Il Mezzogiorno di Sturzo e Gramsci
La questione meridionale secondo due punti di vista fondamentali (che non mancano, a volte, di coincidere) nel volume pubblicato da Edizione Studium
La questione meridionale è un tema di antica data. Lo dimostra il fatto che, ancora oggi, a distanza di quasi 150 anni, tale locuzione – utilizzata per la prima volta nel 1873 dal deputato radicale Antonio Billia – venga ancora utilizzata per indicare l’arretratezza e i ritardi in cui versa il Mezzogiorno d’Italia.
Ma dove vanno rintracciate le cause di tale depressione? L’approccio di due grandi politici e pensatori del Novecento, Luigi Sturzo e Antonio Gramsci, sembra divergere dalle analisi riduttive e semplicistiche con le quali fino a quel momento era stato affrontato il problema.
I meridionali sono le cause dell’arretratezza del Mezzogiorno
Il Mezzogiorno è sempre stato il grande tema dell’Italia. Se ne sono occupati in tanti, sin dai tempi remoti, come attestano del resto le numerose analisi formulate da storici, intellettuali, giornalisti, politici.
Già Antonio Serra, l’economista italiano più originale del Seicento, dedica gran parte dei suoi studi alle condizioni socio-economiche del sud Italia, accusando apertamente i meridionali di scarsa iniziativa imprenditoriale e rivolgendo poi grande attenzione alla carenza di strutture manifatturiere. Quest’ultimo rappresenta per Serra un vero problema proprio perché, secondo l’economista cosentino, l’industria è molto più redditizia dell’agricoltura e la buona disponibilità di oro e argento deriva dalla prosperità dell’economia e non il contrario.
Serra non lesina critiche nei confronti dei meridionali: essi sono gli unici responsabili dell’arretratezza del Mezzogiorno. La totale assenza di spirito imprenditoriale, l’incapacità di mettersi in gioco e di rischiare per investire sono stati a lungo il leitmotiv principale delle accuse rivolte agli italiani del sud, rei, con questo atteggiamento, di aver determinato le condizioni di inferiorità in cui versano da secoli.
Una prospettiva diversa
Per rovesciare questa prospettiva impietosa, bisognerà attendere un’analisi meno riduttiva e semplicistica della questione meridionale condotta da due esponenti di spicco del Partito popolare e del Partito comunista italiano, rispettivamente con Luigi Sturzo e Antonio Gramsci.
È possibile approfondire questo tema nel testo, ormai datato ma certamente ancora utile e attuale, di Giampaolo D’Andrea e Francesco Giasi, Luigi Sturzo-Antonio Gramsci. Il Mezzogiorno e l’Italia, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni Studium in collaborazione con la Fondazione con il Sud e la Fondazione Istituto Gramsci.
È interessante notare come le riflessioni del presbitero di Caltagirone e dell’intellettuale comunista sembrino coincidere in alcuni punti e divergere nettamente in altri, non fosse altro che per il differente approccio ideologico con cui i due grandi protagonisti della storia italiana della prima metà del Novecento affrontano il tema del Meridione.
Le analogie
Sia Sturzo che Gramsci sono perfettamente consapevoli della necessità di inserire la questione meridionale nel contesto unitario della nazione. Entrambi avversi al “centralismo burocratico” dello Stato unitario, essi auspicano uno Stato delle autonomie che in Sturzo si tradurrà in regionalismo, laddove invece in Gramsci resterà un’inclinazione indeterminata.
Se da una parte Sturzo rivendica il coinvolgimento del movimento cattolico del nord nella soluzione della questione meridionale, Gramsci sembra fare lo stesso con la classe operaia settentrionale, auspicando un’unione tra operai del nord e contadini del sud finalizzata all’abbattimento del potere borghese. Il sacerdote calatino dovrà presto constatare l’assoluta indisponibilità, da parte dei settentrionali, a collaborare viste le numerose riserve e la profonda diffidenza nei confronti dei meridionali. Gramsci, dal canto suo, ha avuto il merito di mettere al centro della politica dei comunisti italiani il tema del Mezzogiorno, fatto questo che ebbe come effetto immediato, tra l’altro, la piena adesione di Giuseppe Di Vittorio al Pci e la collaborazione di Guido Miglioli (leader del movimento contadino cattolico) con i dirigenti comunisti.
Luigi Sturzo
Il meridionalismo di Sturzo è, innanzitutto, qualcosa che accompagna la sua stessa vita e la sua esperienza politica e spirituale con l’isola più a sud del Paese. Egli non tralascia di ricordare come l’agricoltura svolga un ruolo essenziale nel territorio. La Sicilia, che egli immagina autonoma dal punto di vista amministrativo, avrebbe dovuto trarre capitali dall’iniziativa privata, mentre agricoltura e industria avrebbero dovuto essere strettamente connesse.
