realizzabili con l’utilizzo di quel denaro.
Ma la Regione aveva un’altra idea. Idea giusta, in astratto però: questi soldi, cioè, dovevano andare alla piccola e media industria. Vuole sapere come finì? Le risorse economiche si dispersero in vario modo e non andarono da nessuna parte, né alla grande industria né alla piccola e media impresa. Alessi fece anche un piano in qualità di presidente della Regione – di cui si può trovare una mia recensione su Cronache meridionali – che prevedeva l’apertura ai monopoli, ovvero alle grandi industrie. Ma c’era l’opposizione comunista che era ideologicamente contraria ai monopoli. Per cui la Dc, che in parte era favorevole alla proposta di Alessi, fu accusata di non essere favorevole all’autonomia. Poi, però, quando venne il governo Milazzo si consentì all’Eni di prendere possesso del petrolio senza grossi problemi. E quello era un governo di centro-sinistra. Questo per sottolineare le grandi contraddizioni di quel periodo.
Quanto influì il separatismo nel conseguimento dell’autonomia siciliana?
Io non credo che l’autonomia alla Sicilia l’abbia data il separatismo, perché il rapporto tra lo Stato e il separatismo è stato molto complesso. In altre condizioni, ci sarebbe stato un colpo di Stato. L’autonomia ce l’hanno data gli americani e adesso le racconto come e perché. Per gli americani, la Sicilia era la retrovia del fronte bellico che si svolgeva in continente. Naturalmente pensavano alla loro politica che, in quel momento, era la guerra. Ci sono alcuni passaggi che di solito vengono trascurati, ma sono decisivi: perché invasero la Sicilia e non la Sardegna? Strategicamente, secondo la Conferenza di Casablanca, si doveva invadere la Sardegna considerata più importante.
L’Urss voleva invece che si aprisse il fronte sull’Atlantico, ma l’America disse che ancora non era preparata e che l’avrebbero fatto l’anno successivo. A Casablanca si erano riuniti per sapere cosa fare del milione di uomini stanziati in nord Africa poiché, dopo che questa era stata liberata, bisognava reimpiegarli. Churchill, uomo di straordinaria intelligenza, pensò che se avessero invaso la Sicilia la sensazione prodotta in Italia sarebbe stata quella dell’invasione di una parte importante del territorio nazionale. Questo, tra parentesi, per quei siciliani che pensano che la Sicilia sia altra cosa rispetto all’Italia.
Espugnando la Sicilia, l’Italia si sarebbe già sentita occupata con prospettive da venire. E infatti fu organizzato l’esercito in questo senso. La Conferenza si tenne a gennaio e l’invasione ebbe luogo in luglio. Fu deciso, inoltre, che il governo della Sicilia, una volta liberata l’isola, sarebbe stato americano. Si discusse anche sull’ipotesi che gli amministratori fossero americani, inglesi, canadesi e australiani oppure se dovesse prevedersi una collaborazione mista.
Fu messa da parte l’esclusiva straniera, anche perché sarebbe costata troppo e non avrebbe avuto molta efficacia. Quindi, si decise di utilizzare solo alcune forze: per esempio i carabinieri, la Chiesa, i grandi proprietari terrieri. L’invasione si realizzò facilmente non perché ci fu tradimento o altro, ma perché la Sicilia non aveva la forza per contrastarla. Gli alleati avevano mezzo milione di uomini, moltissimi carri armati, trecento navi da guerra, millecinquecento aerei, mentre l’Italia fascista era troppo debole. In queste condizioni fu chiesto a Hitler di dare rinforzi ma la risposta del Führer fu negativa, anzi, l’esercito tedesco iniziò persino la manovra di ritiro dalla Sicilia riuscendo, in gran parte, a salvarsi varcando lo Stretto.
L’esercito italiano si trovò in grandi difficoltà a quel punto. Quando gli americani arrivarono a Palermo, Finocchiaro Aprile presentò uno Statuto (la cui copia è oggi reperibile alla Biblioteca dell’Istituto Gramsci di Palermo) e chiese la formazione di un governo siciliano. La risposta fu, ovviamente, negativa perché nel frattempo era caduta l’Italia ed era stato firmato l’armistizio. Dunque, il problema non era più rappresentato dalla sola Sicilia e dal separatismo, ma da tutto il Paese. Churchill ebbe un’idea: trascinare l’Italia in guerra contro la Germania, presentando come contropartita al Paese la concessione della Sicilia.
