Il Dio della vendetta e il Dio della luce
O della pandemia secondo Carlo Maria Viganò e Crescenzio Sepe
Tra gli effetti del covid-19 c’è anche l’accentuarsi delle differenze tra due modelli di comportamento delle gerarchie ecclesiastiche. Il primo ha il suo rappresentante più illustre nell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, nunzio apostolico emerito negli Stati Uniti; il secondo nell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe.
Nei giorni scorsi Viganò ha rilasciato dichiarazioni inquietanti che allo storico ricordano i contenuti, il linguaggio, lo stile controriformistici e barocchi della predicazione quaresimale impartita dai pulpiti delle chiese napoletane durante la peste del 1656. Alle masse di fedeli, predicatori di grido, soprattutto barnabiti, facendo leva sull’immaginario e sulla predisposizione degli ascoltatori alla forsennata ricerca del capro espiatorio, inviavano un messaggio inequivocabile: la peste era il castigo di Dio al popolo napoletano, colpevole di essersi rivoltato contro il suo sovrano, Filippo IV, nel 1647-48. E, naturalmente, additavano nel demoniaco, sodomita, miscredente e peccatore impenitente Masaniello il responsabile non solo dell’atto di insubordinazione, ma anche dell’epidemia pestilenziale.
Come un terrificante predicatore barocco, Viganò ha dichiarato che il coronavirus è stata la punizione divina per i peccati dell’aborto, dell’eutanasia, per “l’orrore del cosiddetto matrimonio omosessuale, la celebrazione della sodomia e delle peggiori perversioni, la pornografia”. Nell’intervista al giornale cattolico “The Remnant” ha tuonato contro la corruzione dei piccoli, la profanazione della domenica, gli intrighi finanziari. E ancora: “Il Signore, quando col peccato disobbediamo ai suoi precetti, non ci lascia morire, ma ci viene a cercare, ci manda tanti segnali”.
È la visione di un Dio vendicatore che restituisce l’amicizia con lui solo a chi si pente e fa penitenza. Manca solo il supplizio finale dell’ “auto da fe” barocco. Il peccato è quasi “uno sputo sull’amorevole volto del Signore.
La Chiesa non è mai imperfetta, è infallibile e santa, è il corpo mistico del Signore”. È di qualche giorno fa l’ultima perla di Viganò, che esplicita senza equivoci la sua posizione: “Papa Bergoglio ha affermato nella dichiarazione di Abu Dhabi che tutte le religioni sono volute da Dio. Questa è non solo un’eresia, ma una forma di gravissima apostasia e una bestemmia”.
A questo modello del Dio vendicatore e inflessibile giudice dell’ortodossia si oppongono ben altri atti, stile e parole di vicinanza al popolo che soffre, espressi dal cardinale Sepe nell’intervista a questo giornale. L’arcivescovo di Napoli è andato da solo al cimitero di Poggioreale. Dimostra vicinanza umana. Soffre per il crescere della povertà, che, come afferma, può diventare uno “status” sociale a largo raggio. Soffre per il dramma della solitudine. È preoccupato per la capacità della camorra di gestire l’assistenza meglio dello Stato.
“Cristo risorge ancora – sottolinea con forza – per confermarci il suo amore e dirci che solo attraverso la sofferenza si arriva alla luce: per Crucem ad lucem”. “Deus charitas est”: per Sepe, Dio non è il vendicatore, come per Viganò, ma è amore. Prima di essere il Dio della gloria, della potenza della Resurrezione, è il Dio della Croce. E Sepe replica anche all’irresponsabile Salvini, che ha invitato a riaprire le chiese per i riti pasquali: le chiese devono restare chiuse. Croce e Resurrezione non hanno bisogno della ritualità esteriore, dei fastosi e festosi cerimoniali, ma possono essere rivissuti “in interiore homine”, nell’interiorità dei cuori.
Come sono lontane queste parole da quelle di Viganò! E come bene corrispondono invece, quasi come un commento verbale, all’immagine inedita e sconvolgente di papa Bergoglio che incede con passo quasi zoppicante, ma guidato dalla certezza della fede, lungo il sentiero verso la Croce nella sterminata piazza San Pietro. Vuota, deserta di persone in carne ed ossa, ma piena di un afflato quasi mistico che abbraccia tutto il mondo.