In quest’ottica, pertanto, diventano fondamentali il decentramento e il regionalismo. La forzata unificazione nazionale, infatti, crea i presupposti per il mancato sviluppo del Mezzogiorno non solo dal punto di vista economico e politico, ma perfino sul piano culturale e sociale. Le idee che Sturzo si forma sul decentramento e sulla necessità di realizzare un vero e proprio regionalismo nel Paese, sono influenzate dal pensiero di De Viti De Marco, di Gioacchino Ventura e persino di Nitti.
Questa impostazione diventa centrale nei programmi del nuovo Partito popolare, assieme alla convinzione che i problemi del Mezzogiorno siano prima di tutto problemi nazionali. Per far sì che il Meridione diventi davvero un ponte naturale di collegamento tra l’Africa del nord e l’Albania, la Spagna e l’Asia minore, è necessario, secondo Sturzo, superare prima di tutto il sistema doganale e il regime protezionista che fino a quel momento hanno favorito le industrie del nord a discapito del Mezzogiorno. Successivamente, risolvere il tema dell’uniformità legislativa in spregio alle tradizioni giuridico-amministrative dell’isola e, infine, attuare la riforma del sistema tributario che di fatto, così com’era strutturato, non faceva che accentuare lo squilibrio tra Nord e Sud.
Il Mezzogiorno necessita poi di una riforma agraria e, naturalmente, di nuovi indirizzi di politica internazionale, in base ai quali si possa unire l’Italia alla Jugoslavia, all’Austria, alla Cecoslovacchia e all’Ungheria, per realizzare un regime di liberi scambi. L’avvento del fascismo blocca il progetto sturziano. La ragione va ricercata nel fatto che le classi sociali alle quali il prete calatino si rivolge per realizzare il suo programma, ossia la piccola e media borghesia rurale del Mezzogiorno, finiscono per aderire apertamente a Mussolini nel quale scorgono l’uomo capace di riportare ordine nel Paese, mettendo a tacere le rivendicazioni operaie e contadine.
Per Sturzo, dunque, Mezzogiorno e Stato non sono due categorie separate ed è proprio questo dualismo che va superato, perché i meridionali sono parte integrante dell’Italia. Eppure, anche Sturzo crede che i meridionali abbiano le loro responsabilità, riscontrabili non soltanto nell’atteggiamento volto a chiedere di continuo aiuti e interventi allo Stato, ma anche nelle politiche di quanti non sono riusciti nemmeno a capire i veri problemi del Mezzogiorno. E, di conseguenza, si mostrano impreparati nel proporre soluzioni efficaci. Né bastano a Sturzo le classiche giustificazioni: la permanenza delle strutture feudali, ben oltre la data ufficiale del loro smantellamento, o la mancanza di una borghesia imprenditoriale audace, come sostiene ad esempio Serra.
Secondo il politico popolare è infatti da superare quello «stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità» [p. 74] affinché gli stessi meridionali possano creare un programma politico della questione meridionale e farlo poi diventare pensiero generale di tutti gli italiani. In un’ottica rovesciata, dunque, almeno per una volta, non bisogna aspettare la soluzione dall’esterno, ma farsi promotori attivi di una strada non solo da percorrere in prima persona, ma da far intraprendere all’intero Paese, nella certezza che i problemi del Sud si ripercuotono a catena anche nel resto d’Italia. Un tema caldo sollevato da Sturzo e, a mio avviso, di grande attualità politica, è poi il ruolo esercitato dall’alta banca e dalla finanza nel determinarsi delle condizioni economiche del Paese.
Secondo Sturzo, infatti, l’alta banca – che non è mai esistita nel Mezzogiorno – ha sempre mantenuto un dominio molto forte delle principali scelte economiche e industriali del Paese. Le industrie di natura domestica e artigiana, per fare un solo esempio, non sono appetibili per la finanza perché «ven[gono] meno col cadere delle linee doganali interne e non po[ssono] tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal mercato generale» [p. 92]. Ciò ha finito, inevitabilmente, per determinare nel Mezzogiorno la prevalenza del settore agricolo e, ciò che è peggio, è che non si tratta di un’agricoltura soltanto povera e arretrata ma anche vessata dai latifondisti, dai gabellotti, dalla mafia, dall’abigeato e dalla malaria.
D’altra parte qualcuno potrebbe obiettare che, se lo Stato non interviene con la costruzione di infrastrutture, nessun industriale sarà mai interessato a investire in queste zone del Paese. Questa impostazione, pur partendo da presupposti giusti, non è affatto condivisa da Sturzo, poiché da essa sembra evincersi quel solito atteggiamento, proprio di chi vuole che i problemi del Meridione restino di esclusivo interesse e a totale carico dei meridionali.