Vorrei ricordare che Churchill, Stalin e Roosevelt parteciparono a una riunione che si tenne in ottobre a Mosca e dalla quale venne fuori la sottoscrizione di un accordo che si firmò ad Algeri. In questa circostanza, il delegato sovietico venuto in aereo approdò a Palermo al ritorno. Questo suscitò nell’opinione pubblica il timore che l’Urss avesse mire particolari sulla Sicilia. Montalbano, deputato del Pci, aveva chiesto un colloquio con il rappresentante sovietico. Gli americani ne vennero a conoscenza. Ma richiamarono il rappresentante sovietico e gli dissero che non era opportuno che si facesse troppa politica. Comunque, l’incontro avvenne in un albergo, ovviamente pieno di agenti segreti americani.
L’Urss non era contraria al fatto che la Sicilia fosse oggetto di discussione americana. Si era già presa la decisione di dare l’isola all’Italia, ma solo se questa avesse deciso di dichiarare guerra al nazifascismo, come fece nell’ottobre successivo. A dicembre ebbero dunque inizio le trattative per la restituzione dell’isola. Senonché i separatisti, non appena vennero a conoscenza di questa intenzione, minacciarono la rivolta. E siccome allora erano il partito più forte – o almeno così si diceva – la cosa preoccupò il generale Patton, il quale aveva due soli mezzi per reagire alle minacce separatiste: la prima strada era quella di applicare la legge che proibiva le manifestazioni e, in questo caso, ci sarebbe stata una strage, perché l’esercito americano, forte di tanti uomini, avrebbe certamente avuto la meglio su un gruppo esiguo come quello separatista. Tuttavia, il generale scartò questa ipotesi. Preferì, invece, convocare i nove prefetti da lui nominati per discutere con loro il modo più corretto per risolvere la situazione. Si decise, quindi, di restituire la Sicilia all’Italia concedendole però l’autonomia. L’Alto commissario doveva poi essere un siciliano e non un militare.
Questa proposta, naturalmente, mise in movimento un processo perché, quando venne presentata al governo: Badoglio e Vittorio Emanuele, in un primo momento, dissero di no dato che questa risoluzione avrebbe implicato una modifica dello Statuto albertino. Quando però capirono che senza quella modifica non avrebbero più avuto la Sicilia accettarono l’autonomia. Non solo la Dc, ma anche il Pci era contrario a questa autonomia concessa dagli americani. Dall’agosto in poi il governo – che nel frattempo era cambiato lasciando spazio al Cln – era in ambasce sul che fare della Sicilia, a causa del separatismo che organizzava la guerra civile e del banditismo. Il governo non solo era preoccupato per la situazione, non sapeva nemmeno cosa fare concretamente perché a Roma di autonomia non volevano nemmeno sentir parlare.
Passarono così tre mesi, senza che si concretizzasse nulla. Si discuteva solo sui giornali. Nel dicembre del ’44, il governo fece una legge prevedendo alcune misure economiche per la Sicilia: vennero stanziati alcuni fondi con i quali finanziare progetti concreti per l’isola. Questa legge creò una nuova situazione, in quanto in un suo articolo essa prevedeva che le proposte di impiego dei fondi stanziati venissero proprio dalla Sicilia. Come organizzarsi dunque? Il Cln si espresse a favore di una Consulta formata dai soli sei partiti che lo componevano. Ma l’Alto commissario si rese conto che questa cosa non poteva funzionare: i separatisti non ne facevano parte, nemmeno La Loggia e altri personaggi importanti. Aldisio aggiunse, di sua iniziativa, altre dieci persone portando la Consulta a 36 membri, di cui la maggioranza era costituita da rappresentanti di un Cln diviso in democristiani, comunisti, socialisti ecc.
La Consulta venne dunque costituita nel febbraio del 1945. Il Comitato che doveva lavorare alla bozza dello Statuto venne costituito nel mese di ottobre. Un mese dopo, il compito era già stato assolto. La rapidità con la quale lo Statuto venne progettato fu sicuramente causa di non pochi problemi: una norma costituzionale che viene approvata in due mesi qualche difetto lo deve avere per forza. Fu il professor Giovanni Salemi – personaggio dimenticato, pur essendo il padre fondatore della nostra autonomia – a redigere la norma costituzionale della Regione sull’esempio dello Statuto albertino e a presentarlo in Commissione. Questa apportò poche modifiche: l’articolo 38 proposto da La Loggia e il 15 proposto da Mineo. L’Assemblea, infine, approvò tutto, meno l’articolo di Mineo.
