Il Gramsci storico nel volume di Giuseppe Galasso
Il Risorgimento, le valutazioni su società e politica, su passato e presente nella “Vita”del filosofo sardo
Le celebrazioni del primo centenario della nascita del Partito comunista italiano daranno sicuramente nuova linfa agli studi sui suoi padri fondatori, tra cui, in prima posizione, Antonio Gramsci.
Rilievo significativo assume pertanto la ristampa, preceduta da un’acuta introduzione di Alberto Asor Rosa, della Vita di Antonio Gramsci. La biografia che Giuseppe Fiori pubblicò, per “I tipi” della Laterza, nel 1966, nel dominante clima di revisione critica della cultura e della intellettualità di sinistra propria di quegli anni. Un’opera, quella di Fiori, di grande attualità, perché, oltre a ricostruire il mondo degli affetti di Gramsci, aiuta a fare luce su tre fasi principali della vita del pensatore e rivoluzionario di Ales, fra loro indissolubilmente intrecciate.
Accanto al recupero delle radici culturali e psicologiche della formazione di Gramsci, alle sue scelte affettive e al suo dramma esistenziale, Fiori infatti si cimentò in un’analisi puntuale ed originale del suo impegno politico, segnato in particolare dal passaggio dal partito socialista al partito comunista d’Italia, del quale divenne segretario nell’agosto del 1924. E in un’appassionata descrizione della dura detenzione trascorsa nelle carceri fasciste fino alla sua morte prematura, avvenuta nell’aprile del 1937.
L’accenno di Giuseppe Fiori alla biografia di Gramsci non è casuale. In quello stesso lasso di tempo in cui il giornalista sardo, di orientamento socialista, dedicava la sua indagine alla vita del leader comunista – suscitando, soprattutto a Sinistra, un effervescente dibattito politico-culturale – Giuseppe Galasso, storico liberaldemocratico, valutando gli stretti legami tra la personalità di Gramsci e la sua riflessione storica, forniva un’approfondita disamina del giudizio gramsciano sul Risorgimento e sulla soluzione moderata dello Stato unitario. Un’analisi che fu accolta con interesse da parte di numerosi storici italiani, compresi quelli di formazione gramsciana e cattolica, che vi ravvisarono spunti molto originali. I quali, a distanza di oltre cinquant’anni, delineano un profilo di Gramsci storico che resta tuttora insuperato.
Nel 1967, Galasso, infatti, presentò al convegno di studi Gramsci e la cultura contemporanea, tenutosi a Cagliari, la relazione Gramsci e i problemi della storia italiana, con la quale si propose di spiegare “fedelmente Gramsci con Gramsci”. Galasso riteneva che per ripercorrere con obiettività la riflessione storica gramsciana, non si poteva prescindere dai Quaderni del carcere, che negli ultimi vent’anni avevano esercitato una notevole efficacia nella storiografia italiana. Per lo storico napoletano, la storia d’Italia, in particolare il problema politico del Risorgimento, era stata al centro del pensiero di Antonio Gramsci, il quale solo di scorcio aveva invece toccato nei Quaderni il tema del capitalismo italiano nel periodo risorgimentale e unitario.
Per Galasso, la riflessione del filosofo sardo sulla storia italiana dell’Ottocento, sulle origini, sulle lotte e sulle soluzioni risorgimentali, aveva affinato gli strumenti critici e la sua metodologia di storico. Gramsci era giunto alla conclusione che sarebbe stato legittimo parlare di un’età del Risorgimento a patto che la prospettiva storica fosse tutta incentrata sull’Italia, sulle sue forze autonome interne, sulla maturazione della coscienza dell’unità nazionale e del principio della indipendenza della penisola. E a patto che alla storia d’Europa si guardasse solo per evidenziare i nessi che avevano modificato la struttura dei rapporti internazionali dei Paesi che si erano sempre opposti alla formazione di uno Stato unitario italiano.
Il merito principale della lettura gramsciana del Risorgimento era pertanto da individuarsi nell’identificazione delle forze sociali che avevano dato concretezza alla soluzione politica unitaria, determinando il destino dell’Italia. Erano state le forze moderate, confluite definitivamente dopo il 1848 nella linea nazionale-unitaria, ad assumere la direzione del moto e ad esercitare nel Paese la piena egemonia sociale, politica, intellettuale e morale. Ridimensionando sia le forze della conservazione opposte al processo unitario (la Chiesa) sia il ruolo del Partito d’azione, incapace di imprimere la sua impronta nella rivoluzione nazionale con un moderno programma di governo.
La questione agraria – osservava Gramsci – sebbene mostrasse tutta la sua portata, non riuscì a determinare un’incisiva iniziativa politica del Partito d’azione in grado di coinvolgere il mondo rurale. Galasso riteneva che per Gramsci nel periodo storico risorgimentale non vi fosse stata un’alternativa al moderatismo, né vi fossero stati i presupposti per un movimento analogo a quello giacobino avutosi in Francia, che, facendo leva sul problema rurale, aveva mobilitato il contadiname a favore della rivoluzione.