Dovrebbe invece diventare un problema di tutto il Paese farsi carico e risolvere le contraddizioni del Mezzogiorno, poiché se una parte dell’Italia è malata, allora tutti complessivamente ne risentono. Indubbiamente, il meridione presenta delle povertà naturali, un clima difficile e una organizzazione sociale e politica piuttosto mediocre. Eppure, ci sono state epoche in cui questa parte della penisola è stata florida. Le ragioni, secondo Sturzo, sono da ricercare nel fatto che, in quei periodi di splendore, esisteva una politica mediterranea intesa come «fatti e fenomeni politici sotto l’influsso delle economie prevalenti» [p.102].
L’unica via per poter salvare il Mezzogiorno dal degrado è, in conclusione, quella di riuscire a dar vita a una politica nazionale orientata al bacino del Mediterraneo e capace di creare a sud del Paese «un hinterland che va dall’Africa del nord all’Albania, dalla Spagna all’Asia Minore» aprendo traffici, circolazione di scambi etc. [p. 104]. In questo modo «il mezzogiorno può certo trasformarsi da un regime economico passivo ad un regime attivo, a patto che si superino le barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria e dalla legislazione uniforme e livellatrice» [p. 116].
Antonio Gramsci
Grazie all’elaborazione gramsciana della questione meridionale, già nel 1923 era chiaro a tutti i comunisti che i contadini del Mezzogiorno e delle isole avessero giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione italiana. Gramsci offre un’analisi più lucida della questione meridionale: partendo dalle critiche mosse, su Quarto Stato, da un gruppo di giovani al Pci e alla sua proposta politica circa la soluzione dei problemi del Mezzogiorno, l’intellettuale sardo non esita a rintracciare nella borghesia settentrionale la principale causa dell’arretramento del Sud, sottoposto a un regime di vero e proprio sfruttamento coloniale.
La soluzione al problema non può che essere, dunque, un’alleanza politica tra gli operai del nord e i contadini del Mezzogiorno e delle isole al fine di rovesciare la borghesia dal potere di Stato. In tal senso, la “spartizione meccanica” dei latifondi – che diventerà il tema capitale delle lotte contadine negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra – viene vista criticamente da Gramsci il quale la considera – da sola – una soluzione effimera. Del resto, cosa avrebbe mai potuto fare un contadino dopo aver occupato una terra incolta o mal coltivata? Senza risorse e senza macchinari ben poco, a meno di non volersi gettare tra le braccia di qualche usuraio. Gramsci inquadra il tema della terra e dei contadini in una cornice ben più ampia: quella, cioè, della rivoluzione di cui devono farsi promotrici le due classi alleate – operai e contadini – sotto la guida del proletariato industriale. Ma – e qui sta l’intuizione di Gramsci – per far ciò è necessaria innanzitutto una rivoluzione culturale.
Il proletariato, infatti, è impregnato della tradizione borghese che si respira dappertutto e ormai è divenuto luogo comune ben diffuso che il Mezzogiorno sia la palla al piede della penisola e che i meridionali, inferiori per natura, blocchino col loro lassismo lo sviluppo dell’Italia. Secondo la tradizione borghese, diffusasi ormai ampiamente anche presso le classi proletarie, se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è, dunque, del capitalismo o della stessa borghesia ma dei meridionali che sono per natura «barbari», «incapaci» e «criminali» [p. 166].
Gramsci aggiunge, poi, che il Mezzogiorno presenta una grande disgregazione sociale in cui sono presenti tre strati sociali: «la massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali» [p. 182].
Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero mediante la figura dell’intellettuale. Questa – sebbene Gramsci riconosca che quando si parla di Mezzogiorno non si possa fare un’analisi complessiva e indistinta poiché il Mezzogiorno continentale è profondamente diverso rispetto a quello delle isole – sarebbe però una caratteristica comune all’intero meridione. In sostanza, il riferimento è al cosiddetto “blocco agrario” che fa da intermediario e sorvegliante al capitalismo settentrionale e alle grandi banche. Questo ha il compito preciso di mantenere lo status quo. E chi sono i responsabili di tale immobilismo se non gli intellettuali meridionali che, a detta di Gramsci, hanno avuto il compito di arginare eventuali frane del blocco agrario? Tra di loro vengono annoverati persino Croce e Fortunato. Il loro settarismo vieta ai meridionali (o intellettuali medi) che cercano di uscire dal blocco agrario, di potersi esprimere sulle riviste principali.
Gramsci, d’altra parte, non nega l’influenza che Croce e Fortunato ebbero su l’Ordine Nuovo e sui comunisti torinesi, pur rivendicando, però, la rottura completa con quella impostazione a cominciare dal nuovo ruolo che il proletariato deve assumere in qualità di «protagonista moderno della storia italiana e quindi della questione meridionale» [p. 192]. È ovvio, dunque, che per spezzare il blocco agrario è necessario che il proletariato riesca a disgregare quel blocco intellettuale che ne resta «l’armatura flessibile ma resistentissima» [p. 196]. È proprio attraverso questa disgregazione che è possibile unire il proletariato e i contadini in un’ottica nazionale della soluzione della questione meridionale.