A questo punto, però, si aprì un nuovo contenzioso in quanto Alessi e la Dc avrebbero voluto che il decreto approvato dall’Assemblea fosse subito trasformato in legge, mentre la sinistra voleva che questo passasse prima al vaglio della Costituente. Il governo nazionale, a maggioranza, fu favorevole e la legge venne sottoposta anche alla Consulta nazionale. In questa occasione Girolamo Li Causi, che era stato un accanito avversario della legge, si dichiarò anche lui favorevole dopo le dichiarazioni di Togliatti. Li Causi, infatti, non era un autonomista. Una volta fatta la legge, l’autonomia iniziò ad avere una funzione.
Quindi, l’autonomia non si ottenne grazie ai separatisti.
Se la questione fosse rimasta in questi termini, probabilmente oggi parleremmo di colpo di Stato e non di autonomia, perché a Roma l’autonomia non la volevano. Lo Stato italiano era centralista e autoritario. Ma c’è la storia americana. E questa ha un riflesso perché molte delle riforme che si fecero in Italia sono di origine americana. Lo Statuto siciliano fu voluto dagli americani. Naturalmente fu fatto nel dicembre del ’45, quando già se ne stavano andando via e non contavano più niente, ma la rottura dello schema centralistico autoritario della legge costituzionale italiana è merito dell’America, dell’America democratica.
La questione dell’Alta corte fu oggetto di un contrastato dibattito. Fu questione politica o meramente giuridica? Vittorio Emanuele Orlando, ad esempio, dichiarò che il problema dell’alta Corte fosse di natura squisitamente politica e per questo doveva essere il governo a risolvere il problema.
Le rispondo in modo molto malizioso. Tutte le questioni giuridiche sono anche politiche. Quindi, quando Orlando sosteneva che fosse una questione politica aveva ragione certamente, ma che avesse un profilo giuridico fondamentale, anche questo è fuori discussione. Immagini lei se la Corte costituzionale fosse divisa oggi.
Vittorio Emanuele Orlando svolse in quell’occasione un’importante funzione giuridica, elaborando una sua proposta per giungere alla soluzione del tema relativo allo scontro tra Alta corte e Corte costituzionale.
Che Vittorio Emanuele Orlando abbia avuto una funzione importante questo è verissimo. Orlando, in definitiva, dalla guerra era uscito lacerato e non lo meritava. Egli faceva parte di una nuova generazione politica. Era liberale e rimaneva comunque il presidente. Quando in Sicilia venne eletto il presidente dell’Assemblea, anziché scegliere lui preferirono Cipolla. Orlando non era tenuto in grande considerazione, sebbene la sua voce avesse un peso. Ma va anche detto che Orlando era mafioso e capomafia. Può sembrare che questa mia affermazione sia politica, come lo sono di solito molte accuse di mafia e mafiosità. In Sicilia praticamente mafiosi lo siamo tutti, solo che alcuni commettono delitti altri invece ragionano da mafiosi. Nemmeno io mi escluderei. Escluderei lei invece.
E perché dovrei essere esclusa da questo ragionamento?
Perché lei appartiene a una nuova generazione e le nuove generazioni crescono in modo diverso. Ma in Sicilia il potere ufficiale, fin dalle origini, è stato un potere mafioso. La mafia è un potere borghese quindi chi comanda non può non avere rapporti con essa.
Ora Orlando, che è stato uno degli uomini più rappresentativi della storia italiana – lo dico io da uomo di sinistra – era mafioso. E di questo lo si accusava continuamente. Era mafioso perché originario di Carini e a Carini se non eri mafioso, specie a quel tempo… però era un grandissimo intellettuale: a soli vent’anni fondò una rivista che fece rumore; in veste di professore universitario, studiando il diritto tedesco, modificò la concezione del diritto italiano. Naturalmente, poi, divenne ministro e di lezioni ne faceva una all’anno. Non era il solo. Orlando stesso difese il suo essere mafioso: si disse fiero di essere mafioso, dandone una motivazione complessa. Ma questa non è la storia di Orlando. È la storia d’Italia.