A guidare il moto risorgimentale era stata invece una minoranza, che non si era proiettata né ideologicamente né economicamente verso il popolo. Cionondimeno – sottolineava con acume Galasso – Gramsci respinse categoricamente l’interpretazione del Risorgimento come “conquista regia” e vide nello “spontaneo potere” di attrazione dei moderati il vero collante della loro azione politica. A differenza del Partito d’azione, il blocco politico moderato, configurandosi come un aggregato sociale omogeneo, assunse la direzione politica nazionale. Non v’è dubbio che Gramsci formulasse dal punto di vista storico-politico una serie di considerazioni critiche sulla Sinistra risorgimentale; ma che cosa rimaneva della critica gramsciana al Partito d’azione? Nel pensiero storico di Gramsci, secondo Galasso, sussisteva una tensione non risolta tra due poli opposti.
Da un lato, vi era il risultato di un ragionamento storiografico che aveva portato Gramsci a dare un giudizio del moto risorgimentale sostanzialmente non divergente da quello della maggiore tradizione storiografica liberale (Croce, Omodeo, Chabod, Maturi); dall’altro lato, invece, Gramsci, condannando l’attività politica della Sinistra risorgimentale, stigmatizzando gli errori del Partito d’azione, aveva finito per allontanarsi dalle sue precedenti considerazioni, che lo avevano portato a condividere il giudizio dei maggiori storici liberali sul Risorgimento. Gramsci, respingendo la tesi salveminiana del Risorgimento “piccola storia”, diede un’interpretazione politica del Risorgimento medesimo, che chiarì il confronto dialettico tra le forze sociali che si contesero il predominio politico in Italia.
Nelle ultime pagine del suo saggio, Galasso indugiava sulla ricostruzione gramsciana della storia del cinquantennio unitario, soffermandosi sul trasformismo crispino, lo sviluppo industriale e il periodo giolittiano. Per Gramsci, il trasformismo fu una prosecuzione e un deterioramento qualitativo dell’egemonia dei moderati su alcuni esponenti del Partito d’azione. Il fenomeno non fu però circoscritto solo a singoli personaggi, ma riguardò interi gruppi di parlamentari, che si spostarono dalla sinistra al “campo moderato”, determinando il passaggio dall’egemonia al dominio politico concentrato nelle mani di una ristretta élite, che assunse la guida del governo del Paese.
A proposito di Crispi, Gramsci negò che il politico siciliano fosse il precursore della “nuova Italia” e del fascismo, “l’uomo forte” deciso a reprimere qualsiasi “degenerazione” democratico-parlamentare, e, facendo sua la tesi della storiografia liberale, lo definì un personaggio del Risorgimento, legato alle idealità democratico-massoniche e risoluto sostenitore dell’unità nazionale. Quanto ai problemi dello sviluppo industriale nel periodo unitario, Gramsci sostenne che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non erano nati da un disegno di carattere nazionale, ma da un progetto regionale elaborato da un ristretto gruppo di imprenditori, incapaci a dare impulso ad una diffusa industrializzazione del Paese.
Tuttavia, Gramsci riconosceva alla Destra storica il merito di aver posto, nonostante i limiti di fondo, le premesse per un moderno capitalismo ed una grande industria in Italia, che la sinistra aveva poi consolidato con l’adozione delle tariffe protezionistiche. In relazione alla dualità del sistema economico-sociale vigente in Italia, Antonio Gramsci sottolineava che l’egemonia del Nord avrebbe potuto svolgere una funzione benefica e “normale”, se l’industrialismo avesse avuto la capacità di espandersi anche in altre aree del Paese, dando origine ad una rivoluzione economica di portata nazionale. Ma, il “predominio” del Nord si configurò come un fenomeno “perpetuo” funzionale all’esistenza dell’industria settentrionale.
L’analisi del giolittismo, infine, permise a Gramsci di saldare lo studio del passato all’impegno politico del presente, di collegare meglio storia e politica. Se Crispi era stato l’uomo del Risorgimento, Giolitti, invece, era stato il nemico delle vecchie consorterie arroccate in difesa dei loro privilegi. Gramsci censurava però il disegno dello statista piemontese volto a creare nel Nord un “blocco urbano” di industriali e operai, in grado di rafforzare l’economia e l’egemonia settentrionale, riducendo il Mezzogiorno a mercato semicoloniale di vendita e fonte di risparmio e di imposte, nel quale, mentre il ceto intellettuale era allettato da una serie di favori (impieghi pubblici), il mondo rurale, sottoposto ad un severo controllo di polizia, era invece tenuto fuori dalla vita politica.
Nel concludere la sua relazione, Galasso sottolineava come Gramsci avesse più volte ribadito nei Quaderni del carcere il suo giudizio negativo sulle forze che si erano opposte al progresso della storia in Italia, alla modernizzazione del Paese, condannando l’aristocrazia terriera e la proprietà agraria in generale, con il suo tipico tratto di “borghesia rurale” parassitaria. Ma, ciò che per Galasso contava maggiormente era il fatto che Gramsci fosse riuscito ad assolvere al compito storiografico che si era prefissato, svolgendo scientificamente, sulla scorta delle sue ricerche e degli indirizzi politici maturati nella sua attività di studioso e di uomo politico, la sua interpretazione del Risorgimento.