Oggi si discute ancora se l’attuale presidente del consiglio (Silvio Berlusconi n.d.r.) abbia avuto o meno rapporti con la mafia. E vuole sapere come la penso? Mi risulta impossibile credere che Berlusconi non abbia mai avuto questi rapporti. Che ci sia stato un coinvolgimento diretto nei delitti di mafia, questo è poi un altro discorso. Il tema fondamentale è che ieri noi abbiamo combattuto perché la mafia venisse considerata reato e l’abbiamo ottenuto. Io sono stato partecipe attivo di questa battaglia e non solo per i miei interventi in decine di saggi. Senonché, una volta dichiarata la mafia un reato, l’abbiamo fatta diventare solo una questione giuridica e un affare di magistratura. Manca, invece, la questione politica. Nel mio libro (Liberare l’Italia dalle mafie n.d.r.) sostengo che la mafia criminale sia ben piccola cosa. La mafia che conta è la mafia politica.
Come definirebbe la mafia politica?
Nessuno sa cosa sia la mafia politica. Bisognerebbe fare un’inchiesta per capirlo. Il punto è che oggi nessuno più sostiene che la mafia è politica. Io non voglio fare nomi. In Italia, la cosa più brutta è che la mafia non è più siciliana ma è diventata italiana. E la mia tesi, sostenuta in varie occasioni, è che la Sicilia è sì la madre della mafia ma è, al contempo, la regione più antimafiosa che esista in Italia. Nel senso che in Sicilia non solo la magistratura ma anche un gruppo di persone, seppur non molto numeroso, continua a sostenere attivamente la lotta contro la mafia. Il problema è che noi che portiamo avanti questa forte opposizione contro la mafia non abbiamo la capacità di avere grande influenza sull’opinione pubblica.
Torniamo per un attimo a Orlando. Tra le tante definizioni che gli sono state date, ricordiamo quella di “presidente della vittoria”. Ci vuole ricordare alcuni episodi salienti della vita dello statista siciliano attraverso i quali possiamo farci un’idea concreta del personaggio e della sua importanza?
Orlando fu ministro dal 1900 al 1917, anno in cui divenne presidente nel momento più drammatico, ovvero dopo la sconfitta dell’esercito italiano. Diventa poi, come ricordava lei, “presidente della vittoria”.
Purtroppo però, quando andò a Parigi a difendere la vittoria anziché difendere il diritto dell’Italia si misi a chianciri (piangere n.d.r.), cosa che gli fece perdere credibilità. Per questo, quando tornò in Italia lo sostituirono. A mio avviso, vanno ricordati tre episodi che fanno l’onore e il disonore suo e dell’Italia. Il disonore: la borghesia italiana non fu in grado di fare un governo forte nel 1920. Allora accettò che Mussolini diventasse presidente del Consiglio ricevendo come contropartita l’ingresso al governo. Mussolini senza il sostegno della borghesia italiana non sarebbe diventato presidente e, aspirando a diventare dittatore, non avrebbe potuto fare, come poi invece accadde, la legge che permetteva a chi aveva il maggior numero di voti di aggiudicarsi il 70% dei deputati. Poiché si prevedeva che ad avere il maggior numero di voti fosse proprio il Partito fascista, chi non accettava di aderire al fascismo non entrava nella lista.
Orlando vi entrò diventando membro del governo. Una cosa che invece fa onore al politico siciliano è che, quando nel 1924 Mussolini ottenne la vittoria, Orlando rimase isolato. Un anno dopo, nel 1925, si tennero le amministrative a Palermo (le ultime elezioni in Italia prima dell’avvento del fascismo). E questa volta – mentre tirava già aria di dittatura – Orlando decise di dar vita a una propria lista liberale ottenendo un enorme successo. Però gliela fecero pagare cara: fu avvisato di rimanere in disparte perché, diversamente, avrebbe messo in pericolo la sua stessa vita. L’ultimo episodio è quello relativo al giuramento fascista dei professori universitari. Badi bene che tutti giurarono, anche i comunisti. Meno una decina. Orlando rifiutò di firmare e perse l’incarico. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che era un grande avvocato e che dunque i soldi per vivere non gli mancavano. Però lo fece e il suo gesto rimane nella storia come un atto di grande onore.